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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
02.04.2015 I palestinesi che non contano: lo Stato Islamico nel campo alle porte di Damasco
Cronache e commenti di Domenico Quirico, Daniele Raineri

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Domenico Quirico - Daniele Raineri
Titolo: «Isis alle porte di Damasco, preso il campo palestinese - Assalto finale a Tikrit»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/04/2015, a pag. 1-10, con il titolo "Isis alle porte di Damasco, preso il campo palestinese", la cronaca e commento di Domenico Quirico; dal FOGLIO, a pag. I, con il titolo "Assalto finale a Tikrit", la cronaca e commento di Daniele Raineri.

Quando i palestinesi vengono uccisi dai loro "fratelli" arabi, la stampa internazionale di solito non riporta la notizia. Sembra che i palestinesi siano argomento-tabù al di fuori della dinamica che li vuole contrapposti a Israele. Quando è possibile, anche tramite vie traverse, incolpare Israele di qualcosa, ecco infatti i titoli cubitali in prima pagina.
L'eccezione a questa regola è l'articolo di Domenico Quirico sulla Stampa di oggi, che riproduciamo di seguito.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Domenico Quirico: "Isis alle porte di Damasco, preso il campo palestinese"

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Domenico Quirico


Terroristi dello Stato Islamico nel campo palestinese di Yarmouk

Ogni morto è pesante come tutta la terra, come l’intero universo. In Siria poi, dove ormai sono più di duecentomila... Ma ci sono vittime che pare assorbano in sé tutto il dolore e il peso del cosmo. Come a Yarmuk, il campo di profughi palestinesi non lontano da Damasco, assediato da anni dall’esercito di Bashar, bastione ribelle e palestinese, doppia colpa per il regime, che ha cercato di annientarlo con le bombe e ucciderlo con la fame.

È difficile parlarne, iniziare il discorso. A Yarmuk hanno mangiato l’erba, a Yarmuk uomini e bimbi sono morti di fame, hanno sudori di sangue a Yarmuk. Una giovane donna disse: l’inferno è meglio che qui, tutti danno per scontato che noi siamo già morti… Rovina, sporcizia, fame, solitudine. Il suicidio più adatto per loro sembra proprio la vita. Ascoltiamo, in casi come questi, quasi il trascorrere del tempo, un fruscio cupo, terribile, in cui svaniscono le settimane, i mesi, gli anni. E le vite degli uomini. I palestinesi: fuggiaschi di mille naufragi, traditi e dimenticati da tutti, dai loro capi meschinamente avvinti a privati disegni, dagli altri palestinesi, dai musulmani, dal mondo…

Bombe e scontri
Ieri, secondo varie e coincidenti testimonianze, avanguardie del Califfato avrebbero preso il controllo del campo e avviato la battaglia per impadronirsene definitivamente. Ancora bombe, scontri tra le rovine e le immondizie. Il Califfato alla periferia di Damasco! Quando gli encomiatori delle inevitabili controffensive, gli annunciatori tersicorei di incombenti rivincite lo descrivevano ormai esausto, agonizzante, liquidato da bizantineggianti beghe interne, dalle bombe scientifiche di Obama e dalla fuga dei disgustati combattenti internazionali; che hanno fiutato che la faccenda va a finire in un disastro. «La fine del Califfato inizia a Tikrit!», spumeggiava il primo ministro iracheno, appena ieri, che dava per certa la riconquista della città.

Già: intanto il califfo Abu Bakr avviava sciami di sciacalli mai sazi, facce scure e secche, occhi lucenti e una bandiera nera che guardano fanaticamente, a tirare unghiate al padrone di Damasco, «al taghut», la tirannia per antonomasia. Far leva sulla disperazione, come sempre: e in quale luogo se ne trovano strati più densi e fondi che a Yarmuk, dove sembra gocciolare dal cielo? E presentarsi, forse, come il salvatore dei palestinesi che Bashar e i musulmani empi e traditori hanno lasciato morire di fame e di bombe. Realtà difficilmente negabile.

Obbligatorio restare cauti perché nel Vicino oriente le bugie sono diventate, da tutte le parti, Occidente compreso, come un succo appiccicoso che ha invaso tutto, una viva e crescente carta moschicida dove vanno a impigliarsi le ali di tutti. Ma resta il fatto che questa è la tattica, efficace, del Califfato: moltiplicare i fronti, assorbire ogni ritirata in una avanzata contemporanea in un’altra direzione, compensare, anche nelle immagini, una sconfitta con una vittoria.

La nuova strategia
Così da più di un anno aggrottiamo le sopracciglia e aguzziamo gli occhi su realtà caparbie e avverse raggruppate sotto la rubrica di nomi poco familiari: Sirte, Maiduguri, Kidal, Tikrit, Yarmuk… Oltre la curva del mondo vacillante immaginiamo i nostri avversari: sceicchi barbuti che sibilano minacce gesticolando come marionette, e l’olivastro tarchiato signore di Mosul: rigettate la democrazia, la laicità, il nazionalismo e altre immondizie dell’Occidente, l’Occidente e l’Oriente si sottometteranno a voi… E loro, intanto, riducono in polvere milioni di esseri umani.

