Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 17/03/2015, a pag. 16, con il titolo "Netanyahu: 'Con me, nessuna Palestina' ", il commento di Giorgio Ferrari; dall' OSSERVATORE ROMANO, a pag. 3, con il titolo "Un voto oltre il conflitto", il commento di Luca Possati.
La stampa cattolica si schiera sul voto in Israele contro Netanyahu. In particolare Giorgio Ferrari su Avvenire riprende i luoghi comuni che dipingono il leader del Likud come se si trattasse di un estremista.
Ecco gli articoli:
AVVENIRE - Giorgio Ferrari: "Netanyahu: 'Con me, nessuna Palestina' "
Benjamin Netanyahu
I palestinesi la chiamano Jabal Abu Ghneim, per gli israeliani è Homat Shmuel, ma da quasi vent'anni questo luogo-simbolo è conosciuto come Har Homa. Ed è qui, a una manciata di ore dall'apertura delle urne, qui, nell'abbaglio sfavillante di quel plurimillenario calcare roseo che tutti comunemente chiamano "Pietra di Gerusalemme", che alla fine Benjamin Netanyahu l'ha detto. Nel tentativo forse disperato di riacciuffare quella mandria di voti in libertà che gli è sfuggita fra le dita, ma l'ha detto, sapendo di ritrattare l'apertura che aveva fatto nel 2009 e che rimediare ora sarà impossibile: «Non ci sarà nessuno Stato palestinese - ha annunciato - finché sarò io a governare. Se vinco le elezioni non vi sarà alcuna concessione ai palestinesi e non smantellerò gli insediamenti in Cisgiordania. Fino a quando il Likud sarà al governo non divideremo Gerusalemme, ma continueremo a costruire e a fortificarla. Migliaia di unità abitative si aggiungeranno a quelle già esistenti e continueremo a sviluppare la nostra capitale eterna nonostante le pressioni della comunità internazionale per evitare future concessioni ai palestinesi».
Così, in un ruvido battito d'ali, l'agenda elettorale del premier uscente ha cambiato bruscamente tono: dall'ossessione sulla sicurezza e la minaccia dell'Iran il premier uscente ha virato sul grande rimosso di queste elezioni (sul quale come per una segreta intesa tutti i principali leader avevano preferito sorvolare), l'insolubile questione palestinese. Per l'ultimo comizio Netanyahu ha scelto Har Homa, uno fra gli insediamenti più contestati alle periferia di Gerusalemme Est, considerato illegale dalla quasi totalità della comunità internazionale, di cui egli stesso approvò la costruzione come atto inaugurale del primo dei suoi tre mandati, nel febbraio 1997. «Il Likud che io guido - ha aggiunto Netanyahu - continuerà a tutelare con fermezza i nostri interessi vitali, a fronte di un governo di centro-sinistra, pronto invece ad accettare qualsiasi imposizione».
Il gelo è sceso su Ramallah, un tempo teatro di intifade e di discordie interpalestinesi, oggi luccicante di negozi, di centri commerciali, un fiume di denaro che scorre nelle vene dei Territori con una voglia neanche troppo celata di guadagnarsi il rango e il diritto di capitale dello Stato palestinese. Quello Stato che Netanyahu assicura che non ci sarà mai. «Eppure - ammette Rashid Mazouf davanti a un tè dolcissimo e rovente nella Piazza dei Leoni -, noi invidiamo gli israeliani: dal 2006 a oggi hanno già votato quattro volte. Noi non votiamo da un pezzo e forse non voteremo più. Fatah e Hamas non sono diverse fra loro: l'età media fra i dirigenti dell'Olp è 75 anni, a Gaza si vedono le stesse facce da 20 anni, lo stesso Abu Mazen è vecchio ma non lascia il potere. Sono inamovibili, ciascuna fazione dà la colpa all'altra e così non si fanno elezioni democratiche».
