Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 08/04/2015, a pag. 30, con il titolo "Il nucleare, l'Iran e il tempo di sognare", il commento di Bernard Guetta; a pag. 1-17, con il titolo "Imporre la jihad ai palestinesi: lo sfregio del Califfo al popolo martire", l'analisi di Gad Lerner.
Ecco gli articoli:
Quando i sogni non diventano realtà...
Quello espresso dall'articolo di Bernard Guetta, per la stessa ammissione dell'autore, "è un sogno". Peccato che Guetta non dica che anche questo sogno, come tutti i sogni è ben diverso dalla realtà. Quello auspicato dall'articolo, di conseguenza, è un mondo messianico pacificato; bellissimo, forse, ma completamente irreale.
Bernard Guetta
È un sogno, ma non necessariamente un sogno irrealizzabile. E allora sogniamo, per un istante, che questo accordo di Losanna sul nucleare iraniano possa rapidamente concretizzarsi fin nei più piccoli dettagli, che la Repubblica islamica rinunci a dotarsi della bomba, che le sanzioni economiche varate contro Teheran siano rimosse e che il peso della parte pragmatica e riformatrice all’interno della leadership iraniana ne esca rafforzato. Le conseguenze sarebbero due: la prima è che quel regime potrebbe avviare la liberalizzazione politica a cui la popolazione iraniana aspira con chiarezza da moltissimo tempo; la seconda è che l’Iran sciita si dedicherebbe, parallelamente, a consolidare la sua influenza regionale cercando un compromesso con i paesi sunniti e non più assicurandosi, in funzione antisunnita, il sostegno delle comunità sciite, minoritarie o maggioritarie, di tutto il Medio Oriente. È uno scenario roseo, roseo e altamente aleatorio, ma che non possiamo escludere per tre ragioni.
La prima è che c’è voluta così tanta volontà di compromesso ai negoziatori di Losanna che non si capisce perché tutta questa volontà dovrebbe svanire ora che l’essenziale è stato fatto. Le difficoltà, naturalmente, sono considerevoli. Barack Obama dovrà fare i conti con la maggioranza repubblicana del Congresso e soprattutto con i suoi alleati israeliani e sauditi, con un fronte del no che non vuole questo compromesso perché farebbe dell’Iran uno “Stato soglia”, cioè un Paese che non dispone della bomba atomica ma ha gli strumenti per procurarsela. Hassan Rohani, il presidente iraniano eletto trionfalmente nel giugno del 2013 perché incarnava la speranza di una riconciliazione con il resto del mondo, dovrà superare, da parte sua, l’opposizione dei settori più intransigenti del regime, che vogliono evitare che Rohani riesca ad affermare la sua popolarità grazie alla rimozione delle sanzioni, cosa che lo renderebbe inamovibile.
La battaglia sarà dura, tanto a Teheran quanto a Washington, ma le presidenziali non sono lontane e i Repubblicani difficilmente potranno accanirsi a contrastare un accordo che consente di evitare una guerra che gli americani non vogliono in alcun modo. Da parte loro, i settori più oltranzisti dello schieramento conservatore iraniano sembrano ormai essere stati sconfessati da Ali Khamenei, la Guida suprema del regime, senza il consenso del quale i negoziatori iraniani non avrebbero potuto acconsentire alle concessioni che hanno sottoscritto a Losanna. Hassan Rohani ha avuto l’appoggio della Guida suprema perché le casse dello Stato sono vuote e la teocrazia deve riuscire a rimpinguarle, prima che le difficoltà economiche correnti superino il livello di guardia. E visto che Barack Obama, a sua volta, può far leva sull’opinione pubblica, non è irragionevole aspettarsi che l’accordo di Losanna si concretizzerà.
