Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/06/2015, a pag. 11, con il titolo "La sua leadership perde smalto anche sul fronte mediorientale", l'analisi di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, con il titolo "Turchia, un colpo alle ambizioni di Erdogan", la cronaca di Elisabetta Rosaspina; dalla REPUBBLICA, a pag. 6, con il titolo "Demirtas, 'l'uomo nuovo' di Ankara", il commento di Marco Ansaldo.
Ecco gli articoli:
Erdogan "affetta" la democrazia in Turchia, ma non basta per vincere le elezioni
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "La sua leadership perde smalto anche sul fronte mediorientale"
Maurizio Molinari
L’esito delle elezioni politiche turche segna l’inizio della fine dell’era di Recep Tayyp Erdogan come leader indiscusso in Turchia, innescando un effetto-domino in Medio Oriente dalle imprevedibili conseguenze. Perdere la maggioranza assoluta, che aveva dal 2002, significa per il partito di Erdogan doversi affidare ad un precario governo di coalizione con gli ultranazionalisti oppure, fra 45 giorni, affrontare una nuova campagna elettorale tentando di presentarsi come unica alternativa all’instabilità. In entrambi gli scenari significa affrontare incognite a cui Erdogan non è abituato: trattative parlamentari con alleati ed avversari oppure un tentativo di rivincita che potrebbe ulteriormente indebolirlo. Ciò implica aver perso, anzitutto ad Ankara, l’aureola di leader invincibile perché portatore di una ricetta che voleva essere rivoluzionaria: l’Islam politico come forma di governo, basato sul sostegno dei ceti più poveri.
Persa l’invincibilità
Dopo 13 anni di leggi, decreti e regolamenti tesi a smantellare l’identità nazionale laica voluta da Ataturk - dalle norme per spingere le giovani donne a non andare all’università al ripristino della scrittura ottomana fino all’indebolimento delle forze armate - Erdogan si trova a fare i conti con un Paese che chiede novità, in termini di leadership, e riforme interne, dalla lotta alla corruzione alla libertà del web.
A prescindere dalle risposte che tenterà di dare ad un simile terremoto politico interno, ciò che conta per il Medio Oriente è la perdita del manto dell’invincibilità che aveva consentito ad Erdogan di perseguire, su scala regionale, il disegno di una sfera d’influenza neo-ottomana da Aleppo a Tripoli. Aiuti militari alle milizie islamiche siriane per deporre Bashar Assad, finanziamenti a grappolo alla Striscia di Gaza in mano a Hamas, invio di armi e rifornimenti ai gruppi islamici che controllano Tripoli in Libia e il duello a viso aperto con l’Egitto per difendere i Fratelli Musulmani del deposto presidente Mahmud Morsi sono mosse che, dal 2011, hanno svelato l’ambizione di Erdogan di sfruttare l’implosione del mondo arabo per trasformarsi in una sorta di nuovo Sultano. Alleandosi con l’Emiro del Qatar, con cui ha creato un consiglio strategico bilaterale, per puntare su gruppi e partiti islamici al fine di imporsi nei diversi scenari di crisi. Anche al prezzo di consentire a Isis di sfruttare la Turchia per rifornirsi di volontari ed armi.
Il ruolo in medioriente
Il risultato più importante di questa strategia è stato l’accordo con l’avversario dichiarato, l’Arabia Saudita di re Salman, per spingere il Siria le milizie finanziate dai due Stati ad unirsi dell’«Esercito della Conquista» per accelerare il rovesciamento di Assad. Ma questo edificio neo-ottomano - fondato su ideologia islamista, un esercito formidabile e ingenti risorse - si è basato sulla percezione dell’invincibilità del Sultano, che ora viene meno. Ciò significa che alleati più o meno vassalli di Erdogan - da Hamas ad Al Nusra - percepiscono la vulnerabilità del protettore e cercheranno nuovi riferimenti. È un processo destinato a scompaginare lo schieramento islamista sunnita filo-turco. Saranno le prossime settimane a suggerire se le potenze regionali rivali riusciranno a fare veloci acquisti fra i vulnerabili alleati del Sultano indebolito. Oppure se Erdogan sceglierà di alzare il tiro e riaffermare con autorità l’obiettivo neo-ottomano al fine di riguadagnare terreno in patria.
CORRIERE della SERA - Elisabetta Rosaspina: "Turchia, un colpo alle ambizioni di Erdogan"
Elisabetta Rosaspina
Tutti gli occhi su Selahattin Demirtas, il piccolo Davide curdo che, con il suo 13%, ha trionfato sul gigante Golia. All’Akp, il Partito Giustizia e Sviluppo del presidente islamico e conservatore Recep Tayyip Erdogan, non basta il 41% dei voti per governare la Turchia. Non da solo, perlomeno. Tantomeno riunendo in una sola carica i poteri di capo dello Stato e di primo ministro. È finito il sogno di grandezza del «Sultano». Sempre che non si sia preparato un piano B.
