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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.03.2015 Israele/Elezioni: paese dell'apartheid? Il terzo partito in Parlamento è arabo
Uno schiaffo per chi accusa falsamente lo Stato ebraico di razzismo

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Tra i palestinesi esplode la rabbia ma dal Golfo arriva 'comprensione' - L'avvocato che ha smosso gli arabi»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/03/2015, a pag. 11, con il titolo "Tra i palestinesi esplode la rabbia ma dal Golfo arriva 'comprensione' ", la cronaca e commento di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, con il titolo "L'avvocato che ha smosso gli arabi", il commento di Lorenzo Cremonesi.

Come sottolinea Maurizio Molinari, i Paesi pragmatici del Medio Oriente come Egitto e Arabia Saudita cominciano a capire che l'unico modo per sconfiggere il terrorismo islamico, da loro per tanti anni favorito, occorre una allenza almeno implicita con Israele, che combatte il terrorismo dalla propria nascita nel 1948.

Ecco gli articoli:


Ayman Odeh, capolista della Lista Araba Unita

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Tra i palestinesi esplode la rabbia ma dal Golfo arriva 'comprensione' "


Maurizio Molinari e il suo recente libro "Il Califfato del terrore"

«É il risultato di una campagna elettorale basata su razzismo e apartheid». Saeb Erakat, capo-negoziatore dei palestinesi, reagisce da Ramallah alla vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu parlando di «successo dovuto al sostegno per gli insediamenti, alla discriminazione degli arabi israeliani e alla negazione dei diritti umani fondamentali dei palestinesi» nei Territori di Cisgiordania e Gaza. La responsabilità di quanto avvenuto, aggiunge Erakat, è della «comunità internazionale che non ha obbligato Israele a rispondere delle violazioni di leggi, convenzioni e diritti» facendo maturare nella popolazione «la convinzione dell’immunità».

L’offensiva diplomatica
Il fuoco di sbarramento anti-Netanyahu che arriva dal governo palestinese lascia intendere che a breve partirà una duplice offensiva diplomatica: per ottenere il riconoscimento della sovranità sui Territori da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e per far condannare Israele per «crimini di guerra» dal Tribunale penale internazionale a seguito dei raid su Gaza in estate. In entrambi i fori, gli Usa assicurano al momento che opporranno il veto ma i palestinesi ritengono che Barack Obama potrebbe adesso decidere limitare le «difese legali» di Israele. Anche Abu Mazen, presidente palestinese, interviene per dirsi «pronto a lavorare con qualsiasi governo accetti la soluzione dei due Stati» ovvero evidenziando che ora Netanyahu è in un angolo, obbligato a dover spiegare Usa e Ue le sua nuova posizione contraria agli accordi siglati a Oslo. Ciò che conta per i palestinesi è l’isolamento internazionale di Israele e, secondo Erakat, «quanto avvenuto lo conferma».

La striscia di Gaza
Da Gaza intanto parla di Hamas. È il portavoce Sami Abu-Zuhri che adopera un linguaggio di guerra davanti al risultato israeliano: «La resistenza dei palestinesi è forte, capace di lasciare il segno sui nemici e dunque i nostri aggressori devono pensare bene a cosa fanno».

I portavoce dell’ala militare di Hamas tagliano corto: «Per noi non c’è alcuna differenza fra i partiti politici israeliani perché fra loro c’è un consenso di massima» sulla «necessità di colpire i palestinesi». L’altro fronte di crisi di Israele è con l’Iran, da dove il governo di Hassan Rouhani reagisce al successo di Netanyahu parlando «di poche differenze fra le spie sioniste» perché «si tratta della stessa storia sebbene colorata in maniera diversa».

