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La Stampa - Libero Rassegna Stampa
02.04.2015 Turchia: censura e diseguaglianze, ecco la via verso una nuova teocrazia islamista
Marta Ottaviani e Francesca Paci con due interviste, analisi di Carlo Panella

Testata:La Stampa - Libero
Autore: Marta Ottaviani - Francesca Paci - Carlo Panella
Titolo: «'Censura e diseguaglianze alimentano le violenze: avremo un nuovo Gezi Park' - 'I giovani stanno fuggendo, rischiamo di ritrovarci in una teocrazia all'iraniana' - Gli attentati dei terroristi rossi contro la pace tra Erdogan e curdi»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/04/2015, a pag. 9, con il titolo "Censura e diseguaglianze alimentano le violenze: avremo un nuovo Gezi Park", l'intervista di Marta Ottaviani a Mustafa Koz, segretario del sindacato degli scrittori turchi; con il titolo "I giovani stanno fuggendo, rischiamo di ritrovarci in una teocrazia all'iraniana", l'intervista di Francesca Paci alla scrittrice Esmahan Aykol; da LIBERO, a pag. 15, con il titolo "Gli attentati dei terroristi rossi contro la pace tra Erdogan e curdi", l'analisi di Carlo Panella.

Gli avvenimenti in Turchia dovrebbero essere valutati con attenzione da tutti coloro che spingevano per l'ingresso di Erdogan in Europa.

Ecco gli articoli:

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Erdogan: il nuovo sultano turco

LA STAMPA - Marta Ottaviani: "Censura e diseguaglianze alimentano le violenze: avremo un nuovo Gezi Park"

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Marta Ottaviani                      Mustafa Koz

Una nazione in bilico, la libertà sempre più a rischio e una democrazia che ha problemi sempre più seri al suo interno. Che non si risolveranno, finché il presidente Erdogan e il governo non accetteranno di dialogare con quella parte di Turchia che non accetta le loro politiche. Mustafa Köz, scrittore e intellettuale, è il segretario del Tys, il Turkiye Yazarlar Sendikasi, il Sindacato degli scrittori turchi. È stato una delle voci più autorevoli durante la rivolta di Gezi Park e da anni combatte una battaglia per la libertà di pensiero e di espressione.

Mustafa Köz, che cosa sta succedendo in Turchia?
«La situazione ormai è più che critica e potrebbe anche peggiorare dopo le elezioni del prossimo 7 giugno. In 13 anni questo governo islamico che si dice liberale ha dato vita a una crescita economica dalla quale non hanno beneficiato tutti, visto il numero di poveri e di disoccupati, e in cambio ha attuato riforme sempre più repressive, come la legge sulla sicurezza approvata venerdì scorso. Hanno rallentato di colpo i progressi fatti in 70 anni di democrazia».

Il Paese è tristemente famoso per i limiti alla libertà di stampa…
«Giornalisti e intellettuali sono spaccati in due. Se stai con il governo trovi lavoro e non ti succede nulla. Se lavori in testate di opposizione, allora ti può capitare che il tuo giornale chiuda e, a quel punto, visto che sei contro il governo non ti assume nessuno. O peggio ancora puoi finire sotto processo o in galera. Siamo sotto pressione sia come singoli sia come organizzazioni sindacali, ma andiamo avanti».

Come vive uno scrittore in Turchia?
«La cosa per me più difficile da accettare non è tanto la censura, quanto l’autocensura alla quale rischi di venire forzato. Uno scrittore che si autocensura non è uno scrittore libero, non è una mente libera, significa che anche se non vuole subisce le limitazioni della società non libera in cui si trova».

Voi siete stati molto attivi durante le proteste di Gezi Park. Può tornare una stagione del genere in Turchia?
«Il movimento di Gezi Park è stato una rivoluzione contro un governo sempre più autoritario. Era una ricerca della libertà negata, ma il governo questo non lo ha visto o non lo ha voluto vedere e la repressione è stata dura. Ma se continueranno così, io credo che la gente tornerà in piazza e allora il governo dovrà capire. Non ci possono essere pace e democrazia dove c’è morte e violenza».

Intanto a giugno però ci sono le elezioni, che cosa si aspetta?
«Si va al voto con il solito problema democratico. Per entrare in parlamento c’è uno sbarramento troppo alto da anni, che impedisce a molti partiti di entrare in assemblea, soprattutto a partiti liberali e socialisti. Con un parlamento più vario il popolo turco si sentirebbe più rappresentato, sarebbe più democratico, darebbe speranza. Invece in parlamento ci sono sempre i soliti, islamico-moderati, nazionalisti, repubblicani e con i candidati indipendenti i curdi, hanno interesse tutti che la legge non venga cambiata, non solo l’Akp».

