Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 08/06/2015, a pag. 31, con il titolo "L'intrigo internazionale della donna dipinta d'oro", l'analisi di Siegmund Ginzberg.
La Donna in oro di Klimt
Una lunga fila di persone in coda sotto il sole circonda la Neue Galerie. Dall’ingresso sulla 86ma strada gira l’angolo e si estende sulla Fifth Avenue, giù quasi fino all’altezza del Metropolitan. Aspettano di poter rendere visita alla Donna in oro, al dipinto di Gustav Klimt che qualcuno ha definito “la Monna Lisa austriaca”. La quale, come se non bastasse il suo fascino, è affiancata in questi giorni da una strepitosa mostra di modernisti russi inizio Novecento, tele l’una più splendida dell’altra, quanto poco conosciute, provenienti da collezioni private.
In contemporanea viene proiettato al cinema a Manhattan Woman in Gold , il film in cui Helen Mirren interpreta il ruolo di Maria Altmann, la nipote ed erede di Adele Bloch-Bauer, la signora ritratta nel dipinto. Non è un film su Klimt, né sull’unica cliente che continuò a tenere in posa praticamente per un decennio. Non risponde all’interrogativo se il pittore e la Signora abbiano avuto una relazione (e a dire il vero nemmeno lo pone). È piuttosto un legal thriller, avvincente alla maniera di quelli di John Grisham, su come l’Austria sia stata costretta a rinunciare a quello che considerava il più prezioso ed emblematico dei propri tesori d’arte, e su come il dipinto sia approdato in America.
Adele Bloch-Bauer
La vicenda ha quasi dell’incredibile. Ed è tanto complicata che non so se riuscirei a raccontarvela se non avessi visto il film. Maria Altmann aveva superato l’ottantina quando decise di adire le vie legali per recuperare i beni sottratti dai nazisti alla sua famiglia nella Vienna del dopo Anschluss, compreso quel quadro. Per mezzo secolo si era occupata solo del negozietto di moda aperto a Los Angeles dopo la fuga dall’Austria annessa da Hitler. Le consigliarono di lasciar perdere, le spiegarono che non aveva la minima chance di farsi restituire dalla Galerie Belvedere il ritratto di sua zia Adele: sarebbe stato come pretendere dal Louvre la restituzione della Gioconda di Leonardo.
Non avevano fatto i conti con l’ostinazione dell’apparentemente fragile vecchietta e del suo avvocato allora alle prime armi: Randol Schoenberg, nipote del grande musicista. Nel 1998 l’Austria aveva firmato la convenzione internazionale sulla restituzione delle opere d’arte confiscate dai nazisti, e istituito un’apposita commissione cui appellarsi. La commissione respinse il ricorso relativo ai Klimt originariamente posseduti dalla famiglia Bloch-Bauer: l’argomento fu che erano stati donati alla Galerie Belvedere per volontà scritta della stessa Adele. Di appellarsi ad una corte austriaca contro questa decisione neanche a parlarne: le leggi austriache prevedevano che il querelante depositasse prima ancora dell’inizio del procedimento una somma proporzionale al valore dei dipinti contesi, quindi enorme. Allora procedettero a far causa all’Austria nelle corti americane. Più per tigna che con la convinzione di farcela davvero. Si fecero forti di un cavillo apparentemente marginale: il Belvedere era un’istituzione estera, ma commercializzava negli Stati uniti riproduzioni di Klimt.
La contesa finì alla Corte suprema Usa, la quale non si pronunciò ovviamente nel merito, ma inaspettatamente concluse, contro il parere dello stesso governo americano, timoroso di dare la stura a conflitti internazionali senza fine, che in linea di principio la causa era ammissibile. Seguì un’intensa trattativa extra giudiziaria. “Randy” Shoenberg propose che il Belvedere si tenesse pure i sei dipinti di Klimt contesi (la Donna in oro e altri cinque), ma riconoscesse che erano stati sottratti in modo illegittimo. L’ammissione avrebbe comportato un risarcimento anziché la restituzione. Gli austriaci rifiutarono con la tracotanza consigliata dall’avarizia: «Non c’è motivo che facciamo ammenda e risarciamo per qualcosa che riteniamo legittimamente nostro». A questo punto l’avvocato Schoenberg fece ricorso a un vero e proprio colpo di genio: propose un arbitrato vincolante, da tenersi in Austria. Gli austriaci accettarono, pregustando un trionfo sicuro.
