Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 18/03/2015, a pag. IV, con il titolo "Le stelle allineate d'Iran", l'analisi di Tatiana Boutourline; segue un nostro commento sull'articolo di Farian Sabahi pubblicato sul CORRIERE della SERA, a pag. 17.
Ecco l'articolo:
Tatiana Boutourline
Hassan Rouhani con l'ayatollah Khamenei
Tutte le stelle si sono allineate”, dice dice il giornalista che segue la delegazione iraniana, parlando alla radio pubblica della Repubblica islamica, quando nella lobby dell’Hôtel Beau-Rivage Palace di Losanna arriva il segretario di stato americano, John Kerry. E’ una settimana decisiva per il negoziato sul dossier nucleare di Teheran: il 31 marzo è stato indicato come ultima data utile entro cui definire le coordinate politiche di un accordo-quadro (che, una volta raggiunto, potrà essere limato nei suoi dettagli tecnici fino alla fine di giugno), ma questa è anche, e soprattutto, la settimana in cui la legacy obamiana si intreccia tanto al destino politico del presidente iraniano Hassan Rohani quanto a quello del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Mentre Israele vota, a Teheran c’è chi scommette sulla sua sconfitta come viatico alla distensione, ma anche chi tifa Bibi per non perdersi lo spettacolo della tempesta perfetta tra Washington e Gerusalemme. L’orologio del possibile reset diplomatico ticchetta e il team iraniano ostenta calma. Negli scatti che immortalano la delegazione in volo verso la Svizzera, il ministro degli Esteri Javad Zarif sorride guardando una rivista che lo ritrae sulla copertina.
Un sondaggio – per quello che valgono i sondaggi in Iran – lo ha recentemente consacrato “uno degli uomini più amati della Repubblica islamica”, secondo solo alla nuova icona rivoluzionar-pop, Qassem Suleimani. A Teheran sono comparsi enormi cartelloni che celebrano l’amministrazione del presidente Hassan Rohani e “le sue relazioni con il mondo”. La Borsa è salita del 2 per cento in cinque giorni e la febbrile attesa del Nowruz, il capodanno persiano, è carica di un’urgenza nuova. “Dal grigiore, all’alba, fino alla luce del giorno”, ha detto il presidente iraniano alludendo “all’accordo che prima o poi si farà”. La strada verso lo storico accordo è lastricata di distinguo e le voci che filtrano dal negoziato parlano sì di progressi, ma anche di nodi da sciogliere, eppure, mai come questa volta, il mantra degli iraniani pare essere l’ottimismo. Teheran vuole essere annoverata come l’interprete più ragionevole in una partitura in cui gli altri, gli occidentali e in particolare gli americani, si dimostrano volubili e superficiali. “Se l’accordo muore a Teheran, come politico puoi lo stesso farci qualcosa, ma se lo uccidono a Washington è davvero un gran problema”, ha spiegato a Foreign Policy Richard Nephew, in forza al dipartimento di stato fino allo scorso dicembre come esperto di sanzioni. “Vi abbiamo seguito fino a qui, direbbero gli alleati e voi ve ne siete andati”, a quel punto “convincere partner commerciali dell’Iran come India, Cina e Russia a rispettare le restrizioni nei confronti delle esportazioni energetiche di Teheran diventerebbe assai più complicato”.
Così mentre il team iraniano chiede spiegazioni riguardo alla lettera in cui 47 senatori repubblicani avvertono l’ayatollah Ali Khamenei, la Guida Suprema, che un eventuale accordo nucleare siglato con Barack Obama avrebbe vita breve, da Teheran arrivano le rassicurazioni del capo del Majlis, Ali Larijani: “Il Leader Supremo ha approvato il negoziato e non c’è bisogno che il Parlamento faccia altrettanto”, come a dire che l’Iran non offrirà lo spettacolo fazioso dei suoi interlocutori. Lo sfoggio di ragionevolezza dei dirigenti iraniani non è solo tattico però. Dopo 18 mesi di colloqui, passeggiate e pacche sulle spalle, contatti che un tempo avrebbero fatto strabuzzare gli occhi a qualsiasi analista e che, adesso, sono solo routine, la normalizzazione de facto c’è già e agli iraniani importa poco che David Petraeus li accusi di essere più pericolosi dello Stato islamico in Iraq o che il principe saudita Turki al Faisal paventi – in caso di accordo – una corsa agli armamenti atomici in medio oriente. Mentre Kerry sostiene che non si va da nessuna parte senza parlare con Bashar el Assad e l’estremismo sunnita scalza l’Iran e Hezbollah dal vertice delle minacce più pericolose per l’intelligence americana, molte stelle paiono davvero essersi allineate nel cielo di Teheran.
