Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/05/2015, a pag. 27, con il titolo "Lui non c'è più, e il mondo va avanti uguale a prima", uno stralcio tratto da "Lo specchio coperto", il nuovo libro di Elena Loewenthal in uscita giovedì prossimo; dal CORRIERE della SERA, con il titolo "Le cose che non farò mai più", la recensione di Pierluigi Battista.
Ecco gli articoli:
La copertina
LA STAMPA - Elena Loewenthal: "Lui non c'è più, e il mondo va avanti uguale a prima"
Elena Loewenthal
Di ritorno dall’ospedale abbiamo preparato le uova sode e coperto lo specchio. Era ancora notte fonda, abbiamo acceso la luce del soffitto e il telo bianco sullo specchio l’ha assorbita senza riflettere nulla.
Non so bene perché nella percezione ebraica della perdita si imponga la necessità di coprire gli specchi di casa. Certo è che non avevo nessuna voglia di ritrovarmi lì, di rivedermi. Più che un’istanza di decoro e contrizione, di astensione da ogni forma di compiacimento, oscurare gli specchi l’ho presa come una gentilezza nei miei confronti. Quello grande del soggiorno sta proprio sopra la sua scrivania, ancora ingombra di cose. È messa lievemente di sbieco fra la libreria e la portafinestra, così guarda il giardino.
Sette giorni
Il lutto ebraico dice che dura sette giorni. Forse pochi, forse molti. Ancora non l’ho capito. Ma sono sette giorni sospesi in una dimensione strana, giusta. Sette giorni per non uscire di casa anche se la porta resta sempre aperta per chi mi viene a trovare. Sette giorni in cui non fare nulla, neanche pensare a nulla. Anzi, per pensare al nulla. Sette giorni in cui chi mi viene a trovare mi consola e mi nutre anche con quel che porta da mangiare. Sette giorni con il colletto strappato nel punto dove sta il cuore, lì sotto. Non è mica un simbolo, non è soltanto un indicatore. È un marchio esistenziale.
E il batticuore.
Quando è arrivata la telefonata, di notte. Prima di saltare in macchina dentro il buio per quei cinque minuti di strada con i semafori che lampeggiavano di giallo sbiadito e nessuno in giro - non ricordo neanche più se pioveva. Forse sì, forse aveva smesso. Prima di pescare dentro l’armadio qualcosa da mettere addosso sapendo bene che avrei avuto freddo. Prima di saltare seduta sul letto, svegliata di soprassalto dalla suoneria del mio telefono che dice «alleluja alleluja». Prima di scacciare via lo stordimento da pillole per dormire che prendevo e prendo perché altrimenti il sonno è solo una montagnola flaccida di stanchezza che si accumula, notte dopo notte. Prima di pensare che non era una sorpresa, quella telefonata. Che lo sapevo e lo sapevamo. Anche se.
La legge ebraica
Prima è venuto il batticuore. Forte e lungo che non finiva più eppure ho capito che non era niente, non era l’annuncio di un mio male, il prodromo di un infarto. Non era nulla. Era che era così, la risposta della mia vita alla sua morte, il segno che dovevo strapparmi il lembo del colletto sopra quella cosa che mi rimbombava dentro. Il batticuore è durato sino al semaforo prima dell’ospedale. Lampeggiava anche quello e sì, pioveva perché uscendo dalla macchina ricordo che ho messo il cappello. Di lì in poi, è stato tutto un avvicendarsi di luce e buio. Luce al neon dell’ospedale. Buio della stanza. Buio della strada. Buio in casa e odore di sonno e tristezza e abbracci, nel buio. Luce del gas acceso sotto la pentola per cuocere le prime uova sode del lutto. E fame, anche, tutti insieme. E buio di facce affondate nei capelli di qualcun altro. E buio dello specchio. E la luce dell’alba che pian piano viene su, e aveva smesso di piovere: prima grigio scuro, di piombo opaco. Poi un angolo di rosa. E disegni di cielo fra i rami spogli del vecchio ciliegio.
Poi è cominciata la settimana di lutto.
A non far niente, come prescrive la legge ebraica. Vedere tante facce. Ascoltare parole, distinguere il buio dalla luce. Mangiare - poco. Bere molto.
Cose che cambiano quando arriva la morte.
Scorte di tisane. Prima le detestavo, a prescindere dal gusto e dalla prescrizione. Ora è diventato un piccolo rito, che forse mi servirà da puntello della memoria. Ho incominciato a bere tisane quel giorno lì, penserò. Forse mi passerà. Per adesso, c’è l’ora della tisana, ci sono scatole di sacchettini e sacchetti di erbe secche per la cucina. E tazze vuote nel lavandino. E tazze vuote sulla scrivania.
Mi ero sempre chiesta come si faccia ad accettare l’evidenza che il mondo va avanti uguale a prima dopo che qualcuno se n’è andato e ti ha lasciata sola. Pensavo fosse una cosa ingiusta, inconcepibile, disgustosa. Pensavo che non l’avrei sopportata.
Anche quella notte
Infatti non cambia niente. Nulla è cambiato da quando lui non c’è più: la normalità è normale esattamente come prima. Anche quella notte, dopo che abbiamo coperto lo specchio grande del soggiorno, quello che sta sopra la sua scrivania - quella dove adesso ogni sera al tramonto accendo la luce, anche quella notte è passata e ha ceduto il passo a un’alba qualunque, a un grigiore qualunque di un giorno come tutti gli altri.