Qual è il reale problema della Turchia?
«Non ci sono libertà e diritti. Se anche una sola persona finisce in carcere per quello che pensa, se anche solo uno scrittore viene arrestato, se anche solo un giornalista viene ucciso, allora significa che quello non è un Paese libero».

LA STAMPA - Francesca Paci: "I giovani stanno fuggendo, rischiamo di ritrovarci in una teocrazia all'iraniana"

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Francesca Paci                          Esmahan Aykol

«Ci sono una ventina di teorie cospiratrici dietro gli avvenimenti delle ultime ore, ma io non sono una complottista e penso solo che qui, da oggi alle elezioni del 7 giugno, succederà ogni giorno qualcosa» ragiona la assai liberal Esmahan Aykol, autrice di romanzi cult come «Divorzio alla turca». Al caffè di Istanbul nel quale è seduta si discute del presente, ma soprattutto del futuro.

Vede una relazione tra l’omicidio del giudice di Gezi Park, l’assalto alla sede dell’Akp e la kamikaze intercettata nei pressi della stazione di polizia?
«Credo di no. Ma in particolare la storia del ragazzo che irrompe negli uffici dell’Akp con la bandiera ispirata agli anti-governativi aleviti non convince nessuno, è una messa in scena per far sentire il Paese minacciato dal terrorismo e stringere sulla sicurezza».

Il presidente Erdogan ha ancora il polso del Paese?
«Stiamo assistendo alla crisi dell’”erdoganismo” inteso come sistema di pensiero politico. Erdogan è cambiato dopo Gezi Park, la sua immagine è stata danneggiata per sempre, anche all’interno dell’Akp ha tanti nemici. L’uomo è potente e mantiene il controllo del partito e dell’intelligence, ma sembra uscito di senno, vuole cambiare la Costituzione per attribuirsi poteri presidenziali sul modello americano, agisce in modo irrazionale, c’è perfino chi dice che abbia un tumore. Per me non è mai stato democratico, neppure all’inizio, ma di sicuro non è più lo stesso che i turchi hanno conosciuto nel 2002».

Teme una svolta autoritaria nel Paese?
«La svolta autoritaria c’è già stata, la situazione oggi è peggiore rispetto al post colpo di Stato degli Anni 80. La democrazia turca è in pericolo, le elezioni del 7 giugno sono il nostro banco di prova. Io personalmente, donna liberal e senza la protezione di un uomo, ho paura».

Di cosa ha paura?
«Ho paura di una deriva conservatrice come i miei amici liberal e come le mie amiche. Una di loro ha appena comprato casa a Londra, un’altra, ebrea, ha chiesto la cittadinanza spagnola, a me domandano tutti perché non me ne sia ancora andata a Berlino. Il nostro governo flirta senza neppure troppa ambiguità con i terroristi di al Nusra e dello Stato Islamico in Siria, c’è un’aria pesante. Neppure l’economia marcia più bene come un tempo. Negli ultimi 12 anni si è sviluppato un mercato nero che ha drogato i dati sulle performance nazionali: oggi abbiamo un record di disoccupazione giovanile al 13% eppure, apparentemente, la ricchezza cresce».

Cosa fa l’opposizione? Ha chance di rappresentare un’alternativa oppure no?
«Siamo in una situazione paradossale, quelli come me, istruiti, emancipati, internazionali, rappresentano l’1 o il 2% della popolazione. Siamo nulla in termini numerici. Eppure senza di noi non si governa, siamo la faccia presentabile del Paese, l’ossatura delle istituzioni e l’élite della leadership economica. Hanno bisogno di noi, anche di quelli che hanno animato il movimento di Gezi Park, questa è la nostra forza e dobbiamo batterci alle elezioni di giugno».

Significa che lei almeno non sta pensando di andarsene. È così?
«Per una scrittrice la Turchia di oggi è materia straordinaria, oltre l’assurdo. Sto lavorando a un thriller psicologico intitolato New Turkey, come l’Akp chiama il Paese che pensa di aver forgiato. Ma le prospettive future sono spaventose, tanti amici se ne stanno andando. Temo che continuando così la Turchia possa conoscere un esodo di cervelli e una diaspora come quella iraniana».

