Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 03/06/2015, a pag. 1-4, con il titolo "Perché le elezioni turche sono le più importanti (e non solo per Erdogan)", l'analisi di Daniele Raineri.
Daniele Raineri
Erdogan il sultano
Domenica ci sono le elezioni in Turchia e il paese le attende come un momento importantissimo perché ne uscirà cambiato. Il gioco politico è preso sul serio: i comizi raccolgono centinaia di migliaia di ascoltatori e la media dei votanti si aggira attorno all’ottanta per cento, molto superiore a quelle fiacchissime delle democrazie della Vecchia Europa. Anche fuori dai confini queste elezioni sono osservate con attenzione: la Turchia sunnita è al centro di una questione complessa, è il secondo esercito della Nato, confina direttamente con lo Stato islamico, l’Iraq e l’Iran, vuole la fine del presidente siriano Bashar el Assad, ha interessi nella guerra in Libia.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan considera l’appuntamento di domenica come il culmine della sua corsa irripetibile di vincente, il balzo dopo l’accelerazione: il suo partito della Giustizia e dello sviluppo, l’Akp, ha vinto consecutivamente tutte le sette elezioni generali, locali e presidenziali dal momento della fondazione nel 2001, più due referendum. Alle ultime elezioni legislative, nel 2011, è arrivato sopra il 50 per cento. Erdogan stesso ha fatto tre mandati da primo ministro e poi l’anno scorso ha vinto le prime elezioni presidenziali dirette, senza bisogno di ballottaggio. Il presidente ha un piano in mente per queste elezioni: trasformare la Turchia in paese ancora più presidenziale e concentrare più potere nelle sue mani – cosa che fa parlare il giornale israeliano Haaretz di “putinizzazione” alla turca. Per portare a compimento questo piano Erdogan ha però bisogno di una maggioranza dei tre quinti dei seggi dell’Assemblea, 330 su 550, che è lasoglia necessaria per indire un referendum sugli emendamenti costituzionali che ha in mente.
Il balzo che Erdogan deve fare a questo giro sembra lungo persino per lui e s’incrocia con l’altra grande questione delle elezioni di domenica, la lotta curda. Per la prima volta i curdi (minoranza turca di 17 milioni di persone) si presentano al voto con un partito, invece che con candidati singoli. E’ l’effetto del processo di pace con Ankara che nasce dal disastro della porta accanto, vale a dire la guerra civile in Siria e l’ascesa dello Stato islamico di Abu Bakr al Baghdadi, appena al di là del confine. I curdi ora hanno un partito, l’Hdp, che però potrebbe non passare la soglia di sbarramento del dieci per cento. Se questo accadesse, due sarebbero le conseguenze: i voti sarebbero ripartiti automaticamente fra i partiti vincenti, e questo darebbe una grande spinta a Erdogan – e al suo disegno presidenziale: la seconda conseguenza è che i curdi delusi potrebbero tornare a simpatie più radicali.
Quest’anno ci sono state decine di morti in scontri tra la polizia turca e i manifestanti curdi, e in alcune città del sud è stato imposto un coprifuoco temporaneo. I manifestanti curdi rimproveravano al governo turco di non fare nulla per impedire il massacro di Kobane, il cantone siriano appena al di là del confine dove lo Stato islamico ha tentato assalti per cinque mesi – sfiorando la vittoria. La resistenza dei curdi e i bombardamenti americani ebbero la meglio. Erdogan sulla questione islamista sta tentando una posizione di compromesso che alcuni giudicano ambigua. Ha riallacciato le relazioni con i sauditi, andando in visita al nuovo re Salman a marzo, e sta smussando i contrasti con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, reo ai suoi occhi di avere spodestato il suo emulo, Mohammed Morsi.
In Siria il governo di Erdogan è accusato di appoggiare il nuovo gruppo guerrigliero che sta ottenendo vittorie brillanti contro i soldati di Assad, il Jaysh al Fath, l’Esercito della conquista, di cui però fa parte anche al Qaida. In questo momento Ankara è alle prese con lo scandalo di un video che mostra suoi camion carichi di armi oltrepassare il confine siriano. L’anno scorso Erdogan ha risolto abilmente la crisi dei 49 ostaggi turchi rimasti prigionieri dello Stato islamico a Mosul, in Iraq, ma dopo di allora si è tenuto di lato nella guerra più o meno generalizzata contro lo Stato islamico – c’è chi dice per non esacerbare il problema dell’estremismo interno turco. In Libia il suo governo sostiene gli islamisti di Tripoli, ed è quindi un interlocutore indispensabile anche lì per chiudere la guerra civile. La Turchia oggi c’entra con tutto; e pensare che fino al 2011 teorizzava una posizione detta dei “zero problemi con i vicini” come guida della politica estera.
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