Ian McEwan si è sempre segnalato, oltre che per i suoi romanzi, per comunicare idee contro corrente. Per questo riprendiamo un estratto del suo intervento, tenuto alla cerimonia delle lauree al Dickinson College (Traduzione di Fabio Galimberti) e pubblicato oggi, 20/06/2015, a pag.51, su REPUBBLICA, con il titolo "Ragazzi, lottate per la libertà di parola". Ecco quello che intendiamo per difesa della modernità, una espressione abituale sulle nostre pagine.
Ian McEwan
Vorrei condividere con voi qualche riflessione sulla libertà di parola (e libertà di parola qui include la scrittura e la lettura, l’ascolto e il pensiero): la libertà di parola, la linfa vitale dell’esistenza, la condizione essenziale dell’educazione umanistica che avete appena ricevuto. Partiamo da una nota positiva: con ogni probabilità oggi sulla terra esiste più libertà di parola, più libertà di pensiero, più libertà di ricerca che in qualsiasi altro momento della storia conosciuta ( anche prendendo in considerazione l’età dell’oro dei cosiddetti filosofi “pagani”). Ma la libertà di parola è stata, è e sarà sempre sotto attacco: da destra, da sinistra, dal centro. L’attacco verrà da sotto i vostri piedi, dagli estremisti religiosi come da ideologie non religiose. Non è mai comodo, specialmente per i poteri più consolidati, avere tanta libertà di parola intorno. Come diceva sempre il mio defunto amico Christopher Hitchens, incontrare uno che pensa che la Terra sia piatta o che crede nella creazione può essere utile, perché ti obbliga a ricordare l’esatta ragione per cui sei convinto che la Terra sia rotonda, o ti fa scoprire se sei in grado di sostenere efficacemente la validità della teoria della selezione naturale. Per questo motivo non è un granché, come principio, mettere in prigione coloro che negano l’Olocausto o i massacri degli armeni, come fanno alcuni paesi civili, anche se si tratta di individui spregevoli. C’è una cosa che bisogna tenere a mente: la libertà di espressione è alla base di tutte le altre libertà di cui godiamo. Senza libertà di parola, la democrazia è un’impostura. Ogni libertà che possediamo o aspiriamo a possedere (l’habeas corpus, il diritto di voto, la libertà di riunione, la parità fra i sessi, la libertà di preferenza sessuale, i diritti dei bambini, i diritti degli animali… la lista potrebbe proseguire) è nata perché è stato possibile pensarla liberamente, discuterne liberamente, scriverne liberamente. Se vi allontanerete un bel po’ da queste rive, e sono sicuro che molti di voi lo faranno, scoprirete che la situazione della libertà di espressione è drammatica. In quasi tutto il Medio Oriente chi pensa liberamente rischia di subire conseguenze o di essere ucciso, per mano di governi, folle inferocite o individui motivati. Lo stesso succede in Bangladesh, in Pakistan, in ampie parti dell’Africa. Negli ultimi anni lo spazio pubblico per il libero pensiero in Russia si è ristretto. In Cina la libertà di espressione viene monitorata dallo Stato su scala industriale: solo per censurare quotidianamente la Rete, il governo di Pechino impiega qualcosa come cinquantamila burocrati, un livello di repressione del pensiero senza precedenti nella storia umana. Paradossalmente, è tanto più importante vigilare sulla libertà di espressione proprio là dov’è più florida. Ecco perché è stato così sconcertante, ultimamente, vedere decine di scrittori americani dissociarsi pubblicamente da un ricevimento del Pen in onore dei giornalisti della rivista satirica francese Charlie Hebdo assassinati a gennaio. Il Pen americano esiste per difendere e promuovere la libertà di parola. È molto deludente che un numero tanto alto di scrittori americani non abbia saputo schierarsi al fianco di altri scrittori e artisti coraggiosi in un momento tragico. C’è un fenomeno, nella vita intellettuale, che io chiamo pensiero bipolare. Non ci schieriamo con Charlie Hebdo perché potrebbe sembrare che approviamo la “guerra al terrore” di George Bush. È una forma di tribalismo intellettuale soffocante, e un modo di pensare insulso di per sé. E allora è inquietante anche il caso di Ayaan Hirsi Ali, un’ex musulmana fortemente critica nei confronti dell’islam, troppo critica per alcuni. Si è battuta contro la mutilazione genitale femminile, lei che ne è stata personalmente vittima. Si è battuta per i diritti delle donne musulmane. In un libro di recente pubblicazione ha sostenuto che l’islam, se vuole convivere più agevolmente con la modernità, deve rivedere le sue posizioni verso l’omosessualità, l’interpretazione del Corano come parola letterale di Dio, la blasfemia, le severe punizioni agli apostati. Ma Ayaan Hirsi Ali ha ricevuto minacce di morte. E soprattutto in molte università americane non è la benvenuta, e la Brandeis University ha ritirato l’offerta di una laurea honoris causa. L’islam merita rispetto, come lo merita l’ateismo. Noi vogliamo che il rispetto scorra in tutte le direzioni. L’intolleranza nei campus universitari verso oratori scomodi non è una novità. Nei lontani anni Sessanta la mia università impedì a uno psicologo di promuovere la teoria che ci fosse una componente ereditaria nell’intelligenza. Negli anni Settanta il grande biologo americano Edward Wilson fu sommerso da contestazioni che gli impedirono di parlare per aver ipotizzato che esistesse un elemento genetico nel comportamento sociale degli esseri umani. Ricordo che tutti e due venivano definiti fascisti: le loro teorie adesso sono la norma. Allargando il discorso, la Rete oggi ovviamente offre possibilità straordinarie per la libertà di parola. Ma allo stesso tempo ci ha condotti, in parte, su un terreno accidentato e inaspettato. Ha portato al lento declino dei quotidiani locali, eliminando una voce scettica e bene informata dalla scena della politica locale. La privacy è un elemento essenziale della libertà di espressione: i documenti di Snowden hanno portato alla luce un livello di sorveglianza della posta elettronica da parte delle agenzie governative smisurato quanto inutile. Un altro elemento essenziale della libertà di espressione è l’accesso all’informazione: internet ha concentrato un potere enorme nelle mani di aziende come Google, Facebook e Twitter. Dobbiamo vigilare perché non si abusi di questo potere. Quando deciderete che posizione prendere su questi problemi, spero che vi ricorderete degli anni al Dickinson College e dei romanzi che avete letto qui. La mia speranza è che vi abbiano stimolato nella direzione della libertà mentale. Il romanzo, come forma letteraria, è nato dall’Illuminismo, dalla curiosità e dal rispetto per l’individuo. Le sue tradizioni lo spingono verso il pluralismo, l’apertura, un desiderio empatico di vivere nelle menti degli altri. I sistemi totalitari hanno ragione a mettere sotto chiave i romanzieri, perché il romanzo è, o può essere, l’espressione più profonda della libertà di parola. Io spero che userete la vostra educazione umanistica per preservare a beneficio delle generazioni future questa cultura della libertà di espressione. Portate con voi queste rinomate parole di George Washington: «Se verremo privati della libertà di parola, allora, muti e silenziosi, potremo essere condotti come pecore al macello».
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