Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 12/05/2015, a pag. 56, con il titolo "Natalie Portman: 'Grazie a Amos Oz ho avuto la forza di diventare regista' ", l'intervista di Arianna Finos a Natalie Portman.
Arianna Finos
Natalie Portman
Natalie Portman si trova perfettamente a suo agio in questa edizione di Cannes molto aperta al femminile. Sostiene da sempre che «le aule di cinema sono piene di aspiranti registi di tutt’e due i sessi. Poi, nel mondo reale, le chance sono diverse. Anche se in Francia noto che tra i cineasti della mia generazione di donne ce ne sono tante». L’attrice, 33 anni, si è trasferita a Parigi con il marito, il coreografo Benjamin Millepied, e nella capitale francese è nato Aleph, che oggi ha tre anni. Alla rassegna francese Natalie Portman presenta fuori concorso il suo primo film come regista, A tale of love and darkness , adattamento dal best seller autobiografico di Amoz Oz Una storia d’amore e di tenebra , pubblicato nel 2002 (Feltrinelli) in cui lo scrittore israeliano racconta le storie della sua famiglia, originaria dell’Europa orientale, che incrociano i fatti storici agli albori dello Stato di Israele.
Amos Oz, autore di "Una storia di amore e di tenebra"
Natalie Portman, nata Natalie Herslag a Gerusalemme da una famiglia ebrea, padre dottore e madre artista, non solo ha scritto, prodotto e diretto il film, ma si è ritagliata la difficile parte della madre del protagonista, Fania, malata di depressione e suicida quando Oz aveva dodici anni. La regista ci parla del suo progetto presentando anche il film girato con Terrence Malick, Knight of Cups , in Italia a dicembre per Adler.
Perché ha scelto un libro così famoso e complesso per il suo debutto alla regia? «Ne sono rimasta folgorata, sette anni fa. Già mentre lo leggevo, pensavo che avrei voluto, potuto, trasformarlo in un film».
Che cosa l’ha colpita? «Ero letteralmente ossessionata dal modo in cui Oz affronta e usa il linguaggio nel libro. E per questo ho voluto girare il film in ebraico. Poi trovo straordinario il suo racconto del tempo, la trasformazione delle cose. Come le dinamiche familiari si trasformano in storie che ci influenzano tutti. E come la mitologia della famiglia, e del proprio paese, influenzano il tuo modo di vedere il mondo e le aspettative che hai nei confronti della vita».
Che rapporto ha avuto con Oz? «Profondo. Fin da quando ci siamo seduti al tavolo della sua casa a Tel Aviv e gli ho parlato del mio progetto. Mi ha detto di sentirmi libera di raccontare la mia storia. Ci siamo incontrati molte volte e quando fai un film è una fortuna fondamentale avere una relazione così stretta e sincera».
Il libro affronta il conflitto tra israeliani e palestinesi. «Il mio non è molto un film di guerra. E’ soprattutto la storia di una famiglia. Le posizioni politiche di Oz sono note, è uno dei fondatori di Peace Now. Le sue convinzioni hanno avuto una grande influenza sul mio modo di pensare e riflettere. Lo ammiro moltissimo. Ma la mia scelta è stata quella di puntare sul racconto famigliare. Anche se, ovviamente, tutto quel che riguarda Israele diventa politica, anche la sua stessa esistenza. Il mio però, non è un film politico».
A proposito di famiglia, lei recita da quand’era ragazzina e per prendersi una pausa c’è voluta la maternità. «Non se ne parlava di lavorare durante la gravidanza. E dopo è stato bello godermi la famiglia. Ma la pausa mi ha reso carica e piena di voglia di recitare. Di fare. Anche se la carriera di produttrice e regista è complicata. E questo progetto da Oz ha assorbito la mia energia per oltre sette anni».
In mezzo c’è stata l’esperienza con Malick. «Ho girato Knight of Cups prima ancora del mio da regista. E’ stato davvero un regalo incontrare una creatura così piena di talento e generosità. L’incontro con Terrence ha cambiato totalmente la mia prospettiva su questo mestiere. Sia per lo stato d’animo sul set, con l’eccitazione da studenti al primo film, sia per il suo metodo. Su un set convenzionale se durante una scena entra in camera qualcosa di estraneo, succede il delirio. Terrence invece include tutto: passa un’ora a filmare l’uccello che si è posato lì vicino. E se piove, gira con la pioggia. Ha la libertà di accettare l’inaspettato, trasformare l’errore in occasione. Questo tipo di cinema non è sempre possibile, ma l’esperienza con lui cambia la tua concezione di come si fanno le cose. Vale la pena esserci anche per una scena e anche se sai che solo qualche istante del girato finirà nel film».
Quale materiale le ha consegnato per prepararsi? «Due film: La strada di Federico Fellini e Il posto di Ermanno Olmi. Li amo entrambi moltissimo. Il posto è stata davvero una grande scoperta, non ne avevo mai sentito parlare. Mi hanno colpito quegli incredibili personaggi, la loro visione del mondo. Una storia che mi ha totalmente coinvolto e trasformato in una fan del cinema di Olmi. Al Festival di Berlino ero eccitatissima all’idea di poter vedere il suo nuovo film, ma i giorni non coincidevano con i miei, così ho supplicato il direttore Dieter Kosslick fino a che me ne ha data una copia per poterlo vedere».
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