Dopo una giornata da incubo con allarmi sui brogli che scattavano (spesso a vuoto) in tutto il Paese, le urne sembrano aver restituito una fotografia piuttosto precisa e sincera della volontà dell’elettorato turco: no a una Repubblica presidenziale. «No alla dittatura» ha rafforzato il concetto il leader che schiererà in Parlamento 80 uomini contro i 255 del partito di maggioranza, al potere negli ultimi tredici anni praticamente senza opposizione. Con il suo 13,03%, Demirtas, copresidente con una donna, Figen Yüksekdağ, del partito filocurdo Hdp, rappresenta la svolta. Prudente: «Non abbandonate i seggi fino alla fine — ha raccomandato ai suoi militanti via Twitter —, nessuno vada per strada a festeggiare. Meritate di essere felici, ma non ora».
Pacato anche il suo commento post elettorale, all’ora di cena in un ristorante di Istanbul: «La discussione su una Repubblica presidenziale finisce qui, con queste elezioni». Come sarebbe fuori questione qualunque accordo con l’Akp. Se vorrà governare con un minimo di agio, il primo ministro Ahmet Davutoglu (o chiunque altro la rabbia di Erdogan voglia mettere al suo posto) dovrà cercarsi altri alleati: forse i nazionalisti dell’Mhp, che possono portargli in dote altri 82 seggi. Oppure, con qualche probabilità d’intesa in meno, i kemalisti repubblicani del Chp, che occuperanno ben 133 seggi. Ma non manca chi vaticina elezioni anticipate entro 45 giorni: l’unica arma a disposizione del Partito Giustizia e Sviluppo per tentare di ridistribuire le carte. Ieri però ha vinto un’altra eterogenea e multietnica coalizione, quella degli esclusi dalla corte neo ottomana di Erdogan: curdi, armeni, aleviti, cristiani, omosessuali, donne, delusi dalla sinistra, reduci di Gezi Park. Ma anche molti intellettuali, accademici, giornalisti, perfino elettori dell’Akp contrari al sistema presidenziale.
Uno per uno, erano fastidiosi come moscerini da schiacciare senza difficoltà. Tutti insieme, sono riusciti a sbarrare la strada al presidente. In politica da otto anni, Demirtas, 42 anni, è un avvocato difensore dei diritti umani che è riuscito a conquistare quasi 2 milioni di voti in più rispetto alle Presidenziali dell’anno scorso, quando ottenne il 9,7%, 3,9 milioni di voti, contro i 5,8 di ieri. «Non possono fermarci» aveva detto tre giorni fa, quando due ordigni erano esplosi uccidendo tre persone e ferendone un centinaio al suo ultimo comizio a Diyarbakir.
LA REPUBBLICA - Marco Ansaldo: "Demirtas, 'l'uomo nuovo' di Ankara"
Marco Ansaldo Selahattin Demirtas
È un curdo l’uomo nuovo della politica turca. Giovane (42 anni), carismatico (sa parlare bene in pubblico), progressista (nel suo programma la difesa delle donne e degli omosessuali), liberale (vicino alle istanze europee). Si chiama Selahattin Demirtas, avvocato per i diritti umani. Erdogan in campagna elettorale lo ha definito «un intrattenitore da bar».
In concreto rappresenta l’altra faccia del Pkk di Abdullah Ocalan, cioè il volto pulito dei curdi, privo delle incrostazioni dovute ai lunghi anni di guerriglia. In camicia bianca e senza cravatta, in campagna elettorale Demirtas ha tenuto uno stile rilassato e poco emotivo. Ha saputo desistere alle lusinghe di Erdogan e ha detto di no a qualsiasi ipotesi di intesa con il partito conservatore di origine islamica. Si è così presentato all’elettorato curdo, ma pure al ceto medio e ai potenziali astensionisti, come la sola opposizione credibile di fronte ai vecchi partiti tradizionali di destra e di sinistra.
Dice a Repubblica un manager europeo che vive da anni a Istanbul: «Se questo ragazzo non si rovina, rischia di diventare l’uomo su cui una certa Turchia può puntare. È serio, motivato, e molto in gamba. La sua formazione è un ombrello sotto il quale ha riunito una serie di minoranze, anche quella alauita, quella turcomanna e altre. Se continua così, Demirtas convoglierà intorno a sé il consenso dei giovani. E questo aspetto potrà diventare decisivo».
Oggi il partito curdo Hdp rappresenta un vero e proprio laboratorio politico. La metà dei candidati in lista sono donne e nel centinaio di consigli comunali guidati dalla sinistra filocurda la co-presidenza è composta da un uomo e da una donna. «Ma non siamo Podemos — dice il loro candidato di punta, il sociologo Hisyar Ozsoy — Come loro vogliamo dare voce a tutti. Ma non siamo una forza anti-politica».
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