Per mesi è stato l’Iraq il punto di minore resistenza, Baghdad a un passo, gli «zindik»’, gli eretici sciiti, in fuga come pecore al macello… Nel frattempo Mosul è stato munito come un bastione, e si è rinsaldata l’alleanza con le indispensabili tribù sunnite, per cui l’avanzata degli sciiti e dei «persiani» è un annuncio di nuova rovina e sanguinosa vendetta. Il fronte siriano sembrava sonnolento. Ora il califfo va a saggiare la resistenza di quanto resta del regime di Bashar, a Damasco, la città santa sempre sfuggita sanguinosamente ai ribelli siriani. Prova a sollevare nuovi alleati, i palestinesi, che troppo hanno sofferto e il sangue si è loro avvelenato nelle vene. Così qualunque pensiero o atto distrugga il tragico presente, essi chiamano giustizia. E la giustizia deve durare a lungo se deve riscattare le lunghe sofferenze.

IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Assalto finale a Tikrit"

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Daniele Raineri


In rosso, le città occupate dallo Stato Islamico

Tikrit, dal nostro inviato. Tikrit è una città costruita come una lunga striscia sul fiume Tigri. Gli iracheni stanno attaccando da sud – dove c’è l’ospedale – e da nord – dove c’è il campus universitario. Sono entrambi grandi complessi di costruzioni dove i combattimenti vanno avanti angolo dopo angolo, edificio dopo edificio. Due giorni fa all’Università, lungo il perimetro che guarda verso sud, gli spari continuavano da tutte e due le parti, i bombardamenti aerei americani proseguivano, c’erano ancora morti trascinati via dentro le coperte con le braccia a penzoloni verso i cassoni dei pick up lasciati più indietro e da lì verso le ambulanze nelle retrovie – e i soldati ordinavano, anzi urlavano: “Niente fotografie!”.

Eppure il governo iracheno ha bisogno di risultati e così ieri ha dichiarato vittoria contro lo Stato islamico, senza aspettare che le ultime sacche di resistenza a Tikrit fossero davvero sconfitte. Baghdad è pronta a cogliere ogni occasione per raddrizzare un poco l’orgoglio nazionale, piegato dagli eventi dell’anno scorso, quando lo Stato islamico ha preso il controllo di alcuni pezzi di paese nel nord e nel centro. I soldati iracheni sono riusciti a sfondare la linea a sud della città lunedì, hanno preso l’ospedale, sono risaliti fino al centro della striscia, al palazzo del governatore che affaccia sull’acqua – un progetto dei tempi di Saddam come tutti i grandi palazzi in Iraq – e hanno issato la bandiera nazionale.

Come talvolta avviene, la notizia precede il fatto e lo determina. Il primo ministro Haider al Abadi ieri mattina aveva detto ai ministri che “le forze di sicurezza sono arrivate in centro, hanno liberato la parte sud e quella ovest, avanzano per liberare l’intera città”, ma i media iracheni ormai non si tenevano più: il canale Al Iraqiya ha annunciato sullo schermo dei televisori che “Tikrit è stata interamente liberata, dice il primo ministro”.

Così Al Abadi ieri pomeriggio è arrivato in elicottero al palazzo del governatore di Tikrit per celebrare la vittoria. A nord del palazzo, il gruppo più violento del mondo sunnita, lo Stato islamico, controlla ancora la parte di territorio che s’allunga verso il muro perimetrale sud dell’Università, un territorio di palazzi sparsi, di depositi e di rifiuti industriali sparpagliati dove i soldati non riescono a penetrare. Sarà complicato per le squadre di sminatori che un giorno dovranno ripulire ogni passaggio dalle mine lasciate a centinaia. Per ora è impossibile. “Qannas”, c’è un cecchino che spara. Qannas da quella finestra, qannas dall’angolo di quell’hangar in lamiera, qannas in cima a quel muro di cemento.

Il campus abbandonato è crivellato e i militari passano la maggior parte del tempo al di qua del muro, tra i cartelli nuovi di metallo blu che ancora segnalano in arabo e in inglese: facoltà di Ingegneria, facoltà di Chimica, Scienze del petrolio e così via. Puntano i tubi dei lanciarazzi verso i cecchini. E’ roba cinese degli anni Sessanta, dodici tubi da 107 millimetri montati assieme su due ruote, poco accurata ma brutale. Li agganciano a rimorchio dietro un pickup e corrono all’altro capo di un viale in cerca di una posizione migliore e aspettano il momento giusto e l’ordine di sparare i razzi ancora in direzione di Tikrit “la liberata”. Sotto i colonnati bivaccano i gruppi paramilitari sciiti che partecipano alla battaglia con diverse gradazioni di ostilità e violenza contro i jet americani che sorvolano la zona per colpire lo Stato islamico qualche centinaia di metri più in là.