La seconda ragione per non rinunciare a sognare è che la rivoluzione iraniana non è più giovanissima. A trentacinque anni suonati, deve ormai fare i conti con una gioventù, enormemente maggioritaria, per la quale la dittatura imperiale ormai è preistoria e non capisce perché si debba vivere tanto male quando il sottosuolo iraniano è così ricco e il livello culturale del Paese potrebbe rapidamente consentirgli di diventare un Eldorado. Sono più di quindici anni che gli iraniani manifestano, in modo tanto sistematico quanto eclatante, la loro volontà di cambiamento: con la prima elezione del riformista Mohammad Khatami nel 1997, con la sua rielezione, con le manifestazioni di massa contro i brogli delle elezioni presidenziali del 2009 e infine con l’elezione di Hassan Rohani.
La frattura fra Paese legale e Paese reale ormai è talmente profonda, senza neanche parlare dell’esplosione di rabbia popolare che minaccia di scatenarsi, che questo regime ormai ha soltanto un’opzione possibile. Può continuare nella sua deriva verso la dittatura militare che potrebbe essere instaurata dalle Guardie della rivoluzione, uno Stato nello Stato, una potenza militare e finanziaria, oppure scegliere un’apertura controllata, che l’ascesa di Hassan Rohani oggi rende possibile.
Mentre Mohammad Khatami si era fatto eleggere e rieleggere come avversario dello status quo, l’attuale presidente agisce nelle vesti di amministratore dei vincoli contro cui questo potere si scontra, e non ha mai fatto nulla per mettere in discussione la subordinazione delle istituzioni repubblicane alle istanze religiose. Ha sempre avuto cura, al contrario, di rimarcare la sua deferenza verso la Guida suprema, un uomo malato e che potrebbe valutare l’idea di farne il suo successore, tanto più se si considera che la massa dell’apparato conservatore e Khamenei stesso non vogliono che la Rivoluzione islamica finisca per dare vita a un potere militare. Hassan Rohani può diventare l’artefice di una transizione consensuale e promuovere un compromesso storico tra sunniti e sciiti, fondato su regole di condotta e una paura comune dei rispettivi estremisti.
È la terza ragione per non escludere uno scenario roseo, qualunque sia l’entità delle sfide da superare a Washington e a Teheran, a Damasco e a Bagdad, a Sana’a e a Beirut, prima che questo sogno possa veramente divenire realtà.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Gad Lerner: "Imporre la jihad ai palestinesi: lo sfregio del Califfo al popolo martire"
In questo articolo, diverso in parte dai suoi soliti colmi di ostilità, unidirezionalmente contro Israele, Gad Lerner evidenzia i crimini commessi dai Paesi arabi nei confronti dei palestinesi da 70 anni almeno.
La definizione degli arabi palestinesi come "popolo martire", ripresa- cosa molto grave- anche nel titolo, è foriera di mistificazioni dal tono anti-Israele. Le vicende dei palestinesi, infatti, sono ritenute interessanti di norma soltanto nella dinamica che oppone questi a Israele, per lo più con lo scopo di accusare lo Stato ebraico. La ripresa di tale locuzione, tipica del linguaggio delle Chiese, se rivolta a Israele si traduce facilmente in una accusa antisemita: come gli ebrei avrebbero ucciso Gesù, così ora farebbero lo stesso con i palestinesi.