“E’ un momento d’oro per noi”, ha raccontato in un’intervista ad al Monitor Amir Mohebbian, uno dei giornalisti più ascoltati negli ambienti conservatori. Il reset non sarà né immediato né omnicomprensivo. L’Iran non passerà nel giro di una notte da paria a “poliziotto del golfo” come temono l’Arabia Saudita e i suoi satelliti, ma l’impatto sarà comunque “enorme”. E, infatti, a preoccupare Ankara e Riad non è tanto l’ipotesi di una distensione totale, una riedizione, mutatis mutandis, dei rapporti prerivoluzionari, quanto la possibilità di un’intesa più sfumata, fatta di aree che restano volutamente grigie. Gli analisti sauditi la chiamano “politica minima”: campo libero a Teheran senza alcun potere di supervisione nei confronti dei pasdaran e delle loro milizie, come sta già accadendo in Iraq. Secondo Mohebbian, se Zarif porterà a casa l’accordo, “il sistema lo accetterà”. E’ persuaso che l’emergere del jihadismo sunnita ultima maniera abbia aiutato un blocco decisivo del regime a riconoscere che l’ideologia khomeinista vecchia maniera, anti imperialista e rivoluzionaria, vada aggiornata. “E’ un tabù, non si può dire ad alta voce, ma l’Iran ambisce a un ruolo di leadership nel mondo musulmano ed è più facile che realizzi il suo obiettivo incarnando una versione moderata dell’islam. Non dico che saremo la Svizzera, però cambieremo”.
“Cambiare per sopravvivere” è stata per vent’anni la missione di una generazione di ideologi riformisti bruciati tanto dall’ignavia di Mohammed Khatami quanto dalla sottovalutazione del “partito dei pasdaran” di Mahmoud Ahmadinejad. La differenza è che questo “cambiare per non morire” riveduto e corretto ha poco a che vedere con l’allentamento dei diktat della moralità rivoluzionaria. I conservatori alla Mohebbian hanno imparato la lezione delle sanzioni, sognano per l’Iran un futuro da potenza economica, una riedizione del modello cinese perorato da Hashemi Rafsanjani, ma sanno anche che, per contrastare gli effetti dirompenti di una massiccia iniezione di consumi occidentali, la religione e l’ideologia rivoluzionaria non bastano più: è il nazionalismo, messo all’indice nel 1979 insieme a tutte le altre vestigia monarchiche, il nuovo uovo di Colombo. Non c’è esempio più lampante di questo percorso del nuovo profilo pubblico del capo di al Quds, Qassem Suleimani, passato in una manciata di mesi da Suleimani a Supermani: il misterioso e impenetrabile comandante pasdaran trasformato in un’ irrinunciabile icona pop. Dopo una vita trascorsa a tessere tele nell’ombra, tutto a un tratto non c’è giorno in cui non conceda un poco di sé: Suleimani che beve il té con i peshmerga, Suleimani che festeggia il compleanno a Tikrit, Suleimani che poggia la mano paterna sulla spalla di un miliziano, Suleimani che prima veniva immortalato con gli occhi umidi per la morte di un commilitone a ricordare a tutti che, anche nella vittoria, “non si deve gioire ma pensare ai martiri che ci hanno preceduto” e che ora, invece, sorride.