«Chiunque acconsentirà alla creazione di uno Stato palestinese non farà altro che offrire dentro lo stato di Israele una base di lancio per gli attacchi dell'Islam radicale», dice Netanyahu, rilanciato da una gracchiante radio palestinese. Rashid scuote il capo.
In questo spicchio di Cisgiordania c'è un'autentica venerazione per Dalal Mughrabi, la tenorista che nel 1978 partecipò al massacro che costò la vita a 38 israeliani sulla strada costiera di Tel Aviv. Fatah le ha dedicato una piazza a Al-Birch, popoloso sobborgo di Ramallah. Ci può essere maggior distanza? I coloni e gli insediamenti, Gaza e Ramallah, Netanyahu e Abu Mazen: due mondi antitetici che non riescono a trovarsi, a intendersi, a parlarsi.
A cercare un dialogo e una soluzione ci prova il laburista Isaac Herzog che con la transfuga Tzipi Livni (che guida i centristi di Hatnua) si presenta con "Campo Sionista", ticket di centro-sinistra che nei sondaggi è dato favorito. Al suo fianco potrebbe scendere la coalizione degli arabo-israeliani, un'alleanza tra United Arab List, Ta'al, Balad e Hadash che, sotto la guida di Ayman Odeh, si sono coalizzati per superare la soglia di sbarramento del 3,25%. Né Herzog né la lista araba hanno i numeri per governare: al massimo arriveranno a 40 deputati, dei 61 necessari. E probabilmente neppure con il partito di sinistra Meretz e quello di centro Yesh Atid dell'ex ministro dell'Economia Yair Lapid Herzog raggiungerà la maggioranza.
«Vedrai che il vecchio Bibi si fa il quarto mandato», ridacchiano amari i palestinesi. Non hanno tutti i torti. Israele vuole uscire dall'angolo in cui Netanyahu li ha cacciati, ma forse la paura - come il "Kedem", il vento dell'est che in queste ore spira gelido e impetuoso - avrà il sopravvento sulla speranza.
L'OSSERVATORE ROMANO - Luca Possati: "Un voto oltre il conflitto"
L'articolo di Possati termina che questa citazione: «l'unica buona notizia o motivo d'interesse sembra arrivare dalla nuova coalizione Lista araba unita, che per la prima volta mette insieme i partiti arabi israeliani». Se questa è' l'unica buona notizia' prendiamo atto della posizione dell'Osservatore Romano, che riconferma le critiche che spesso IC rivolge alla politica vaticana, sempre sbilanciata contro Israele. Sul fatto che nei "territori" non ci siano elezioni, non preoccupa il giornale del Vaticano ?
Luca Possati
Sono quasi sei milioni gli israeliani che domani, martedì, si recheranno alle urne per eleggere un nuovo Governo. Ma in palio non ci sono soltanto i 120 seggi della Knesset. Si tratta infatti di un voto di fondamentale importanza per il futuro dello Stato: il prossimo Governo sarà chiamato a scelte decisive su più fronti. E in un contesto ancora molto difficile: i negoziati diretti con i palestinesi sono fermi da più di un anno, le relazioni con Washington hanno toccato di recente il loro minimo storico e la minaccia del terrorismo è alle porte. Senza dimenticare le questioni interne, come le difficoltà finanziarie e la crescente disparità sociale.
A fronteggiarsi sono essenzialmente due forze: da un lato il Likud, la destra del premier Benjamin Netanyahu, da nove anni al potere, dall'altro l'Unione sionista, l'alleanza di centrosinistra formata da Isaac Herzog, leader dei laburisti e figlio del sesto presidente di Israele, e da Tzipi Livni, guida dei centristi di Hatnua. Gli ultimi sondaggi danno un distacco di circa quattro seggi a favore dell'Unione sionista. Al terzo posto, con tredici seggi, ci sarebbe la Lista araba unita guidata da Ayman Odeh. Subito dopo, a dodici seggi, i centristi di Yesh Atid dell'ex ministro delle Finanze Yair Lapid, seguiti da Focolare ebraico, la destra nazionalista religiosa vicina al movimento dei coloni. A nove seggi c'è infine la nuova formazione di centrodestra Kulanu.
