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La Repubblica Rassegna Stampa
31.05.2015 In fuga dallo Stato Islamico: elogio del popolo curdo
Racconto di Monika Bulaj

Testata: La Repubblica
Data: 31 maggio 2015
Pagina: 30
Autore: Monika Bulaj
Titolo: «Fuga dall'Is»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 31/05/2015, a pag.30-31, con il titolo " Fuga dall'Is ", il racconto di Monika Bulay, giornalista e fotografa.


Monika Bulaj

Risultati immagini per popolo curdo

Quella sera a Istambul penso di aver sbagliato imbarco. L'aereo su cui mi trovo non put) essere diretto in Iraq. A bordo ci sono donne di bellezza ed eleganza principesca, bambine in divise variopinte ,regali lussuosamente infiocchettati, un' aria da festa contagiosa e leggera. E invece no, sono sul volo giusto. E la vigilia della festa di Novruz, il capodanno persiano, e sto assistendo al surreale rientro in patria dei migranti curdi dalla città del Bosforo. Di notte, il respiro dei neonati culla il nostro aereo in rotta verso la guerra. Come vent'anni fa nei Balcani, tutto, oggi in Medio Oriente, celebra l'intima vicinanza tra normalità e orrore.
Per esempio. Laddove i monti Zagros sembrano ancora incerti se diventare o meno pianura, sospesi sulla smisurata distesa alluvionale del Tigri segnata da fosse comuni, violenze, popoli in fuga, orrori firmati Is e bombardamenti del governo di Baghdad sui suoi stessi civili intrappolati, eccoti la sorpresa di Sulaymaniyya, città dalle mille e una luce, Dubai dal volto umano, un'oasi di pace a un centinaio di chilometri dalla guerra. Sulaymaniyya dai marciapiedi ben fatti, dai parchi di raffinata bellezza, con i poeti in marmo su piedistalli — e i tassisti di un'onestà disarmante. In questa città a maggioranza curda nessuno chiude a chiave la porta di casa, nemmeno la notte. Non la chiudono neanche i medici e infermieri italiani di Emergency distaccati in questa regione dell'Iraq. È come se li sentissi tirare il fiato proprio qui, nel cuore di uno dei Paesi più infelici della Terra. È con loro che seguo i popoli in cerca di aiuto nella tempesta dell'estremismo islamista e la fuga degli arabi sunniti dalla loro stessa identità. Campi profughi per masse che nessuno riesce più a contare. Un milione? «Appaiono di qua e di là... sbucano dal nulla come portati dal vento, respinti da tutti».
Per celebrare il Novruz, Faris il curdo, direttore del reparto riabilitazione, suona il liuto con infinita dolcezza e dice: «Sì, noi curdi riceviamo i profughi arabi. Impensabile il contrario». Proprio la terra che ha sofferto più migrazioni — talmente tante da avere ben sette nomi per definire ciò che in Europa ne ha uno solo, "esodo" — è diventato l'ultimo rifugio del Medio Oriente per i civili iracheni e siriani in fuga.
A Sulaymaniyya, nell'antica chiesa cal-dea dedicata alla Vergine Maria, in un vecchioquartiere di artigiani del sapone, trovo Miryam, sette anni, grandi occhi neri pieni ancora di meraviglia. I suoi vi hanno trovato rifugio dalla furia dell'Is. Sono i cristiani di Qaraqosh, simbolo stesso della complessità del Medio Oriente: curdi iracheni che non parlano curdo, ma pregano in arabo e parlano in aramaico. Qui sono un centinaio, insegnanti e medici, commercianti, artigiani, un veterinario. La donna che mi porta il tè con le mandorle tostate ha un fratello rapito dalle milizie dell'Is. In questa stessa chiesa è stata trasferita a suo tempo la comunità monastica siriana fondata nel 1984 a Deir Mar Musa da padre Paolo Dall'Oglio, rapito due anni fa e del quale non si hanno più notizie. Oggi è rimasto un solo monaco, padre Jens, tedesco dalla vita romanzesca,  figlio di un militare della Wehrmacht rimasto a Creta dopo la sconfitta nazista. L'anno scorso ha accolto a Sulaymaniyya un centinaio di profughi cristiani. Mi esorta: «Vai a trovare padre Jacques Mourad, priore del monastero di San Elia di Qaryatayn, in Siria. Jacques è convinto che padre Paolo sia ancora vivo». Jens non sa che di li a poche settimane anche padre Mourad sarebbe stato rapito, subito dopo aver dato rifugio ad altri profughi cristiani, quelli in fuga dai combattimenti attorno a Palmira. Solo un tessuto verde separa la navata dalle stanze dei profughi. Padre Jens sposta il bucato dai banchi, mette al centro il Vangelo e siede scalzo con i bambini in cerchio, e tutti insieme pregano, per quelli che mancano, per coloro che hanno scelto la via della violenza, per gli stessi carnefici nel loro inferno. Quindici emigrati curdi sono arrivati al campo di Arbat, da Svezia, Inghilterra, Germania, tutti rientrati in patria per la festa del capodanno persiano, e per tre giorni si sono offerti di tagliare i capelli a centinaia di bambini, yazidi, arabi; curdi.
Aiuto Maruyam, una bambina yazida, a portare l'acqua. Mi dice di non andare in una parte del campo: «Ci sono gli arabi. Sono senza Dio». E intanto tra gli arabi è giorno di lutto per la morte di Saba Nijiris, centoduenne capostipite della tribù Albuhishmah, grande madre dell' Iraq. Vedo cento uomini seduti in silenzio, figli di una cultura antica.
A. mi prega di non scrivere il suo nome. È uno specialista delle fibre ottiche per conto di una ditta cinese, ha quattro figli e la vita ridotta a una tenda nel fango. Viene come quasi tutti gli arabi qui dalla provincia di Salah al din. «Non possiamo scappare nel sud, ci ucciderebbero, sia l'Is, sia il governo sciita. I curdi sono la nostra unica chance. Sono più tolleranti di noi arabi. Per loro conta la legge, non la religione o l'etnia, e se sono io a sbagliare è me che puniscono, non la mia famiglia. II governo iracheno, invece, ucciderebbe tutta la mia tribù se una sola persona della mia famiglia avesse seguito l'Is».
Piove a dirotto sulla terra dei Sumeri, il campo si trasforma in un fiume di fango, diventa Babele ma anche Diluvio. «Guarda — mi dice un uomo sotto una tenda —è la staffetta del destino, il cerchio che non si chiude, il tempo che non finisce». E mi racconta di settemila anni di lacrime di pentimento, le lacrime di un angelo infedele, quello degli yazidi. Lacrime che avrebbero potuto estinguere il fuoco dell'inferno. Qui le lacrime sono un oceano, l'inferno continua.

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