“Sono inutili, possiamo ripulire Tikrit anche da soli”, dicono gli sciiti. Su internet circolano video in cui i gruppi sciiti annunciano di volere degli abbattimenti, ma si sa che l’osservatore modifica l’esperimento con la sua presenza e quindi ora non dicono niente di aggressivo. I jet agiscono invisibili, annunciati soltanto dal rumore del volo e dal botto che segue. La settimana scorsa hanno colpito per errore una postazione della brigata Badr, uno dei gruppi paramilitari sciiti più grandi e legati all’Iran. Tutte le congetture dentro al campus vanno nella stessa direzione: lo hanno fatto apposta. La vittoria dichiarata a Tikrit è il culmine di una campagna militare che tende il paese allo spasimo. A Baghdad per ogni cartellone pubblicitario normale ce ne sono almeno altri due che chiamano all’arruolamento nei gruppi volontari e rendono onore ai caduti.

Il gruppo più recente è Hashd al Shabi, in arabo “la mobilitazione del popolo”, che rifiuta l’etichetta di “milizia”: “Non chiamarci milizia se scrivi di noi, non siamo una milizia”, dicono al Foglio. Se rispondi che milizia è un termine neutrale, indica un gruppo armato che non fa parte di un esercito e che loro sono a tutti gli effetti una milizia, negano ancora. Il pensiero radicato nella mente di tutti è che milizia indica direttamente i gruppi sciiti che rispondevano colpo su colpo alla violenza di al Qaida in Iraq negli anni della guerra americana. Erano i tempi della faida, nel 2006, quando all’obitorio di Baghdad arrivavano cento cadaveri al giorno. Loro vogliono dare l’idea di essere una risposta popolare dell’Iraq contro l’invasione dello Stato islamico.

Se lo slogan della primavera araba era “ash shab iurid iskat al nidam”, il popolo vuole la caduta del regime, ora c’è la “mobilitazione al shabi”, del popolo, la reazione filogovernativa che reagisce alla deriva jihadista del terremoto politico di quattro anni fa. Questa è l’idea, ma è ovvio che dietro alla mobilitazione c’è la maggioranza sciita. Da Baghdad su fino a Tikrit per centosettanta chilometri di autostrada ci sono le bandiere dei gruppi di combattimento sciiti al vento, quelle gialle degli Hezbollah iracheni, quelle rosse della Brigata Abu Hussein, quelle con le spade della Brigata Imam Ali, tutte figure riverite dello sciismo. Quando il convoglio di Hashd al Shabi arriva alle porte di Tikrit, i volontari si fermano a festeggiare e a danzare sotto il cartello che indica la distanza che ancora manca a Mosul, un po’ più di duecento chilometri. Alzano i kalashnikov: “Ora Tikrit, poi Mosul!”.

Lo fanno sotto gli occhi severi dell’Ayatollah Sistani, la massima autorità degli sciiti oggi in Iraq, che guarda da una gigantografia che qualcuno ha appeso sotto il cartello autostradale. E chissà cosa pensano i clan tikriti e sunniti locali che ancora oggi sono fan di Saddam, dieci anni dopo la sua fine politica, e che piuttosto che con gli sciiti preferiscono mettersi con lo Stato islamico. Guardano da dentro le case, in qualche caso combattono. Alcuni di loro non faranno godere questa vittoria militare a un governo che considerano nemico. Shirwan al Waili, che era ministro della Sicurezza nel 2006, dice al Foglio (in un’intervista fatta nella Zona verde a Baghdad) che una delle differenze più grandi tra la guerra di prima, quando c’erano gli americani (i soldati a terra) e questa di adesso è che “allora avevano come armi le cinture esplosive. Ora hanno anche carri armati e cannoni”.

A Tikrit comincia un lungo tour governativo di combattimenti di città in città per degradare lo Stato islamico dallo status attuale di esercito a quello precedente di gruppo terrorista. Non che avesse smesso di esserlo. Ora Tikrit, poi Mosul, cantano i volontari di Hasd al Shabi. Però molti chilometri e qualche ora prima, appena fuori da Baghdad, il traffico sulla strada si è imbottigliato all’improvviso tra poliziotti che gridavano e stringevano le corsie, un soldato nella fretta ha fatto cadere il caricatore dal fucile e si è fermato a raccoglierlo tra le automobili bloccate. E’ successo che un attentatore suicida dello Stato islamico ha visto un pulmino carico di pellegrini iraniani in sosta, si è avvicinato e si è fatto saltare. Aveva passato i checkpoint e i controlli di sicurezza vicino alla capitale senza un obbiettivo specifico: era un “opportunista”, a caccia di un bersaglio pagante.

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