Un anchorman della tv iraniana è andato in onda con il suo volto stampato sulla maglietta, in Iraq gli hanno dedicato una canzone e il segretario generale di Badr (milizia sciita che Teheran ha sostenuto in funzione anti Saddam) ha proposto di innalzare sul suolo iracheno una statua in suo onore. Il deputato del Kurdistan iraniano, Nazem Dabbagh, ha motivato in questi termini il segreto del suo successo: “Suleimani non resta confinato negli alberghi di lusso a dare ordini, ma è sempre sul campo di battaglia e non indossa nemmeno un giubbotto antiproiettile”. In tempi in cui tutto appare incerto – tanto le promesse di rinnovamento di Rohani quanto l’assistenzialismo del regime verso i suoi – Suleimani pare l’unico modello davvero vincente. Quando abbraccia Jihad Mughniyeh, il figlio del leggendario (o famigerato a seconda dei punti di vista) comandante di Hezbollah Imad Mughniyeh, rassicura quanti nel regime temono una deriva nel campo filo occidentale. Suleimani guancia a guancia con Mughniyeh conferma di vantare rapporti viscerali con i più importanti alleati iraniani nella regione. E allo stesso tempo, il suo status rappresenta anche un’arma formidabile nell’arsenale diplomatico dei pragmatici. C’è chi annovera Suleimani come un possibile candidato presidenziale, ma chi lo conosce giura che non saprebbe rinunciare alla vita in prima linea.
Con la marcata eccezione di una mal celata ostilità nei confronti di Ahmadinejad, il leader di al Quds ha sempre mantenuto buoni rapporti con tutti i centri del potere iraniano, conservatori, tecnocrati o riformisti che fossero, ma ha sempre preferito non esporsi politicamente e non lo ha fatto nemmeno a proposito dei negoziati: è tuttavia palese che la cronaca martellante della sua valorosa campagna contro lo Stato islamico in Iraq, lo ha ormai promosso al rango di imprenscindibile alleato di Rohani. La variabile Suleimani è percepita in maniera tanto centrale che l’ex ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite, Sadegh Kharrazi, si è spinto ad affermare che Obama considera Suleimani “un nemico degno di rispetto”, mentre “Kerry gli ha chiesto un colloquio”, iperboli che fotografano la spettacolare convergenza tra lo sconquasso degli equilibri regionali e il gigante dormiente del nazionalismo iraniano. Rohani è finora riuscito a tenere le fila della sua partita internazionale arginando i contraccolpi interni. Il vecchio sponsor Rafsanjani è stato spinto a candidarsi alla guida dell’Assemblea degli Esperti per poi venire bocciato e suo figlio è appena stato condannato a quindici anni di prigione, i falchi hanno seguitato a organizzare conferenze in cui gridare “Fratelli siamo in pericolo!” e negli auditorium si vendono discorsi dell’ayatollah Khomeini come il notorio “Io sono un rivoluzionario, non un diplomatico” (ogni legame con lo charme salottiero dispensato dalla coppia Rohani-Zarif non è naturalmente casuale), ma i grandi ayatollah di Qom lo hanno sostenuto e Khamenei finora non lo ha tradito.
I leader della preghiera del venerdì sono stati ufficialmente invitati a evitare le critiche (secondo il quotidiano di orientamento riformista Etemaad, l’appoggio coordinato al deal nelle moschee è “senza precedenti”). Il capo di stato maggiore delle Forze armate, Hassan Firouzabadi, ha affermato che “i colloqui procedono nel modo giusto”, e persino il capo della milizia più ideologicamente connotata, quella dei Bassiji, ha concesso che la dignità iraniana non è stata lesa dal negoziato. Il fair play è funzionale alla strategia di Teheran comunque vada a finire. Se vincono, tutti potranno accampare il sostegno alla strategia moderata, se il processo crolla, l’Iran avrà dimostrato al mondo la volontà di andare fino in fondo e agli iraniani di averli infine salvati da un ennesimo inganno. Lo spettro di una pace epocale con il Grande Satana non è scevra di complicazioni per Khamenei, ma se Rohani vincerà, è probabile che la Guida Suprema giustifichi l’accordo come il risultato della lunga resistenza. Il nemico vi rispetta e forse un giorno non sarà più un nemico, ma solo un avversario. Zarif sottolinea spesso che un effetto che va già ascritto al negoziato è “la sconfitta dell’iranofobia”. Nel frattempo in Iran tutto è sospeso e l’euforia che ha caratterizzato il primo anno di governo di Rohani ha ceduto il passo allo scetticismo. Il presidente ha provato ad arginare la crisi, dopo due anni di recessione, nel 2014 l’economia è tornata a crescere e l’inflazione che aveva raggiunto picchi del 40 per cento si attesta ora intorno al 17.
