Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 05/06/2015, a pag. 44, con il titolo "Modiano: 'Quando scrivo mi sento un annegato che cerca di tornare in superficie' ", l'intervista di Alex Vicente a Patrick Modiano.
Alex Vicente Patrick Modiano
«Uno scrittore, o per lo meno un romanziere, spesso ha un rapporto difficile con la parola. Nella distinzione scolastica fra orale e scritto, si trova più a suo agio con il secondo», ha dichiarato sei mesi fa, al momento di ricevere il Nobel per la letteratura, Patrick Modiano, nato a Boulogne-Billancourt nel 1945. Mi torna in mente quella frase quando lo scrittore apre la porta del suo appartamento, vicino ai Giardini del Lussemburgo.
La copertina dell'ultimo romanzo di Patrick Modiano
Modiano parla con un balbettamento improprio per un uomo della sua età e uno scrittore della sua levatura. Al tempo stesso, però, le sue frasi racchiudono una profondità a tratti sconvolgente, dissimulata fra risate nervose, discorsi lasciati a metà ed esitazioni imbarazzate. Poco incline alle interviste, Modiano ha fatto un’eccezione per presentare il suo ultimo romanzo, Perché tu non ti perda nel quartiere (tradotto in Italia da Einaudi). Il protagonista è Jean Daragane, uno scrittore solitario (evidente alter ego dell’autore) che riceve la chiamata di uno sconosciuto il quale ha trovato la sua agenda nel vagone di un treno. L’insistente interesse dell’uomo per uno dei nomi scritti nella rubrica, che Daragane nemmeno ricorda, obbligherà questo smemorato selettivo a passare al setaccio il suo passato per riportare alla memoria un episodio che segnò la sua infanzia: la madre lo affidò alle cure di un’amica in una casa nei sobborghi, da cui entravano e uscivano sconosciuti misteriosi.
Il libro si ispira alla biografia dell’autore stesso. Modiano, figlio di un ebreo italiano che successivamente fece affari con i nazisti e di un’attrice fiamminga «con il cuore secco», fu ripetutamente abbandonato, insieme a suo fratello, in case estranee. Rivide i suoi genitori solo dopo aver compiuto diciassette anni. Trasformato in detective della memoria, lo scrittore adesso mette ordine in quell’episodio traumatico.
Che cosa è cambiato per lei dopo il Nobel? «Inizialmente sono rimasto attonito. Mi sentivo sdoppiato, come se stessero assegnando il premio a un altro che si chiama- come me. Se uno pensa agli scrittori che hanno ricevuto il Nobel, entrare in quella lista sembra una violazione di domicilio. L’unica cosa che mi preoccupava era che non sarei più riuscito a scrivere».
Ed è successo così? «No, per fortuna. Mi sono reso conto che devo proseguire a scrivere. Non mi resta altra soluzione, perché continuo a sentire un’insoddisfazione. Quando finisco un romanzo, ho sempre la sensazione di non aver scritto quello che avrei voluto».
Il Nobel ha trasformato il suo rapporto con gli altri? Si sente a suo agio con la fama che le ha procurato? «Capita più di frequente che qualcuno mi riconosca per strada, ma suppongo che durerà poco. Ho sempre l’impressione di non essere all’altezza di quello che gli altri si aspettano da me. I francesi che hanno ricevuto il premio prima di me erano scrittori, ma anche grandi intellettuali: Anatole France, Romain Rolland, Jean-Paul Sartre, o anche André Gide e Albert Camus. Io non sono niente di tutto questo. Sono solo un romanziere».
Il suo ultimo romanzo torna a indagare nei meccanismi della memoria. Per lei ricordare è un esercizio piacevole o doloroso? «Può essere entrambe le cose, a seconda se è motivo di ansia o l’evocazione di un paradiso perduto. La psicanalisi non mi ha mai interessato come terapia, ma il libro si ispira a un concetto che mi appassiona, i “ricordi di copertura” di cui parlò Freud, che nascondono eventi traumatici dei primi anni di vita».
