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La Repubblica Rassegna Stampa
05.05.2015 Jihad in Texas: le persone civili possono essere in disaccordo, ma i barbari uccidono
Analisi di Fiamma Nirenstein, Adam Gopnik; l'opinione di Pamela Geller, commento di Arturo Zampaglione

Testata: La Repubblica
Data: 05 maggio 2015
Pagina: 17
Autore: Fiamma Nirenstein - Adam Gopnik - Arturo Zampaglione
Titolo: «L'America sceglie l'ipocrisia per non irritare i musulmani - Difendere la risata anche se è offensiva, solo così scrivere ci rende liberi - Pamela, la blogger estremista che guida la crociata contro i musulmani Usa»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 05/05/2015, a pag. 17, con il titolo "L'America sceglie l'ipocrisia per non irritare i musulmani", l'analisi di Fiamma Nirenstein; dalla REPUBBLICA, a pag. 17, con il titolo "Difendere la risata anche se è offensiva, solo così scrivere ci rende liberi", l'analisi di Adam Gopnik; a pag. 15, con il titolo"Pamela, la blogger estremista che guida la crociata contro i musulmani Usa", il commento di Arturo Zampaglione.

Ecco gli articoli:

IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "L'America sceglie l'ipocrisia per non irritare i musulmani"

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Fiamma Nirenstein

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Un manifestante a Garland, Texas: "Non decapitarmi, fratello!"

L'aria negli Usa è ormai questa: smussare gli angoli, lasciar perdere, consentire che l'islamismo estremo, gli attentati stessi vengano affrontati con un desolato ma non ostile scuotere del capo chiamando un attentato islamico «attentato di origine religiosa», una religione qualunque; gli episodi di violenza sono, nel Paese che ha subito l'11 di settembre, random, casuali, isolati come definì Obama gli eccidi di Charlie Hebdo e del supermarket Hyperkosher di Parigi. E del resto Obama al corteo di tutti i capi di stato per protestare contro il terrorismo non c'è andato. E i giornali americani non hanno pubblicato le vignette di Charlie Hebdo: sia la Cnn che il New York Times hanno seguito la strada del presidente: non irritare l'islam, non pubblicare le vignette, non farsi sospettare, Dio non voglia, di islamofobia. Anche se era del tutto evidente che i poveri dodici uccisi in redazione erano le vittime di un attentato di odio islamista, Obama è rimasto fedele al programma: al primo inizio del suo mandato annunziò che avrebbe cambiato il rapporto fra gli Stati Uniti e l'islam, sempre da lui ritualmente definita «religione di pace» anche quando gli attacchi si dimostravano decisamente preparati e studiati in nome del jihad, come quello di Boston o quello in cui un ufficiale nel 2009 uccise 4 commilitoni a Bagdad.

Adesso l'attacco di Dallas, cui la polizia ha risposto all'americana uccidendo i due che avevano attaccato la gara di vignette su Maometto, segna un'altra tappa nel dichiarare, in certo modo, fuori della corrente principale del Paese perché non ritenuta abbastanza politically correct: l'organizzazione aveva preso in affitto un'area del Culwell Center e aveva dovuto pagare 10mila dollari di tasca propria per la sicurezza. L'ha detto la sua presidente, la ferrigna signora Pamela Geller: la sua organizzazione e il suo blog «American Freedom Defense Initiative» propugna la lotta contro l'estremismo islamico. Geller aveva anche invitato il deputato olandese Geert Wilders, famoso per la sua lotta contro quella che vede come un'aggressione del mondo occidentale. Il consiglio del distretto aveva ritenuto che la Geller dovesse pagare di tasca sua, dunque perché riteneva provocatoria la manifestazione: e può essere ma il contenuto era perfettamente americano, in quanto vigorosa dichiarazione della libertà di espressione. Si sa, quando mette alla berlina santi e persino Gesù Cristo e la Madonna non è un problema; lo diventa quando mette in giuoco Maometto e scorre il sangue a rivoli, come accadde nel 2005 col Jilland Posten e adesso a Parigi.

Il distretto di Garland ha rifiutato di difendere come fatto normale di libera espressione la manifestazione della Geller, come se la libertà di espressione fosse confinata al di qua del recinto islamico. Ma l'esempio più eclatante è stato quello del premio Pen per il coraggio, che verrà consegnato oggi con una serata di gala, il top della letteratura. Il premio è stato assegnato a Charlie Hebdo, scelta assai ragionevole per chiunque creda nella libetà di pensiero, anche se magari le vignette possono urtare il gusto di qualcuno: di fatto tutti quei musulmani, preti, rabbini disegnati come mostri non sono mai piaciuti a tutti, ma qui che importava? Invece come è noto sei importanti letterati hanno annunciato che non avrebbero partecipato alla premiazione, anche personaggi famosi come Francine Prose o Taiye Selasi. Lo hanno spiegato talvolta con assurde osservazione, la Prose ha paragonato l'Hebdo a Goebbels. Per fortuna e per coraggio il grande disegnatore e letterato vincitore di Art Spiegelmann, l'inventore di «Maus», storia della Shoah a fumetti ha accettato insieme altri cinque di sostiture i virtuosi assenti. Anche Salman Rushdie e Paul Auster si sono associati al gesto «contro la corrente fanatica dell'islam che cerca di spaventarci tutti». Fanatica sì, ma random, perfavore.