Al momento, dunque, la strada della grande coalizione sembra obbligata, e cresce quindi l'importanza delle liste più piccole, quelle religiose come lo Shas, il partito degli ultraortodossi di origine sefardita, e Uniti nella Torah, che rappresenta invece gli ultraortodossi ashkenaziti. Fare un bilancio complessivo degli anni del Governo Netanyahu è molto difficile. Il dato, oggi, è che il premier — l'uomo politico israeliano rimasto più anni al potere dopo David Ben-Gurion — ha perso molti dei consensi di cui godeva nel 2009 e che la prospettiva di un terzo mandato appare difficile. I temi chiave del suo messaggio politico non sono cambiati: la sicurezza, la difesa dell'identità nazionale e la ferma opposizione al programma nucleare iraniano, ad Hamas nella Striscia di Gaza e ad Hezbollah in Libano. E infatti nel recente, discusso discorso al Congresso statunitense Netanyahu ha criticato l'atteggiamento della comunità internazionale favorevole all'ipotesi di un accordo con Teheran. «E' meglio non avere alcun accordo che trovare un cattivo accordo. E questo è un pessimo accordo, meglio farne a meno».
Sulla pace con i palestinesi, Netanyahu ha sempre detto di voler raggiungere un accordo definitivo, nonostante il fatto che in questi anni gli insediamenti non si siano mai fermati. Ma gli insediamenti — ha più volte detto il leader del Likud — non sono il vero problema del conflitto, il vero problema «è il rifiuto di riconoscere lo Stato di Israele, dentro qualunque confine». In altre parole, prima i palestinesi devono riconoscere Israele come Stato ebraico, poi le trattative potranno riprendere. La posizione dell'Unione sionista è molto diversa. Al centro della campagna elettorale c'è stato il richiamo a temi sociali e alle «radici del sionismo», nella convinzione che «il vero sionismo» sia «distribuire il denaro pubblico in modo equo tra i cittadini, prendersi cura dei più deboli, solidarietà non solo in battaglia ma anche nella vita di tutti i giorni».
Dopo anni di difficoltà, con Herzog i laburisti cercano il rilancio puntando sulla ripresa immediata dei negoziati con i palestinesi nel quadro della soluzione dei due Stati e di un rafforzamento delle relazioni con l'Europa. Ma l'Unione può contare soprattutto sulla lunga esperienza di Livni, già vice premier e più volte ministro, nonché capo negoziatore con i palestinesi. Nata politicamente nel Likud, eletta per la prima volta alla Knesset nel 1999, vicina all'ex premier Ariel Sharon, Livni ha assunto la guida del partito centrista Kadima dopo le dimissioni di Olmert nel 2008. Quattro anni più tardi ha perso le primarie e ha deciso di fondare Hatnua. «Ho girato in lungo e in largo Israele — ha detto in una recente intervista — e ho visto un Paese orgoglioso ma sofferente, soprattutto negli strati più deboli della popolazione, che chiede unità e non divisioni». L'opposizione al nucleare iraniano — sostiene Livni — deve realizzarsi attraverso una maggiore collaborazione con la comunità internazionale. La via diplomatica con Teheran non sembra essere esclusa a priori.
I palestinesi, dal canto loro, stanno vivendo queste elezioni con scetticismo. Secondo Husam Zomlot, analista e direttore della Commissione per le relazioni internazionali palestinesi presso l'università di Oxford, «l'unica buona notizia o motivo d'interesse sembra arrivare dalla nuova coalizione Lista araba unita, che per la prima volta mette insieme i partiti arabi israeliani».
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