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La Repubblica Rassegna Stampa
03.06.2015 BeerSheva, la 'capitale' del deserto d'Israele che sta cambiando volto grazie all'high-tech
Analisi di Fabio Scuto, Riccardo Luna

Testata: La Repubblica
Data: 03 giugno 2015
Pagina: 30
Autore: Fabio Scuto - Riccardo Luna
Titolo: «La Silicon Valley d'Israele - Tecnologia militare e immigrati, così è nata la 'Startup Nation'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 03/06/2015, a pag. 30-31, con il titolo "La Silicon Valley d'Israele", l'analisi di Fabio Scuto; con il titolo "Tecnologia militare e immigrati, così è nata la 'Startup Nation' ", l'analisi di Riccardo Luna.

Ecco gli articoli:

Fabio Scuto: "La Silicon Valley d'Israele"

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Fabio Scuto

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Tel Aviv, il cuore della Silicon Wadi

David Ben Gurion, il padre di Israele, sognava che un giorno le dune di sabbia del deserto nel sud potessero diventare con il lavoro dei coloni il granaio della Patria, piantagioni ad alto rendimento, coltivazioni che avrebbero potuto sfamare milioni di persone. In parte il sogno si è avverato, campi di ortaggi e frutta esotica hanno reso celebri le Fattorie di Arava. Ma nella skyline della “capitale” del deserto israeliano svettano adesso anche scintillanti grattacieli di vetro e cemento, grandi complessi di architettura avveniristica spuntano come funghi, nella Negev Mall Tower ogni piano è grande come 4 campi di calcio, le grandi gru che sollevano i pannelli di vetro non si fermano un attimo. Cinque grattacieli alti oltre 100 metri sono il nuovo profilo di Beersheva e la città cambierà ancora molto, e in brevissimo tempo. Molte sopracciglia si sono sollevate nel 2013 quando il premier Benjamin Netanyahu promise che la città sarebbe diventata «il più importante cybercenter dell’emisfero occidentale».


BeerSheva

Sembrava soltanto la promessa di un politico navigato, invece la “capitale del Negev” è in corsa per diventare davvero il più importante centro di ricerca e sviluppo per l’informatica e l’hi-tech. Lo scorso gennaio la prestigiosa Brandeis University del Massachussetts ha pubblicato uno studio che classifica Beersheva come la prima delle sette città al mondo che emergeranno nel futuro come importanti centri di hi-tech. Perché Israele, con una popolazione di meno di 7 milioni di abitanti, in stato di guerra permanente con quasi tutti i suoi vicini e privo di risorse naturali, è da anni il centro propulsore del software mondiale, dove le major del settore da Google a Microsoft, da Samsung a Paypal, hanno messo radici profonde assumendo migliaia di informatici. Israele è il Paese in grado di attrarre investimenti in capital ventures più di ogni altro al mondo. Perché un esercito di ingegneri, matematici, informatici e fisici ha messo negli ultimi dieci anni la sua competenza nella sicurezza informatica, archivio dati, comunicazioni mobili che hanno portato l’economia israeliana dai pompelmi alle app.

La “chiavetta” che usate nel vostro pc per connettervi a Internet è prodotta in Cina ma l’ha inventata un ingegnere israeliano, così come più della metà delle app per gli smartphone. La differenza fra la Silicon Valley californiana e la “Silicon Wadi” israeliana è davvero ormai molto sottile. Al punto che la “El Al” ha ricevuto una valanga di lettere di viaggiatori che chiedono di mettere in prima possibile un volo diretto Tel Aviv- San Francisco ed evitare così alle centinaia di pendolari informatici israeliani che lavorano in California il cambio di aereo a New York. I dati diffusi dal National Cyber Bureau, ente nato solo nel 2011 impegnato a sostenere start-up con diverse forme di finanziamento, dimostrano che il 10% delle vendite globali di computer e tecnologie per la sicurezza, riguarda aziende israeliane che hanno venduto programmi per 6 miliardi di dollari, cioè l’8% del fatturato mondiale del settore.

«I dati dimostrano che Israele è diventato un partner chiave nel cyber-mondo», ci dice il professor Isaac Ben-Israel capo del Cyber Research Center dell’Università di Tel Aviv, «una delle ragioni risiede nella politica su questo settore, strategico nella Difesa nazionale ma anche nello sviluppo economico; il sistema economico ha incoraggiato la ricerca e l’innovazione e ha messo Israele in prima fila nel mondo». Certo molto di ciò che viene realizzato nell’hi-tech è certamente legato alle aziende della Difesa — come la Rafael Advanced Defence Systems che ha “inventato” i droni e l’Iron Dome e sta mettendo sul mercato “Protector” uno scafo senza marinai per pattugliare le coste a basso costo che si guida con un joystick dalla terraferma. Ma anche oltre l’aspetto militare Israele è da anni dentro una cyberwar senza fine. Le sue reti informatiche sono le più hackerate da ogni parte del mondo, con migliaia di attacchi al giorno.

Nella guerra di Gaza della scorsa estate i siti governativi hanno subito milioni di attacchi. Poi ci sono le reti civili, la El Al, l’aeroporto di Tel Aviv, la Banca centrale, quelle private, la Borsa, le reti cellulari. «Una guerra invisibile che si av- verte e si avvertirà sempre di più», è l’opinione più condivisa con il premier Netanyahu. Una Start Up Nation non si costruisce in un giorno né con un tratto di penna. In Israele l’informatica accompagna di alunni dalle scuole medie in poi, i selezionatori dell’Idf girano negli istituti superiori in cerca di talenti e i migliori — superate una lunga serie di prove — presteranno servizio presso la mitica Unità 8200, quella che si occupa della cyberwar. Finiti i tre anni di servizio militare, gli appartenenti all’Unità possono sviluppare e commercializzare le loro invenzioni sul mercato civile se la Difesa non le giudica strategiche. Ha prodotto più milionari l’Unità 8200 che qualsiasi altra Business School in Israele.