LA REPUBBLICA - Adam Gopnik: "Difendere la risata anche se è offensiva, solo così scrivere ci rende liberi"

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Adam Gopnik
 

L’annuale gala letterario del Pen, dove gli scrittori (gli uomini mezzi malvestiti nei loro smoking tirati fuori dall’armadio una volta l’anno) si riuniscono sotto la grande balena del Museo americano di storia naturale per farfugliare qualcosa sui progressi fatti e applaudire i loro confratelli in carcere, ha sempre avuto i suoi aspetti comici. Sfarzo e scrittori (o scrittrici) sono due temi che di rado vanno a braccetto. Gli smoking si afflosciano, il pollo si rapprende, gli occhi esausti del romanziere alle dieci si voltano verso l’orologio. Che questo evento sia diventato lo scenario di una polemica pubblica di alto profilo sembra assurdo. Eppure il gala del Pen viene percepito come qualcosa di fondamentale, e per una ragione sopra tutte le altre: gli scrittori ci vanno per sostenere altri scrittori che non possono presenziare perché qualche tipaccio cattivo li ha messi sotto chiave per aver scritto qualcosa che al tipaccio cattivo non è piaciuto.

Il principio in ballo è che la libera espressione delle idee, anche delle idee offensive, è parte integrante dello scrivere. Se le persone non sono libere di insultare l’autorità in qualche Paese lontano, allora neanche noi siamo del tutto liberi qui. Sembra un bel principio su cui banchettare. Tale sentimento di comunanza è stato scombussolato quest’anno dalla decisione del Pen American Center di rendere omaggio ai vignettisti del settimanale francese Charlie Hebdo , assassinati a colpi di kalashnikov una mattina dello scorso gennaio da due fanatici religiosi armati fino ai denti. Sei scrittori hanno rifiutato di partecipare come ospiti d’onore. Altri hanno pubblicamente rampognato gli assenti per la loro assenza. Ci sono almeno due cose da dire. La prima è che i bastian contrari — alcuni dei quali il sottoscritto, che del Pen fa parte, considera carissimi amici — sono sicuramente intenzionati a stare dalla parte giusta, cioè dalla parte di una società aperta e della libertà d’espressione. Hanno una loro tesi. Appartiene, per come l’ho intesa io, al genere di argomentazioni che Louis C. K. ha tanto efficacemente definito del «Naturalmente… ma forse». Naturalmente è sbagliato che i vignettisti siano stati assassinati. Ma forse avrebbero dovuto rendersi conto di quanto risultavano minacciose le loro vignette agli occhi di altre minoranze oppresse, in questo caso i musulmani francesi. Naturalmente siamo profondamente addolorati per la loro morte. Ma forse potremmo trovare qualcuno di meglio da onorare di persone che mandavano alle stampe vignette in cui si vedeva Maometto intento a sodomizzare i suoi seguaci.

È una lettura che fraintende clamorosamente le idee, la storia e le prassi effettive dei vignettisti di Charlie Hebdo. Il loro lavoro, come ho scritto, non era indicato per gli amanti di una satira sottile e affabile (a me, personalmente, non sempre andava a genio), ma resta il fatto che professavano idee radicalmente democratiche ed egualitarie, con un’appassionata avversione verso le ipocrisie di qualsiasi religione organizzata.

Immaginiamo, per un momento, che i vignettisti di Charlie Hebdo non fossero delle brave persone. Di sicuro anche delle cattive persone andrebbero difese da fanatici armati di kalashnikov. La distinzione cruciale non è fra chi ci piace e chi non ci piace, ma tra atti di immaginazione e atti di violenza. Quando i vignettisti di Charlie mettevano in ridicolo Maometto, non stavano dicendo che i musulmani erano cattivi, stavano mettendo in discussione in generale l’idea di trasformare una persona in un profeta. Non capire questo è non capire perché facevano i vignettisti. Chi li contesta ritiene, apparentemente, che questa attività di immaginazione fosse sbagliata o condannabile. E crede invece in una sorta di tutela comunitaria, crede che il benessere delle comunità sia più importante del diritto di criticare pubblicamente le idee. È un pensiero legittimo, che ha una sua storia. Non sembra però un pensiero degno di ispirare un boicottaggio da parte di una comunità cosmopolita di scrittori autodefinita.

