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La Stampa-Libero-Il Foglio Rassegna Stampa
04.04.2015 Losanna: Cronaca e Commenti per capire l'imbroglio di Obama
Cronaca di Paolo Mastrolilli-Commenti di Carlo Panella, Mattia Ferraresi, Tatiana Boutourline

Testata:La Stampa-Libero-Il Foglio
Autore: Paolo Mastrolilli-Carlo Panella-Mattia Ferraresi-Tatiana Boutourline
Titolo: «Rohani e la rinascita dell'Iran, ora cooperiamo con il mondo-L'effetto dell'accordo ? Pure i sauditi con la bomba-L'Iran e la miccia che l'Occidente non vuole vedere-L'indifferenza del mondo e la ferocia del regime»

 Ecco gli articoli usciti oggi, 04/04/2015,  sull'accordo di Losanna che proponiamo ai nostri lettori per capire la reale portata dell' imbroglio fortemente voluto da Obama:

 

La Stampa-Paolo Mastrolilli-" Rohani e la rinascita dell'Iran, ora cooperiamo con il mondo"


tre dei sei imbroglioni, ben riconoscibili

 Il presidente iraniano dice che il suo paese «non mente» e «può cooperare con il mondo». Il premier israeliano dice che l’accordo sul programma nucleare di Teheran è una minaccia, e deve includere il riconoscimento del diritto ad esistere del suo stato. Il Congresso americano è incerto, con diversi democratici tentati di fare lo sgambetto al loro stesso presidente e bocciare l’eventuale trattato, mentre la Francia lascia intendere che non ha condiviso le concessioni fatte dagli Usa al tavolo della trattativa. Il presidente Obama invece sogna di visitare la Repubblica islamica prima della fine del suo mandato e spera di aver fatto la storia, non solo risolvendo una disputa bilaterale che durava da quasi quarant’anni,ma avviando un processo che potrebbe cambiare gli equilibri in tutto il Medio Oriente, spingendo verso la responsabilità l’ex nemico del «Grande Satana». Corsa ancora difficile Le reazionidel giornodopodimostrano quanto sarà difficile trasformare l’intesa preliminare di Losanna inunvero accordo entro giugno,maapronoanchequalche spiraglio sulla possibilità di cambiare le dinamiche nella regione più instabile delmondo. Il ministro degli Esteri iranianoZarif è stato accolto aTeheran come la nazionale di calcio che vince unmondiale, e il presidente Rohani ha tenuto un discorso alla nazioneper convincerladella giustezza della strada scelta: «Alcuni pensano che noi dobbiamo o combattere, o arrenderci alle altre potenze. Ma esiste una terza via. Possiamo cooperare con il mondo». Rohani ha aggiunto che «noi nonmentiamo, a patto che le altre parti mantengano le loro promesse».Quindi si è rivoltoalla sua gente: «Abbiamo bisogno di produttività economica, lavoro per i giovani, e sviluppo per prodotti non legati al petrolio, affinché il nostro popolo possa provare cose migliori per il suo benessere ».Almomento anche i leader religiosi conservatori sembrano appoggiare l’intesa, a partire dall’ayatollah Khamenei, ma la loro linea di lungo termine resta l’incognita più pericolosa. Sfida interna e all’estero Giovedì sera Obama ha chiamato Netanyahu, ma il premier dello Stato ebraico ha detto che considera l’intesa «una minaccia per la sopravvivenza del paese ». Quindi ieri ha domandato che «qualunque accordo finale con l’Iran includa un chiaro e non ambiguo impegno per il diritto di Israele ad esistere». Il capo dellaCasaBianca, che dopo aver aperto aCuba, siglato l’intesa sul clima con la Cina e teso lamano aTeheran, spera di lasciare un segno storico in politica estera, deve vedersela ora col Congresso. Alcuni democratici sono tentati di tradirlo, e lui adesso avrà tre mesi di tempo per convincerli a fidarsi. Il Pentagono, nel frattempo, ha fatto i test delle bombe «bunker buster » che potrebbero distruggere le basi sotterranee iraniane, se la Repubblica islamica si rimangiasse la parola.