LIBERO - Carlo Panella: "Gli attentati dei terroristi rossi contro la pace tra Erdogan e curdi"

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Carlo Panella

LaTurchia è sconvolta da una frenetica serie di avvenimenti nefasti: un attentato, un clamoroso sequestro di persona di un magistrato, un assalto armato alla sede del partito di governo Akp, un allarme bomba su un aereo e persino da un clamoroso blackout elettrico dalle origini misteriose che ha messo al buio tutto il Paese: 76 milioni di persone.

Incominciamo dalla fine: ieri pomeriggio due uomini armati, probabilmente due kamikaze hanno assaltato la sede del comando generale della polizia turca nel quartiere Fatih di Istanbul. Il senso dell’azione è chiaro: uno sfregio - va detto, riuscito - a una delle più agguerrite - e dure - forze di polizia del mondo. È evidente anche il legame politico tra questa azione e il sequestro del magistrato Selim Kiraz che indagava sulla morte dello studente quindicenne Berkin Elvan, morto l’11 marzo dopo nove mesi di coma a seguito delle ferite alla testa causategli dal lancio di un candelotto fumogeno durante uno dei tanti incidenti di piazza legati al “movimento di Gezi Park”. Il sequestro è finito tragicamente: azione della polizia, morti l’ostaggio e i sequestratori. Palese, anche il senso politico dell’assalto alla sede del partito governativo Akp.

Misteriose tuttora invece le cause del più grande black out elettrico della storia recente, sul quale le autorità mantengono un silenzio che induce a sospettare -ma è solo un’ipotesi - che sia stato prodotto da attentati terroristici (un’interruzione di corrente che ha riguardato tutto il Paese non può riguardare solo un impianto).

Inizia così, nel caos, una campagna elettorale per molti versi cruciale che si concluderà il 7 giugno col voto per il Parlamento. Unico dato - per così dire -positivo è che la paternità di questi attentati è attribuita dalla polizia ad un gruppo il Dhkp-c che è un pericoloso cascame della galassia terrorista dell’estrema sinistra, nato nei primi anni 70, che ha infestato per anni il Paese, ma che negli ultimi tempi pareva essere entrato in inattività. Nel suo mirino molteplici gli obiettivi, tra i quali l’ambasciata Usa, e molti gli attentati kamikaze e le vittime (è inserito in tutte le liste di organizzazioni terroristiche delle organizzazioni internazionali). Dunque, un demenziale residuo del passato, della più assurda e feroce sinistra rivoluzionaria e terrorista del Mediterraneo e non il sintomo della capacità dell’Isis, o di al Qaeda, di operare - e alla grande - anche in Turchia.

Fermissima ovviamente la reazione del governo Davutoglu e interessante la denuncia del presidente Tayyp Erdogan: «Questi attentati vogliono colpire il processo di pace con il Pkk curdo». Vera o falsa che sia questa valutazione è comunque indicativa di quello che si gioca, tra l’altro, in questa campagna elettorale. Da anni, infatti, prima Erdogan e ora Davutoglu hanno concordato una road map di pacificazione con il leader curdo Abdullah Öcalan, che sconta l’ergastolo nel carcere dell’isola di Imrali (dopo essere stato consegnato alla polizia turca dal governo D’Alema nel 1999).

La guerra indipendentista dei curdi turchi dura da un trentennio con un bilancio terribile: 35.000 morti. Proprio negli ultimi giorni questo processo di pacificazione è ripreso conforza, in vista di una scadenza elettorale in cui tutti i partiti curdi, per laprima volta nella storia, si sono unificati col risultato che i sondaggi concordano sulla certezza che supereranno l’altissima soglia di sbarramento del 10%.

È dunque più che possibile che il Dhkp-c, che ovviamente considera questa pacificazione una iattura, punti con questi suoi attentati a farne saltare il cammino. Pacificazione che peraltro vede stranamente le forze laiche turche - un tempo egemoni, ma oggi minoritarie - e in particolare lo storico Chp, assolutamente contrarie, nel nome di un nazionalismo duro e puro. Erdogan, invece, leader dello schieramento islamista, appesantito da manie personali califfali neoottomane (nell’immenso nuovo palazzo presidenziale che si è fatto costruire ha appena assunto una decina di assaggiatori), punta, va detto saggiamente, a una effettiva pacificazione con i curdi, pronto a concedere loro una discreta autonomia, per radicare la sua alleanza con i curdi iracheni, indispensabili alla Turchia non solo per ragioni geopolitiche, ma anche per solide ragioni petrolifere legate ai pozzi di Mosul e Kirkuk.

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