La sua scrivania guarda verso il giardino. Allora il vecchio ciliegio era spoglio, ora sui rami torti sono comparsi i primi germogli. Poi verranno i fiori: un’infinità di petali volatili. Dopo toccherà ai minuscoli frutti caduchi, aborti di un vecchio ciliegio come ovuli di donna che non è più in grado di figliare. Infine le foglie, che continueranno a cadere per mesi, lungo un autunno estenuante. Sempre così, ogni anno che passerà. Come se niente fosse.
Prima io davo per sicura questa rivolta delle viscere di fronte al corso normale delle cose, dopo che hai perso qualcuno nella morte. Credevo che non avrei sopportato l’evidenza che il mondo va avanti come sempre, malgrado la sua assenza. Invece ho scoperto che non mi fa né caldo né freddo. E mi stupisce ancora, questa accettazione che è anche una scoperta, in fondo: il mondo è rimasto uguale a prima. Non è cambiato nulla, se non dentro e fuori di me.
CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista: "Le cose che non farò mai più"
Pierluigi Battista
Non esiste un sentimento generico, universale, valevole erga omnes che si chiama «lutto». Ogni lutto ha i suoi dettagli che lo rendono diverso da qualunque altro. Sembra che tutto si somigli, quando si è immersi nel lutto: il vuoto, l’assenza, il rimpianto, la perdita. Ma esiste quella specifica perdita, quel particolare senso di assenza. È diverso il lutto per la scomparsa di un amico. Il lutto per la morte di un genitore. Il lutto perché ti è stato strappato via il compagno o la compagna della tua vita. Elena Loewenthal, in questo suo Lo specchio coperto (edito da Bompiani, pagine 128, e 15, in uscita dopodomani, giovedì 7 maggio), propone il suo «diario di un lutto» in cui è descritto in dolore inconfrontabile con tutti gli altri dolori, ma in cui chi ha conosciuto il dolore del lutto potrà riconoscere stati d’animo, atmosfere, momenti di sospensione e dire: è proprio così, l’emozione straziante della perdita è proprio questa.
Coprire lo specchio è una regola della tradizione ebraica (ma non solo, nell’Italia meridionale questa usanza è molto diffusa) che è qualcosa di più di una semplice prescrizione rituale. Scrive Elena Loewenthal che «forse l’ebraismo impone di coprire gli specchi non tanto per evitare un fuggevole gesto di vanità — una rassettata ai capelli, un pizzicotto all’occhiaia per farla sembrare meno livida— quanto per risparmiarci la faccia della morte che ci portiamo addosso in quei giorni. È stato giusto, non avrei potuto farne a meno, di quel rito triste e silenzioso». È stato giusto, ma anche chi non segue le regole di quella tradizione sa che il lutto non risparmia niente. Che non esiste un momento, un limite, un confine temporale in cui si possa dire di aver voltato pagina e di non aver più «la faccia della morte». Che le esortazioni affettuose e amichevoli degli altri che ti chiedono di non farti sommergere dal dolore, di reagire, di capire che «la vita va avanti», possono addirittura risultare fastidiose e inopportune, come ha scritto Julian Barnes in un’altra meravigliosa anatomia del lutto coniugale intitolata Livelli di vita (in Italia lo ha pubblicato Einaudi).
Resta la descrizione senza autoindulgenze di uno stato di sconcerto che separa il momento della razionalità da quello delle emozioni. Quando affiora un suono, un odore, un sapore, un’insegna, la posizione di una scrivania, una confezione di qualche cibo avvistata sullo scaffale di un supermercato. Resta il triste elenco delle «cose che non faccio più» dopo. Prima, quando il tuo compagno combatteva contro la malattia ma era vivo, c’era «l’ansia in gola in attesa dell’ennesimo referto». Prima avevi un’idea della morte che adesso è completamente cambiata: «Quando la incontro nei libri, mi fa uno strano e ambiguo effetto, più terrore che senso di confidenza».
Prima c’erano sguardi che non ci sono più. Una quotidianità totalmente sconvolta. Una percezione delle cose radicalmente modificata. Una gerarchia dei fatti importanti che entra nel caos, sopraffatta dal senso di perdita, da una sensazione fisica (che dalla gola ai polmoni va giù fino all’osso sacro, scrive a un certo punto la Loewenthal) che ti afferra e ti stravolge. È un resoconto appassionato, ma che quasi trasmette una sensazione di gelo, questo «diario del lutto». Non ci sono altre persone che non siano lei e lui che non c’è più. Ci sono ambienti, cose, stagioni, specchi coperti e poi scoperti. Ci sono i sonniferi per dormire, e poi i tentativi di non prenderne più. E la scrittura che non lenisce, ma acutizza, intensifica, costringe a una resa dei conti che mai avresti voluto affrontare. Per affrontare il lutto che adesso sai cos’è, differente da tutti gli altri.
Per inviare la propria opinione ai quotidiani, telefonare:
La Stampa 011/65681
Corriere della Sera 02/82621
Oppure cliccare sulle e-mail sottostanti