Libero-Carlo Panella: " L'effetto dell'accordo ? Pure i sauditi con la bomba"

 
Carlo Panella

L'incosciente follia dell'accordo sul nucleare siglato a Ginevra per caparbia volontà di Barack Obama, è palese per una ragione tanto drammatica, quanto evidente. Manca del settimo punto, che in realtà è il primo: la rinuncia iraniana a distruggere Israele. Solo l'ignavia di Obama e di un'Europa complice, può considerare questa questione scollegabile da un accordo con gli ayatollah. Solo un Occidente più attento ai propri affari con l'Iran (potenzialmente ricchissimi, e non solo sul petrolio) e alla propria falsa coscienza, può pensare che non sia infame tenere separato un -cattivo- accordo sul nucleare dalla strategica volontà degli stessi interlocutori iraniani che sottoscrivono l'accordo di Ginevra di distruggere Israele. Pure, il 5 ottobre scorso, la Guida Suprema della Rivoluzione, l'ayatollah Khamenei ha postato su Twitter 9 domande chiave sulla questione: «Perché dovremmo e come possiamo distruggere Israele». Giorni fa, Reza Naghdi, comandante generale della milizia dei Bassiji, ha dichiarato: «L'eliminazione di Israele non è negoziabile». Il «riformista» Rohani, da parte sua, appena eletto presidente nel 2013, presidiò una parata in cui il reparto di missili intercontinentali era preceduto dallo striscione: «Israele deve cessare di esistere!». E non si tratta solo di frasi: Obama e l'Europa sanno bene che i nuovi micidiali missili sparati da Gaza su Israele mesi fa erano stati non solo forniti, ma anche guidati da Pasdaran iraniani. Esattamente come sanno che l'Iran è in questo momento l'unico Paese al mondo che ha reparti del proprio esercito che -in spregio alla legalità internazionale- combattono all'esterno dei propri confini. Pasdaran iraniani sono in Siria (per difendere il macellaio Assad), in Iraq e anche nello Yemen. Dunque, Obama e l'Europa, sono perfettamente coscienti di avere di fronte non un interlocutore affidabile e normale, ma un Paese che, come proclamano i suoi massimi dirigenti, si fa una vanto dei suoi successi nell'esportare la rivoluzione iraniana. Ma fanno finta che questo non sia vero. Fanno finta di credere che sia un successo avere finnato una intesa che perdi più non ha per nulla definito in modo stringente ed esplicito le modalità con cui gli ispettori dell'Aiea, potranno svolgere in futuro ispezioni effettive, non ostacolate, per verificare ovunque in Iran che non vi siano processi clandestini di arricchimento dell'uranio per costruire la bomba atomica. Di questo si discuterà in seguito. Ma, di fatto, tutte le sanzioni, sono state tolte già da ieri, perché anche se l'accordo prevedesse una gradualità nella loro abolizione, è chiaro che tutti i Paesi e soprattutto i gruppi imprenditoriali dell'Occidente, da oggi si sentono liberi di commerciare alla grande con Teheran, senza timore di essere puniti grazie al demenziale clima di appeasement instaurato da un'intesa incredibilmente generica. Dunque, quest'accordo è un successo solo per l'Iran che vede premiata da Obama la propria politica di aggressione ai Paesi vicini. Un elemento che sconvolge i Paesi arabi fedeli alleati degli Usa, in primis l'Arabia Saudita, che criticano l'accordo di Ginevra con le stesse parole di Israele. Paesi arabi che addirittura si stanno alleando con Israele -sotto traccia-per contrastare l'espansionismo militare iraniano, a iniziare dallo Yemen. Il premier israeliano Netanyahu ieri ha fatto una proposta semplice e irrinunciabile: che l'accordo di Ginevra non veda la firma definitiva degli Usa e dell'Europa se l'Iran non accetta di aggiungere un punto decisivo: la rinuncia definitiva alla volontà di distruggere Israele. Ma si può star certi che non verrà accolta da Obama. In fondo si tratta solo dello Stato degli ebrei... che si arrangino; questo è il messaggio implicito della Casa Bianca. Una nuova incredibile, odiosa, manifestazione di cinico antisemitismo.

Il Foglio-Mattia Ferraresi: " L'Iran e la miccia che l'Occidente non vuole vedere"

