Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/06/2015, a pag. 18, con il titolo "Erdogan ammette: non governerò da solo", il commento di Elisabetta Rosaspina; a pag. 19, con il titolo "Il fattore Kurdistan", il commento di Roberto Tottoli.
Ecco gli articoli:
Elisabetta Rosaspina: "Erdogan ammette: non governerò da solo"
Elisabetta Rosaspina
Recep Tayyip Erdogan
La Borsa di Istanbul è crollata, chiudendo a -5%. Per comprare un euro ormai occorrono più di tre lire turche, e il presidente della Repubblica è silenzioso e offeso con il popolo disobbediente che ha boicottato, per la prima volta in 13 anni, le sue aspirazioni di comandante in capo. Persa la maggioranza assoluta, il suo partito, l’Akp, non potrà governare da solo né cambiare la Costituzione trasformandolo in un presidente plenipotenziario come François Hollande. O Vladimir Putin, che ieri ha cercato di consolarlo congratulandosi per la maggioranza relativa ottenuta con il 40% dei voti.
Ma Recep Tayyip Erdogan, che ovviamente non era candidato, si è limitato a un’asciutta dichiarazione scritta in cui invita le parti a valutare in modo sano e realistico i risultati tenendo presente in primo luogo il bene della nazione: «Nessun partito può governare da solo». Il vicepremier, Bulent Arinc, si è incaricato di sfidare i gruppi minoritari, come i repubblicani del Chp, i nazionalisti del Mhp, e i trionfanti filocurdi dell’Hdp, ad allearsi fra loro, se ci riescono, per governare. Poi toccherà all’Akp, o — in ultima analisi — a una nuova chiamata alle urne. Molto presto, entro un paio di mesi. Il clima di incertezza non ha smorzato l’euforia di quel 13% di eterogeneo elettorato (più del 20% dei turchi votanti all’estero) che ha deciso di ostacolare i piani di Erdogan e di portare in Parlamento, per la prima volta, il giovane partito del quarantenne curdo Selahattin Demirtas.
Nel fortino di Cumhuriyet , il quotidiano d’opposizione del quale il presidente Recep Tayyip Erdogan vorrebbe vedere il direttore, Can Dündar, all’ergastolo, l’eco della festa arriva attraverso le tivù accese in redazione: è già iniziata un’altra giornata di lavoro, dopo poche ore di sonno, per i giornalisti costantemente minacciati di manette. O di morte. Come Ceyda Karan, caporedattrice degli Esteri, sotto scorta per aver osato illustrare un suo editoriale con l’immagine della copertina dello storico numero dei superstiti di Charlie Hebdo . Non importa che anche Erdogan fosse andato a manifestare a Parigi all’insegna di «Je suis Charlie», per lei e per il collega Hikmet Çetinkaya, la giustizia turca ha chiesto 4 anni e mezzo di carcere. «Cerchiamo soltanto di fare giornalismo indipendente — osserva Ceyda —, ma per il video che dimostra il traffico d’armi con la Siria, il nostro direttore è accusato contemporaneamente di spionaggio e di mentire: si decidano, o siamo spie o siamo bugiardi. Il nostro mestiere è pubblicare tutto ciò che scopriamo».
Nel caso specifico, le immagini di un carico di munizioni scortato da agenti del Mit, il servizio segreto turco, al confine con la Siria per essere consegnato a gruppi jihadisti. Isis incluso, probabilmente. Il risultato elettorale lascia sperare che il direttore del giornale non finisca dietro le sbarre: «Attorno a noi c’è stata una grande mobilitazione, non siamo rimasti soli — assicura Ceyda —, ma certo l’Akp da oggi deve fare più attenzione a quel che dice. Sì, ci sentiamo un po’ più tranquilli, ora che è sfumato il progetto di una Repubblica presidenziale sotto Erdogan, che non concepisce una stampa libera. Ma è la mentalità mediorientale che deve cambiare: molti turchi pensano che la democrazia si esaurisca nel diritto di voto. Non basta. Compito della democrazia è arginare il potere. Gli Usa, la Ue e i media internazionali ci sostengano nella battaglia contro l’ignoranza e l’oscurantismo, per aiutarci a costruire una società laica».