Quale collegio arbitrale austriaco avrebbe mai osato sottrarre alla Patria uno dei più noti e preziosi tesori nazionali? E invece si sbagliavano: i tre arbitri concordati dalle parti decisero, all’unanimità, di assegnare i dipinti, Donna in oro compresa, ai legittimi eredi. Ancora gli brucia. In realtà le avevano rubato anche il nome. Il primo dei dipinti di Klimt che ritraggono Adele Bloch-Bauer era stato classificato dai curatori nazisti come Donna in oro per nascondere che la modella era ebrea. L’avevano “arianizzata” esattamente come avevano fatto con le fabbriche di zucchero e tutti gli altri beni del committente e marito della signora, Ferdinand. Adele era poco più che ventenne quando agli inizi del Novecento Klimt iniziò a lavorare a questo primo ritratto. Ci mise sette anni a completarlo, e oltre duecento disegni preparatori.
Poi gli fu commissionato un secondo ritratto di Adele, molto diverso dal primo: non più l’idolo interamente avvolto in oro e simboli, ma un’elegante signora borghese con largo cappello. (Questa “Adele II”, restituita assieme all’Adele in oro, è andata a un collezionista privato, e ora è in prestito al Moma). Alle fattezze di Adele potrebbe essere ispirato anche un altro dipinto di Klimt più esplicitamente erotico, una delle due sue “Giuditte” a seno nudo. Tredici anni di posa sono una lunga frequentazione. Non ci sono prove di una relazione più intima tra pittore e modella. Maria ricordava di aver chiesto a sua mamma, che era la sorella di Adele, così come erano fratelli i rispettivi mariti, se ci fosse stata una storia d’amore tra la zia e Klimt. E di aver ricevuto una risposta indignata: «Era solo un rapporto intellettuale».
Comunque teneva nella sua camera da letto, assieme ai dipinti, una fotografia molto affettuosa di Klimt che coccola un gatto. La foto ora accoglie in gigantografia i visitatori sulla scalinata che porta al piano nobile dalla Neue Galerie di New York, quello che ospita l’“Adele I”. Adele era morta, di meningite, nel 1925. È vero che aveva espresso la volontà che i suoi ritratti andassero alla Galerie Belvedere. Ma solo dopo la morte del marito. I dipinti erano stati però brutalmente sequestrati dai nazisti ben prima della morte di Ferdinand Bloch-Bauer, assieme ad altri beni, compresa la collana d’argento che figura al collo della prima Adele, e che andò alla signora Goering.
Il Belvedere aveva fatto carte false per negare questo particolare imbarazzante: che era entrato in possesso delle opere non per donazione ma per furto con violenza. Ed è stato probabilmente questo il fattore che ha deciso l’arbitrato. Arrivata in America dopo tutte queste traversie, la Donna in oro fu venduta nel 2006 al magnate dei cosmetici Ronald Lauder per la cifra (allora record assoluto per un dipinto) di 137 milioni di dollari. Con la sola condizione che venisse permanentemente esposta al pubblico. Maria Altmann, che aveva devoluto l’intero ricavato ai parenti bisognosi e in beneficenza, è morta novantaquattrenne nel 2011. All’avvocato Schoenberg, che aveva iniziato la causa pro bono, spettava il 40 per cento del valore stimato dei beni recuperati. Lo studio legale che ha messo in piedi con questa somma è ora il più quotato al mondo in tema di recupero di beni d’arte trafugati dai nazisti. Siccome si stima che le opere ancora in attesa di restituzione siano oltre 100 mila, è presumibile che non gli mancherà il lavoro.
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