Ecco il pezzo:
Gad Lerner
Arabi palestinesi uccisi a Yarmouk dallo Stato Islamico
La decapitazione dell’imam Yahya Hourani, considerato la principale autorità religiosa del campo palestinese di Yarmuk, e la sua testa conficcata per spregio su un palo da parte dei miliziani jihadisti dell’Is e di Al Nusra, infrange l’ennesimo tabù. I seguaci del sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi, nella loro offensiva terroristica per la leadership sull’islam sunnita, sono disposti a calpestare anche la causa palestinese. Tabula rasa. I tagliagole conoscono perfettamente il valore simbolico di Yarmuk, trasformatosi lungo oltre mezzo secolo in una vera e propria città: di fatto la capitale della diaspora palestinese, suo centro culturale e terminale di una rete d’assistenza sociale egemonizzata da Hamas. Dunque uno schiaffo in faccia ai Fratelli Musulmani, la galassia integralista che non si è lasciata annettere dal progetto dello Stato Islamico, evitando che l’onda nera dilagasse anche nella Striscia di Gaza. Così come l’Autorità Nazionale Palestinese è riuscita finora a reprimerne la diffusione in Cisgiordania. La brutalità omicida è l’unico linguaggio riconosciuto come efficace dai jihadisti: se i palestinesi non aderiscono spontaneamente al loro progetto di conquista del potere, viene demolita anche la loro funzione di popolo-simbolo dei soprusi perpetrati in terra musulmana dagli occidentali. Più precisamente, l’ideologia premoderna del ritorno all’Età dei Califfi, salta a piè pari la vicenda novecentesca.
Il popolo-martire non serve più a unire i musulmani, essendo ormai giunto il tempo apocalittico di una islamizzazione globale, la cui prima tappa è espugnare le grandi città della tradizione post-coranica: oggi Damasco, Aleppo, Bagdad; domani la Mecca, Istanbul e il Cairo. Alle quali si aggiungono come bottino necessario, Beirut e Damasco. Lo shock per l’occupazione jihadista di Yarmuk sarà grande anche nelle moschee dell’islam europeo, dove finora si è predicata la solidarietà attiva con il popolo palestinese come primo dovere di ogni buon fedele. Perfino riconoscendo legittimità religiosa agli attentati suicidi, purché insanguinassero la terra “occupata dall’entità sionista”. Impossessandosi del campo profughi di Yarmuk - con totale indifferenza per le sofferenze inflitte ai suoi abitanti, liquidati anch’essi come infedeli che non meritano di vivere - i jihadisti non esitano a ribaltare le priorità della guerra mediorientale. Lo stesso Israele diviene per loro un dettaglio secondario.
Il mondo arabo che da oltre un secolo cerca la sua faticosa unità –dapprima col panarabismo di stampo nasseriano, poi con l’integralismo religioso - nella riconquista di Gerusalemme empiamente occupata, viene chiamato per prima cosa all’obbligo di assoggettarsi al Califfato. La distruzione di Israele e la causa dei palestinesi, vengono dopo. Con un salto all’indietro di nove secoli, il nemico da sopprimere ovunque tornano ad essere “i crociati e gli ebrei”. Cui si aggiungono gli eretici, primi fra tutti i musulmani sciiti, senza nessuna pietà per gli stessi sunniti che osano frapporsi al disegno oscurantista del Califfo. C’è, naturalmente, una buona dose di disinvoltura storica in questo salto all’indietro della storia. Poco importa ai seguaci di Al Baghdadi (Is) e Al Zawahiri (Al Qaeda) che gli ebrei, insieme ai cristiani bizantini, fossero anch’essi tra le vittime dei cavalieri crociati, nell’Undicesimo secolo: oggi viene comodo confonderli nella nozione indistinta di Occidente pagano, arrogandosi la missione di unico monoteismo legittimato a dare la morte per abbattere l’idolatria. Diviene così assai significativo che la conquista del campo profughi palestinese di Yarmuk sia un’altra azione congiunta sul campo dell’Is e di Al Nusra, finora organizzazioni jihadiste spesso concorrenti fra loro.