I sunniti del Golfo
Nei Paesi sunniti del Golfo l’impressione è invece differente. «È l’affermazione dell’Iran nucleare ad aver facilitato la riconferma di Netanyahu alla guida del governo» afferma un alto funzionario degli Emirati, secondo il quale «il premier israeliano crede profondamente nella necessità di proteggere la sua gente e dunque crea consenso attorno alla sua politica». Sono toni nei confronti di Netanyahu che si ritrovano, in maniera informale da Dubai al Cairo, ovvero in quei Paesi sunniti accomunati a Israele dalla doppia opposizione al nucleare iraniano e al jihadismo del Califfo di Isis. Sami al Faraj, consigliere per la cooperazione sulla sicurezza in Kuwait, aggiunge: «Certo, da una parte c’è scontento per quanto detto da Netanyahu sugli accordi Oslo ma dall’altra molti ritengono che tali posizioni saranno presto ridimensionate se il mondo riuscirà ad esprimere sostegno a Israele minacciata dai jihadisti». «I negoziati nucleari fra Usa e Iran - aggiunge il consigliere del Kuwait - fanno davvero paura a molti Stati arabi perché ignorano la presenza di unità militari iraniane in Iraq e Yemen» e dunque la reazione del pubblico israeliano «alla ricerca della sicurezza» è «naturale».

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi: "L'avvocato che ha smosso gli arabi"


Lorenzo Cremonesi

Non hanno vinto e non faranno parte di alcuna coalizione di governo. Eppure, i 13 o 14 deputati (da confermare dai risultati dello scrutinio finale) della nuova Lista Unita eletta dagli arabi israeliani rappresentano una delle novità più significative delle elezioni. E’ dalla prima legislatura nel 1949 che gli arabi cercano di creare una coalizione unitaria, ma le divisioni interne avevano sempre prevalso. Il quotidiano Haaretz nota che, se si conteggiano anche i quattro deputati arabi nei «partiti sionisti», la Ventesima Knesset (il Parlamento) dovrebbe avere così in tutto 17 deputati arabi (sui 120 complessivi). Circa il doppio di quelli che erano stati eletti nella precedente legislatura. «La forte presenza araba è figlia dell’effetto boomerang generato dalle dichiarazioni ostili e razziste della destra, a partire da quelle del ministro degli Esteri Avigdor Liberman», notano i commentatori israeliani.

Uno dei momenti topici fu durante un dibattito televisivo poche settimane orsono, quando Liberman rivolgendosi al leader del partito comunista Hadash (il cui elettorato è quasi tutto arabo), Ayman Odeh, lo definì «straniero» e «cittadino palestinese». Questi, nato ad Haifa nel 1975, noto avvocato, in ebraico perfetto ricordò a Liberman la sua immigrazione dall’ex Urss nel 1978 aggiungendo: «Io sono molto ben accetto nella mia città natale, sono parte della natura, figlio di questa terra». Da allora Odeh è diventato il motore primo della Lista Unita, che coalizza assieme ai comunisti tre partiti arabi minori: Ta’al, Balad e Lista Araba Unita. Al suo fianco sono state elette figure ben note alla politica locale. Prima tra tutte la 46enne «pasionaria» Haneen Zoabi, araba israeliana figlia di una delle più note famiglie musulmane di Nazareth. Lei, laureata all’università di Gerusalemme, è entrata alla Knesset per la prima volta nel 2009 tra le file del Balad. Venne poi processata per aver partecipato alla spedizione pacifista nel 2010 a favore della popolazione palestinese di Gaza sulla nave turca «Mavi Marmara», quando nove attivisti rimasero uccisi nello scontro con i commando israeliani.

Punto centrale della sua politica è oggi la nascita di uno Stato binazionale arabo-ebraico che comprenda Israele e i territori occupati nella guerra del 1967. Altra figura di punta della nuova lista è il 55enne Jamal Zahalka, anch’egli attivista nel Balad impegnato in quella che definisce la «lotta contro l’apartheid». La Lista Unita vorrebbe rappresentare il milione e 658.000 arabi israeliani (circa il 20,7 per cento della popolazione del Paese), di cui l’80 per cento musulmani. Pure, non mancano le difficoltà. Le sue componenti vedono al loro interno profonde differenze. I comunisti, che raccolgono tra l’altro circa 10.000 elettori ebrei, sono propugnatori di istanze socialiste, laiche e femministe. Per contro, i tre partiti arabi raccolgono elementi tradizionalisti islamici, alcuni ispirati al fondamentalismo religioso di Hamas e altri al nazionalismo dell’Olp. Tenerli assieme potrebbe risultare impossibile.

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