La maggior parte degli utilizzatori dell’app Stylit — usato per scegliere modelli in base alla vostra taglia e molto apprezzata negli Usa dai grandi marchi della moda pronta — non sa che l’inventore Yaniv Nissim, un veterano dell’8200, ha usato una tecnologia sviluppata in origine per prevenire gli attacchi kamikaze. Accusati di voler soltanto far denaro, i veterani dell’8200 molto spesso partecipano alle Hackatlon, le maratone informatiche a scopi benefici piuttosto frequenti in Israele. Nell’ultima hanno creato una app geniale (e gratuita) per le persone sorde che converte gli annunci audio delle stazioni ferroviarie, degli aeroporti o sui bus, in sms sul cellulare.

Oggi con l’Università Ben Gurion e suo Technology Park Beersheva si candida a sfilare a Herziliya la corona di regina dell’Informatica. Le centinaia di edifici in costruzione per oltre un milione di metri quadrati danno la dimensione che la Capitale del deserto, cambierà volto e assai rapidamente. I suoi abitanti raddoppieranno nell’arco del prossimo anno e le major dell’hi-tech stanno già scegliendo sedi prestigiose. Perché qui verranno trasferiti i militari attualmente impiegati nelle basi aeree di Glilot e quelli dell’8200 che stanno a Ramat Gan.

Una spinta importante per la città. Perché oltre ad essere una fucina di cybertalent le unità militari sono anche grandi clienti delle multinazionali informatiche che hanno tutto l’interesse a investire in questa zona. Le aziende già operanti nel Techology Park di Beersheva sono già una miriade, locali e straniere, come Ness Tchnologies, Deutsche Telecom, Rad, Lockeed Martin, Elbit Systems. Ma anche decine di piccole altre start-up dai nomi esotici come “Sorento”, “Ravello”, “Patagonia” dietro le quali ci sono tre-quattro ingegneri informatici israeliani che sperano di bissare il successo di “Waze”, il navigatoresocial comprato da Google per un miliardo di dollari. La più costosa acquisizione della (breve) storia dell’informatica.

Riccardo Luna: "Tecnologia militare e immigrati, così è nata la 'Startup Nation' "

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Riccardo Luna

Startup Nation, il paese delle startup, è una definizione felice sulla quale Israele in questi anni ha giustamente fatto del marketing dell’innovazione. La storia non è di oggi. Quando nel 2009 uscì il libro “Startup Nation” il successo fu immediato: quel libro non è diventato solo un best-seller, è diventato un classico, consigliato nelle business school di tutto il mondo quale caso da studiare per capire come si fa davvero innovazione pur non essendo in Silicon Valley. “Startup Nation” in effetti fornisce alcune risposte originali. Lo avevano scritto Dan Singer, un ex diplomatico americano che conosceva bene il Medio Oriente; e Saul Singer, un commentatore del Jerusalem Post. Insomma, due conoscitori della materia tutt’altro che improvvisati. Tra i motivi del successo di Israele nel creare un terreno fertile alla nascita di startup di successo, due sembrarono davvero peculiari: il ruolo delle forze armate e in particolare il servizio di leva obbligatorio quale presupposto per far sviluppare competenze tecnologiche e una rete di contatti ai giovani israeliani; e la cultura risk-taking degli immigrati, ovvero la predisposizione al rischio e a mettersi continuamente in gioco dei tanti ebrei che ogni anno decidono di mollare tutto e ripartire da Israele. Naturalmente gli ingredienti della Startup Nation non erano solo questi: c’era il ruolo centrale delle università e dei centri di ricerca che sfornano brevetti a getto continuo; e il peso degli investimenti pubblici e privati. Ma quelle sono cose piuttosto note e già viste, mentre il ruolo delle forze armate e dell’immigrazione erano abbastanza nuove e particolari per alimentare un dibattito globale. Partendo da lì Israele si è insomma posizionata come una alternativa alla Silicon Valley, proponendo il racconto di un diverso modello di sviluppo per arrivare agli stessi strabilianti risultati della California. Non a caso in questi anni le ambasciate israeliane nel mondo si sono prodigate per organizzare viaggi di studio a Tel Aviv per far studiare da vicino la Startup Nation. Alimentando la convinzione che non occorra essere la ricchissima (e coltissima) California per provare a essere il motore del mondo. Questo racconto naturalmente ha avuto molto successo anche in Italia e in qualche modo se ne è sentita l’eco in alcuni discorsi di Enrico Letta quando era presidente del Consiglio («Il mio governo è come una startup », disse in un incubatore a Trento); e più ancora di Matteo Renzi quando era solo un candidato alle primarie («L’Italia può essere la più bella startup del mondo»). Parole a parte, molte cose sono state fatte per rendere l’Italia non una “Startup Nation”, ma almeno un paese che non sia dichiaratamente nemico di chi vuole fare impresa e in particolare una impresa innovativa. Il prossimo passo è imminente: a fine giugno parte finalmente un fondo di investimento in startup di Invitalia (l’agenzia del ministero dello Sviluppo Economico). Sul piatto ci sono 50 milioni di euro: non sono tanti, ma neppure pochissimi. Si propone di dare ad ogni startup non meno di 500 mila euro; facendo due conti, potrebbe far fare un salto a 100 aziende in rampa di lancio. La direzione sembra quella giusta.

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