Ciò che rende purtroppo credibile la loro prossima unificazione sotto il comando militare di Al Baghdadi, trapelata nei giorni scorsi. I due eserciti, forse prossimi a riunirsi sotto la bandiera nera, hanno già dimostrato in Siria di considerare almeno tatticamente prioritario il braccio di ferro con il regime di Assad, rispetto a un confronto diretto con l’esercito d’Israele. Lo conferma la prudenza con cui si sono mossi finora sull’altopiano del Golan, cioè al confine con lo Stato ebraico, nonostante quella regione sia da tempo sottoposta al loro controllo. I tagliagole avranno di certo calcolato di non essere attrezzati, per il momento, a uno scontro diretto con Tshaal. Circostanza che ha alimentato fantasiose teorie del complotto sul sostegno di cui i jihadisti avrebbero goduto da parte degli israeliani, come se questi ultimi fossero masochisti. Additare l’ombra del Mossad dietro l’Is resta così l’ultima formula autoassolutoria di un islam che non riesce a capacitarsi della proliferazione di un tale mostro crudele dal suo utero.
Come è noto, il dilagare della guerra dalla Siria alla Mesopotamia ha già prodotto più di quattro milioni di profughi, venuti a sommarsi ai palestinesi che dal 1948 vivono senza diritti di cittadinanza riconosciuti in Libano, Siria, Giordania e a Gaza. I campi di raccolta dei nuovi profughi non riescono a soccorrere adeguatamente una popolazione vittima di una vera e propria catastrofe umanitaria. La distruzione di Yarmuk, il campo profughi palestinese trasformatosi nei decenni in una vera e propria nuova città alle porte di Damasco, ci rammenta che le ferite del passato, mai curate, sono fonte di nuove infezioni devastanti. Per affrontare l’esodo palestinese, disseminato in ben 59 campi riconosciuti, le Nazioni Unite istituirono fin dal 1949 una apposita agenzia: l’Unrwa. Ma da almeno un decennio all’interno dei campi palestinesi si sono organizzate, grazie ai petrodollari del Golfo e alla propaganda salafita, pericolose fazioni qaediste come Fatah al Islam, che ne contendono con le armi la leadership all’Anp e a Hamas.
È la peste jihadista che si propaga nella miseria della diaspora palestinese, dal campo di Nahr al Bared limitrofo a Tripoli di Libano, fino alla polveriera di Ain al Helwe nei pressi di Sidone. Campi che ospitano ciascuno più di centomila disperati, di fatto reclusi in balia delle fazioni in guerra tra loro. Anche Yarmuk, che si proponeva come capitale della diaspora palestinese, è stata oggetto di una contesa che vi ha visto dapprima prevalere il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, fuggito nel 2012 in Qatar essendo venuta meno, a causa della guerra civile siriana, la sua intesa con Assad. Ma non basta. L’altro leader del campo di Yarmuk, rimasto fedele a Assad, è Ahmed Jibril, fondatore del Fplp Comando Generale, organizzazione nemica dell’Is che di fatto ha circondato Yarmuk nel mentre veniva ridotta in macerie. Così adesso i diciottomila sopravvissuti in quell’inferno si trovano imprigionati fra due fuochi. E i palestinesi che volevano mantenersi neutrali dentro la guerra civile siriana, vengono trattati da traditori da entrambe le fazioni.
La memoria inevitabilmente corre ad altri momenti storici in cui i campi palestinesi furono oggetto di violenze atroci, di cui spesso si resero colpevoli i confratelli arabi. Come nel 1970 in Giordania, dove il tristemente celebre Settembre Nero provocò fra i tre e i cinquemila morti ad opera delle truppe beduine di re Hussein di Giordania. E poi Tell Al Zaatar, nell’agosto 1976 in Libano, dove furono i siriani a uccidere circa duemila palestinesi. Fino a Sabra e Chatila, nel settembre 1982, dove i falangisti maroniti protetti dall’esercito israeliano sterminarono più di ottocento innocenti. Le cifre dell’odierna ecatombe siriana fanno impallidire le stragi del passato. E forse, più ancora delle crudeltà commesse a Yarmuk, il mondo è spaventato dalle bandiere nere giunte alla periferia di Damasco. Ma ancora una volta sono i palestinesi le vittime sacrificali di un passaggio storico che annuncia guerra totale.
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