È anche uno dei suoi libri più autobiografici, che esplora un capitolo della sua infanzia. «Non volevo annoiare nessuno con la mia biografia, però la mia infanzia, che è stata piuttosto difficile, spiega gran parte di quello che scrivo. La maggior parte dei bambini ha una struttura familiare solida. Il mio caso era il contrario: non esisteva proprio una struttura. I miei genitori avevano l’abitudine di abbandonarmi con degli sconosciuti. A me sembrava normale. È stato molto dopo che ho capito che di normale quella situazione non aveva nulla».
Nel suo discorso alla premiazione del Nobel ha parlato degli episodi traumatici come motore creativo per qualsiasi artista. L’abbandono da parte dei genitori è stata l’esperienza traumatica che si è trasformata in matrice di creazione? «Quando lo dice in forma così chiara, mi sembra perfettamente sensato. Ma al tempo stesso la sua domanda mi sembra terribile, perché mi obbliga a fare tropva pa luce su quel mistero. Sì, suppongo che sia stato questo che mi ha spinto a diventare romanziere: trovare risposte agli enigmi della mia gioventù e capire chi erano quegli sconosciuti a cui i miei genitori mi affidavano. Pensavo che la narrativa mi avrebbe aiutato a capirlo meglio. Ancora oggi, quando prendo appunti per un nuovo progetto di romanzo, la prima immagine che mi compare in mente è sempre la stessa: una casa che non riesco a localizzare sulla mappa. Non mi è mai interessata la psicanalisi come terapia: in fondo, non volevo curarmi».
Lei ha detto che la letteratura è la cosa che riesce meglio a tradurre «l’angoscia contemporanea». In cosa consiste questo malessere? «Anche quando uno scrittore vive rinchiuso in una torre di avorio, sta sempre traducendo l’era in cui vive, è imbevuto delle angosce del suo tempo. Di solito non parlo della vita politica, però viviamo in un momento difficile. Forse non siamo capaci di vivere in tempi sereni».
Nel suo romanzo ha introdotto un computer. Visto che è noto per il suo scetticismo nei confronti della tecnologia, ne deduco che non si tratta di una scelta priva di significato. «Mi sono sempre chiesto se ci sono cose che resistono al computer o se internet ormai riesce a rispondere a tutte le nostre domande. Ovviamente non è così: come la memoria, anche internet non è perfetta. Ora ho un computer e perfino un cellulare, anche se non lo uso molto perché mi sbaglio sempre con i tasti. Sarebbe più pratico scrivere con il computer, ma continuo a scrivere a mano. La scrittura è un’attività così astratta che ho bisogno della materialità della penna e della carta. La verità è che a volte mi sembra di essere un dinosauro».
Lei non si esprime quasi mai sulla vita politica. Ma in una delle sue prime interviste, nel 1969, criticò il Maggio 68, definendolo «una fuga violenta che non poggia su nulla di positivo». «Esagerarono quello che volevo dire. Non ho fatto studi superiori, e quindi non facevo parte degli ambienti universitari da cui nacque la rivolta. Mi è sempre sembrata una sorta di remake messo in scena da giovani nostalgici di epoche che non avevano vissuto: la Guerra Civile spagnola, la resistenza contro i nazisti o l’utopia rivoluzionaria. Siamo stati una generazione privilegiata che ha vissuto in tempo di pace e ha dovuto ricreare quelle emozioni forti in una sorta di psicodramma o simulacro».
Direbbe che non è mai stato un giovane come gli altri? «O forse invece sì, lo sono stato, perché la gioventù è l’epoca della più grande delle incertezze. Ho cominciato a scrivere come un affogato che cerca di tornare in superficie. Avevo vent’anni e la mia situazione era preoccupante. Ero bloccato in una specie di marasma, mi sentivo alla deriva. Mi dissi che se non facevo niente correvo il rischio di impantanarmi. Scelsi una cosa chimerica come mettermi a scrivere. La cosa sorprendente è che ho passato tutta la vita a farlo. Ormai sono cinquant’anni…».
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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