 
Mattia Ferraresi

New York. L’accordo nucleare salutato da Barack Obama con il più abusato degli aggettivi presidenziali, “storico”, si muove nell’orizzonte del rimandare e del contenere, non in quello dello smantellare e dell’impedire. Da giovedì pomeriggio si ripete che bisognerà vedere i dettagli da stendere da qui a fine giugno, ma il framework parla di centrifughe “ridotte” (non smantellate, né portate fuori dal paese: e li chiamano dettagli) per 10 anni, arricchimento di materiale nucleare a bassa intensità per 15 anni, lo stesso tempo nel quale l’Iran promette di astenersi dal costruire nuove centrali e convertire l’impianto di Fordo in un “centro di ricerca”, qualunque cosa voglia dire. Ogni concessione iraniana è mitigata da una data di scadenza, si parla di congelare senza smantellare, il tempo di breakout – quello necessario per costruire la bomba – s’allunga giusto di qualche mese, ma nulla lascia presagire la fine delle ambizioni atomiche dell’Iran. Hassan Rohani non mente quando annuncia trionfante che con l’accordo il paese “ha conservato i suoi diritti nucleari”, e non è per un’allucinazione collettiva del popolo iraniano che il ministro degli Esteri, Javad Zarif, è stato accolto come una rockstar al suo ritorno da Losanna. “Quando gli accordi scadono, la Repubblica islamica tornerà a essere istantaneamente uno stato sul confine della capacità atomica”, sintetizza il Washington Post. In cambio, il paese viene liberato dal giogo delle sanzioni, e quando Washington ha suggerito che questo avverrà in modo graduale, Zarif ha iniziato a fare il troll su Twitter. Il fatto, al di là dei giudizi politici, è che la bozza di accordo non soddisfa nemmeno i requisiti che lo stesso Obama aveva fissato. Nel 2012 diceva che l’unico compromesso accettabile era quello in cui l’Iran “terminava il suo programma nucleare”, oggi l’Amministrazione si accontenta di rimandare la minaccia, suggerendo capziosamente che l’unica alternativa a questo “good deal” è la guerra, tertium non datur. Normale che, dovendo scegliere fra una pezza temporanea e un’apocalisse mediorientale senza fine, l’opinione pubblica sia orientata ad accogliere di buon grado l’intesa. Quello che rende storica la circostanza è il cambio di postura nei confronti dell’Iran e – per estensione – degli stati canaglia, che Obama è convinto di poter portare nell’alveo della ragione parlando la lingua felpata del negoziato, assicurando che il compromesso rispetta il criterio reaganiano del “trust, but verify”. Dopo le dichiarazioni di Losanna, il giornalista Paul Brandus, fondatore del sito West Wing Reports, ha scritto che prima della fine del mandato Obama vorrebbe visitare l’Iran, per coronare simbolicamente un patto che qualche anno fa non avrebbe superato gli standard della stessa Casa Bianca. E’ un rumor inverificabile ma non inverosimile, che corrisponde perfettamente all’avvento del mondo de-canaglizzato che Obama ambisce a lasciare dietro di sé. Passare alla storia come il presidente normalizzatore che ha riaperto i canali di dialogo con l’Iran e Cuba, dopo decenni di odi, sospetti e silenzi, è il massimo per la sua concezione presidenziale, anche se questa costosa normalità ha una data di scadenza.

Il Foglio-Tatiana Boutourline: " L'indifferenza del mondo e la ferocia del regime"