Ma il calo del prezzo del petrolio (da cui dipende il 42 per cento delle entrate iraniane) ha avuto effetti devastanti sulle casse dello stato. Partito aggressivo nei confronti dei pasdaran e dei loro “monopoli” impermeabili al fisco, Rohani ha poi fatto marcia indietro per non aprire un fronte mentre si gioca la partita nucleare. Le grandi corporation dei pasdaran fanno il bello e il cattivo tempo in un’economia strozzata dalle importazioni cinesi, i grandi corrotti a cui il presidente aveva promesso la gogna sono rimasti al loro posto. Gli investitori iraniani non si muovono e molte banche sono prossime al collasso. La diplomazia del sorriso ha conquistato Davos, ma gli uomini d’affari stranieri che arrivano “bevono un tè e se ne vanno”.
L’interesse per il mercato iraniano è palese, ma niente va in porto. La banca tedesca Commerzbank ha recentemente accettato di pagare una multa da 1,45 miliardi di dollari al governo americano per aver violato l’embargo economico nei confronti di Teheran. Nonostante il team Zarif abbia più volte ribadito di volere una revoca contemporanea di tutte le sanzioni, gli analisti ritengono che l’Iran potrebbe accettare di vivere ancora senza contatti economici diretti con le imprese statunitensi sempre che le sia concesso di tornare a far parte del sistema bancario internazionale. Ma la tempistica della revoca delle sanzioni resta uno degli aspetti più delicati della trattativa. Da Losanna ieri filtravano notizie contraddittorie. Passeggiando nei giardini del Beau-Rivage Palace, il capo dell’Agenzia atomica iraniana, Ali Akbar Salehi, ha accennato a un’ultima questione da dibattere, risolvibile entro venerdì. Zarif non si è sbilanciato e ha ripetuto due volte la frase di rito: “Ci arriveremo, alla fine ci arriveremo”.
Secondo i quotidiani iraniani – Jam-e- Jam ieri titolava: “Siamo vicini all’accordo” – il team Zarif contava di tornare in patria in tempo per festeggiare il Nowruz, il capodanno persiano che cade il 21 marzo, ma al momento la prospettiva pare ottimista. Alcune fonti parlano di “un accordo verbale sull’annuncio da fare”, ma la formula sibillina si presta a tutta una gamma di interpretazioni che vanno dalla svolta a un annacquato documento di intenti ben diverso dal solido accordo-quadro promesso a novembre. Il peso politico di un negoziato che si dilata è oneroso per tutti, ma Rohani ci crede ancora. A Teheran la sensazione è che nemmeno la Casa Bianca voglia tornare allo status quo ante. Forse non accadrà in tempo per l’equinozio di primavera, ma un giorno tutte le stelle nel cielo di Teheran si allineeranno davvero.
Il CORRIERE della SERA pubblica un articolo di Farian Sabahi dal titolo "Così libero dal velo le iraniane come me". Ancora una volta la Sabahi cerca di ripulire l'immagine del sanguinario regime degli ayatollah iraniani.
Farian Sabahi
Farian Sabahi quando collaborava con La Stampa manipolò un'intervista a Abraham B. Yehoshua, il quale smentì con una lettera pubblicata sul quotidiano torinese. In quella circostanza Sabahi fu allontanata dalla Stampa.
Oggi collabora al Corriere della Sera e al Sole 24 Ore - evidentemente gode di buone entrature - propagandando l'immagine di un Iran moderato che è lontanissima dalla realtà: un "Iran-washing" con cui cerca di ripulire il regime degli ayatollah dai crimini che quotidianamente compie.
Informazione Corretta ha già denunciato più volte l'attività di Sabahi, si veda per esempio http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=55834
Per avere maggiori informazioni sul lavoro da lei svolto in Italia, è utile sentire l'opinione dell'opposizione iraniana in esilio nel nostro Paese.
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