Gli scettici con ogni probabilità insisteranno. Se per esempio qualche partigiano, nei lontani anni 30, fosse entrato nella redazione dell’odiosa rivista antisemita Der Stürmer, che faceva largo uso di vignette, e avesse ammazzato tutti i redattori, magari avremmo condannato la violenza, ma avremmo reso omaggio a quei vignettisti? La risposta giusta in questo caso è che le vignette non sono magiche macchie di Rorschach. Parlano lucidamente quanto un epigramma, e il contenuto effettivo delle odiose vignette di Julius Streicher sugli ebrei era evidente: non prendevano in giro il giudaismo, minacciavano la vita degli ebrei. «La vostra religione è ridicola» è un messaggio diversissimo da «Siete una razza degenerata, volete violentare le nostre figlie e rubare le nostre ricchezze, e noi la faremo finita con voi». Un’offesa a un’ideologia non è la stessa cosa di una minaccia a un popolo. E in nessun senso, né logico né storico, da una cosa può discendere l’altra: una verità che conosciamo proprio perché le persone più inclini a dire che una religione è ridicola sono quelle che sono state educate a praticarla.

Un attacco contro un’ideologia non è semplicemente diverso da una minaccia contro una persona: è il contrario di una minaccia contro una persona. Sostituire la critica delle idee con le aggressioni contro le persone sarebbe la fine stessa della civiltà liberale. Gli assassini non parlavano a nome di una comunità offesa spiegando come e perché si potesse facilmente fraintendere lo scopo delle vignette. Gli assassini rispondevano a un’offesa con un omicidio. E i vignettisti a cui verrà reso omaggio, a loro volta, non sono pedine di un astratto gioco di sensibilità. Erano artisti in là con gli anni che come ultima cosa in vita loro hanno visto un uomo mascherato con un mitragliatore in pugno. Se questo non è orrore, allora nulla è orrore. Se questo non è sbagliato, allora nulla è sbagliato. Se gli scrittori non renderanno omaggio al loro coraggio, allora a quale coraggio possiamo rendere omaggio? Come fare per distinguere fra offese a un’ideologia e minacce contro le persone? Come ho scritto in precedenza, è per questo che abbiamo critici, tribunali e leggi. Che diamine, è per questo che abbiamo gli scrittori. È il loro lavoro. Ed è la ragione per cui si riuniscono nelle cene di gala dove possono discutere fra loro e apparire ridicoli, come è giusto che sia.
(The New Yorker Traduzione Fabio Galimberti)

LA REPUBBLICA - Arturo Zampaglione: "Pamela, la blogger estremista che guida la crociata contro i musulmani Usa"

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Pamela Geller

Mentre la polizia sparava agli attentatori lei, dall’interno del Curtis Culwell Center, twittava a migliaia di sostenitori in giro per il mondo: «La libertà è in pericolo ». E ieri ha spiegato in un’intervista: «Le persone civili possono trovarsi in disaccordo, mentre i selvaggi ti uccidono quando non sono d’accordo». Sì, nella visione manichea di Pamela Geller, 56 anni blogger e presidente della Afdi (American Freedom Defense Initiative), organizzatrice della manifestazione provocatoria sulle caricature di Maometto, il mondo si divide in due gruppi: e i «cattivi» — cioè i selvaggi — sono sempre i musulmani.

Dagli attentati del 2001 alle Torri gemelle in poi, “Pam”, come gli amici chiamano Geller, non si è mai stancata di combattere contro quella che definisce la «islamizzazione dell’America ». È stata lei a promuovere una campagna contro la costruzione di una moschea all’ombra della Freedom Tower, il grattacielo costruito nella voragini delle Torre gemelle. «Sarebbe un’offesa alle migliaia di vittime dell’11 settembre », aveva detto. Sempre lei, la Geller, a far riempire i vagoni della metropolitana newyorchese di cartelli anti-Islam dopo l’attentato del settembre del 2012 a Bengasi che costò la vita all’ambasciatore americano in Libia (l’iniziativa fu poi bloccata dai giudici).

E ancora lei a indire adesso il concorso sulla migliore caricatura di Maometto: sfidando apertamente il mondo musulmano in nome (o con la scusa) della difesa della libertà di parola. Tra i 350 che hanno partecipato alla selezione, il premio di Garland è stato assegnato a una vignetta di Bosh Fawstin che assomiglia vagamente ai lavori di Norman Rockwell. Si vede Maometto che si rivolge al caricaturista: «Non puoi disegnare la mia faccia», dice il Profeta. E lui risponde: «Proprio per questo lo faccio». Secondo la Geller, è un “test” del rispetto dei diritti e delle libertà costituzionali. A chi le rimprovera di essere una ultrà, risponde: «Non è un male difendere il buono ricorrendo agli estremi ». E rilancia: «Ho in programma altre iniziative del genere».

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