 
 Tatiana Boutourline

Roma. “Khabar ci-é?”. Quali sono le notizie?, si sono chiesti per due settimane gli iraniani con gli occhi puntati verso Losanna. Le notizie in Iran, come in tanti altri luoghi tormentati del medio oriente, non sono un rumore di fondo che accompagna la cena, le notizie ti cambiano la vita e nessuna “khabar” è stata attesa con altrettanta intensità di quella in arrivo da Losanna. Giovedì pomeriggio la tv pubblica ha ignorato i negoziati, l’Irinn trasmetteva un documentario sulle malefatte della Cia in America latina, i ragazzi sono migrati sui social network e gli adulti su Bbc Persian. Poi all’improvviso, con un piccolo ritardo, sono comparse su tutti gli schermi le immagini dal Learning Centre del Politecnico di Losanna: il ministro degli Esteri Javad Zarif sorrideva sicuro in mezzo agli altri dignitari e, anche se la svolta non fosse già stata annunciata su Twitter, sarebbe stato sufficiente osservare la postura di Zarif e i suoi occhi neri scintillanti, nonostante il debito di sonno, per capire che era fatta. Il 2 aprile in Iran era vacanza, si festeggiava il sizdeh- bedar, il tredicesimo giorno dopo Nowruz, la giornata dei pic nic in cui si intrecciano fili d’erba e si gettano nell’acqua perché, secondo la tradizione, se i nodi si scioglieranno, si avvereranno altrettanti desideri. Così quando alle 9 passate il ministro ha parlato con il suo inglese di mondo più fluente di quello di molti dei suoi colleghi, e il suo farsi diretto, scevro di metafore e di continui rimandi all’altissimo, è sembrato che un cerchio si stesse davvero chiudendo. I vostri diritti non sono stati calpestati, le infrastrutture nucleari non saranno smantellate, ma solo riadattate, via tutte le sanzioni, torniamo tra i paesi civili hanno tradotto gli iraniani, mentre il discorso di Barack Obama veniva trasmesso dalla tv di stato. La gioia è stata incontenibile, c’è chi ha invocato il premio Nobel per John Kerry e Zarif. Nelle case si sono riempiti bicchieri di succo di melograno, Johnny Walker e pessimo vino armeno. Vali- e-Asr, il lungo viale che collega Teheran da nord a sud, si è riempito di macchine strombazzanti e bandiere e la canzone “Sar amad zemestun”, l’inverno è finito, è diventata l’inno di una notte in cui tutto, dalle cime innevate dell’Alborz, alla posizione della luna, è parso di buon auspicio. Quando Hassan Rohani fu eletto nel giugno del 2013, canti e balli esplosero nelle piazze di Teheran e la polizia osservò l’invasione quasi composta mentre la gente gridava “Rohani motshakerim!”, Rohani, ti ringraziamo. La gratitudine era prematura, ma la comunità internazionale plaudeva alla sua moderazione, il nuovo presidente prometteva relazioni internazionali basate sulla razionalità insieme a una gestione economica rigorosa e Rohani brillò come un novello Gorbaciov (il termine di paragone era Mahmoud Ahmadinejad). A quasi due anni dalla sua elezione, l’Iran non è diventato un paese migliore, le esecuzioni capitali non sono diminuite, anzi sono aumentate, i prigionieri politici, inclusi Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi dell’Onda verde, restano segregati e sul fronte dei diritti civili nulla è cambiato. Ma quando Javad Zarif è tornato in patria venerdì mattina è stato accolto come un eroe da una folla festante che gridava: “Motshakerim!”. Per giorni il governo ha invitato i cittadini a tributare ogni onore al ritorno dei “valorosi figli della Rivoluzione”, ma quelli che festeggiavano Zarif non erano solo figuranti o accaniti supporter del nezam (il sistema, come gli insider chiamo la Repubblica islamica). Nelle case, nelle piazze e sui social network il sollievo è autentico e contano poco per ora i distinguo polemici tra Washington e Teheran sul deal che il 30 giugno (forse) si farà. Due anni fa Rohani ha convinto gli iraniani dicendo loro che le centrifughe erano importanti, ma che le loro vite lo erano di più. Alcuni sono persuasi che il regime possa davvero cambiare pelle, ma la maggior parte degli iraniani sa decodificare le promesse dei suoi realpolitiker. Nella coscienzacollettiva dei figli della Rivoluzione c’è un prima e un dopo l’estate del 2009. L’indifferenza della comunità internazionale verso la ferocia del regime ha segnato un’intera generazione. Per trent’anni schiere di analisti (che non mettono piede in Iran dal ’79) hanno sostenuto che gli iraniani, salvo quelli definiti “occidentalizzati”, erano ancora soggiogati dagli ideali khomeinisti. Sei anni fa, ben prima che sbocciassero le altre primavere regionali, un altro Iran, quello che non grida “morte al grande Satana”, ha sfidato il regime in nome di ideali di cui l’occidente si ritiene depositario, ma inutilmente. Lo sconquasso regionale degli ultimi anni ha fiaccato qualsiasi sogno di regime change. L’occidente è ipocrita, sottolineano molti iraniani, disgustati dall’ipocrisia di quanti criticano Teheran e vanno a braccetto con Riad. Come ha sottolineato l’analista del Carnagie Endowment Karim Sadjapour, “nel 1979 gli iraniani hanno sperimentato una rivoluzione senza democrazia, ora sognano una democrazia, ma senza una rivoluzione”. Così quando gli esuli all’estero, nella comodità delle loro vite occidentali al riparo dalle fluttuazioni del riyal quanto dalle minacce di strike ti spiegano che un accordo legittima il regime e lo rafforza e che la revoca delle sanzioni arricchirà il budget del generale Qassem Suleimani, tu, che a Teheran ci vivi, pensi: al diavolo la geopolitica, i siriani, gli iracheni, gli yemeniti, al diavolo i sauditi e tutti gli altri perché, comunque, nessuno verrà a salvarti. Tifi per il carceriere buono, quello che ogni tanto apre la finestra della tua prigione e ti porta la frutta secca invece di salutarti con il bastone. Gli stranieri dicono che in Iran si trova tutto, sfrecciano pure le Lamborghini e in certi centri commerciali luccicano gli ultimi Apple, Gucci e Versace, ma poi ti avvicini ed è quasi sempre tutto contraffatto. La pasdaran s.p.a ha divorato l’economia e il bazaar pullula di prodotti scadenti di importazione cinese. Mentre gli economisti si stupivano di come il regime reggesse il peso delle sanzioni, le mamme della classe media hanno iniziato a vendere i gioielli. In Iran alcuni malati di tumore non riescono a fare la chemioterapia, non perché i farmaci siano sanzionati, ma perché le banche hanno paura di subire ritorsioni e i bambini hanno la tosse cronica perché le autorità hanno convertito molte industrie petrolchimiche in raffinerie ad hoc che producono combustile di bassa qualità altamente inquinante. Henry Kissinger ha sostenuto anni fa che il problema dell’Iran è decidere se è una nazione o una causa. Il regime ha già deciso, gli iraniani no, ma anche se non credono ai miracoli, non possono che sperare nella fine dell’inverno.

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