Roberto Tottoli: "Il fattore Kurdistan"
Roberto Tottoli
Due donne curde celebrano il risultato elettorale
Mai come in questi ultimi anni e mesi la questione curda è diventata allo stesso tempo lontana e vicina. Lontana perché le tragedie del Vicino Oriente hanno portato alle cronache una crisi che va oltre le storiche rivendicazioni curde; vicina perché mai come ora l’elemento curdo pare un fattore di stabilità politica nella regione. Il successo dell’Hdp alle elezioni turche ha portato per la prima volta la rappresentanza curda all’interno della politica della Turchia, superando negazioni deliberate e ostinate, ma anche le contrapposizioni armate che avevano alimentato da una lato la repressione del governo e dall’altra l’epica del Pkk, il clandestino Partito dei lavoratori del Kurdistan, di quell’Ocalan che anni fa ha attraversato anche la storia italiana. Rivendicazioni e lotta politica e armata senza quartiere avevano condotto la questione curda su un binario morto, almeno fino a queste elezioni che aprono una nuova fase di partecipazione politica, per ora moderata rispetto ai tentativi autoritari di Erdogan. Ma la stessa evoluzione appartiene anche alle altre regioni curde.
Il Kurdistan iracheno, resistendo agli attacchi dell’Isis, vive attualmente in una condizione di autonomia che ha fatto dimenticare le persecuzioni di Saddam Hussein e ha dato una sostanziale stabilità alla regione. Dall’occupazione americana dell’Iraq, ha iniziato a intrecciare vari rapporti diplomatici staccandosi progressivamente dal controllo centrale con il beneplacito occidentale. Da più parti si indica o si teme che una proclamazione di indipendenza possa sollecitare progetti analoghi in altre regioni. La regione curda nel nord della Siria è, di fatto, indipendente dall’inizio della guerra civile ed è diventata famosa per la strenua difesa di Kobane. Anche qui la popolazione curda ha mostrato una forza di coesione inaspettata nel respingere gli attacchi dell’Isis, nonostante la neutralità turca. Mai come ora, quindi, i curdi godono delle simpatie internazionali.
Paiono improvvisamente un fattore di stabilità in una regione squassata da guerre civili e divisioni feroci. Eppure la loro storia nel ventesimo secolo è stata una serie di illusioni tramontate, effimere indipendenze e una frammentazione che ne ha fatto una popolazione senza nazione, divisa tra gli Stati usciti dalla dominazione coloniale e costruiti su mosaici confessionali ed etnici.
Con un’estensione poco più grande dell’Italia, il territorio curdo percorre la regione settentrionale della Mesopotamia, tra Turchia, Iran e Iraq, e in parti più piccole anche Siria e Armenia. I curdi parlano dialetti diversi ma tutti appartenenti alla medesima famiglia iranica che nulla ha a che vedere con l’arabo. Ovunque hanno sopportato isolamento e negazione della loro stessa esistenza. Ma le loro stesse divisioni politiche hanno non poco contributo a indebolirne le rivendicazioni, almeno fino a queste ultime vicende.
Il Kurdistan è un esempio in piccolo della realtà del mondo musulmano: la popolazione è in maggioranza sunnita all’interno della quale ci sono minoranze sciite e cristiane, oltre a un’infinità di altre confessioni che riflettono la storia delle regioni in cui si trovano. Il fattore religioso è però sempre stato secondario rispetto alle rivendicazioni nazionali. I partiti e le forze associative non hanno subito la crescita dell’Islam politico del resto del mondo arabo e islamico. Salafismo e jihadismo hanno fatto scarsa breccia in realtà spesso rurali più attaccate alla tradizione. Lo stesso Hdp, nella campagna elettorale turca, ha parlato di un Islam democratico, più per blandire i curdi musulmani delle regioni più tradizionali che per rivendicare l’appartenenza islamica contro Erdogan.
La politica internazionale è estremamente prudente nei confronti delle rivendicazioni curde e assiste quasi con stupore a queste ultime evoluzioni. Alla stabilità del Kurdistan iracheno e alla resistenza di Kobane in Siria, ora si aggiunge la vittoria politica di Demirtas e dell’Hdp, che ha mostrato una moderazione e capacità di frenare le ambizioni di Erdogan senza eguali. Ad oggi i curdi paiono la popolazione musulmana della regione più coesa e unita. Forse non basterà a dare vita a una nazione curda, soprattutto per l’opposizione iraniana, ma certo, nel crollo delle nazioni del Vicino Oriente, questa potrebbe essere una tentazione neppure troppo azzardata.
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