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Corriere della Sera - La Repubblica, Il Messaggero Rassegna Stampa
16.03.2015 Israele al voto: chi informa, chi disinforma, chi mente
Analisi di Davide Frattini, Bernardo Valli, Eric Salerno

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica, Il Messaggero
Autore: Davide Frattini - Bernardo Valli - Eric Salerno
Titolo: «'Il sionismo è solidarietà': il gran ritorno dei laburisti - La terra contesa tra due popoli: una sfida infinita all'ombra del voto - Gli israeliani alle urne, Netanyahu in affanno, maggioranza a rischio»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/03/2015, a pag. 17, con il titolo " 'Il sionismo è solidarietà': il gran ritorno dei laburisti", l'analisi di Davide Frattini; da REPUBBLICA, a pag. 1-9, con il titolo "La terra contesa tra due popoli: una sfida infinita all'ombra del voto", il commento di Bernardo Valli; dal MESSAGGERO, a pag. 11, con il titolo "Gli israeliani alle urne, Netanyahu in affanno, maggioranza a rischio", il commento di Eric Salerno.

Ecco gli articoli, preceduti quando ritenuto opportuno dai nostri commenti:

CORRIERE della SERA - Davide Frattini: " 'Il sionismo è solidarietà': il gran ritorno dei laburisti"


Davide Frattini               Stav Shaffir

Stav la rossa ha imparato a volare. Da bambina sognava di diventare un’astronauta o una pilota di jet (ci ha provato, non ha superato il test dell’aviazione militare). Saltando dal tavolo della cucina si è rotta il braccio due volte. «Non capivo — dice alla rivista Forward — perché gli esseri umani non potessero volteggiare liberi come uccelli». Adesso sta ascendendo, almeno in quello che chiamano il firmamento della politica. A 29 anni è la deputata più giovane nel parlamento uscente, è arrivata seconda alle primarie del partito laburista (prima di lei solo il capo Isaac Herzog), è una celebrità fuori dalla Knesset anche grazie a un video dei primi giorni di febbraio quando ha ribattuto alle accuse della destra: «Non venite a insegnarci che cosa significhi essere sionista, perché il vero sionismo vuol dire distribuire il denaro pubblico in modo equo tra i cittadini, il vero sionismo è prendersi cura dei più deboli, il vero sionismo è solidarietà, non solo in battaglia anche nella vita di tutti i giorni. E tutto questo il governo non lo fa».

Alla seduta erano presenti pochi parlamentari, il filmato è stato diffuso su YouTube riportando la «gingit» (com’è soprannominata in ebraico per il colore fulvo dei capelli) alla popolarità di quattro anni fa. Allora girava da leader tra le tende dell’accampamento sotto le jacarande di viale Rothschild a Tel Aviv, spiegava perché quella protesta contro il costo della vita fosse importante, raccomandava di non mollare, di non tornare a chiudersi negli appartamenti troppo piccoli e troppo cari. È stata lei — ancor più di Herzog — a garantire che la campagna elettorale dell’Unione Sionista (i vecchi laburisti alleati con Tzipi Livni) non dimenticasse quello che gli israeliani si ricordano ogni mattina: le difficoltà finanziarie, la disparità sociale che cresce (anche se l’economia del Paese corre). Il 56 per cento dichiara di andare a votare con le questioni economiche in testa (e in tasca). Non la sfida per impedire che l’Iran degli ayatollah abbia l’atomica (su cui ha puntato il premier Benjamin Netanyahu), non le possibilità di un accordo con i palestinesi (anche i laburisti hanno evitato di affrontare quello che è sempre stato il loro tema dominante).

«Gli israeliani vogliono la normalità — scrive Anshel Pfeffer sul quotidiano Haaretz — ed Herzog è riuscito in quella che sembrava una missione impossibile: trasformare HaAvoda in un partito normale, con l’aria da avvocato di buone maniere che è lì per risolvere i tuoi problemi». Suo padre è stato il sesto presidente di Israele, suo nonno il primo rabbino capo, suo zio un venerato ministro degli Esteri (Abba Eban, quello che sentenziò «i palestinesi non perdono mai un’opportunità di perdere un’opportunità»). È come se tutta questa gravitas familiare non avesse lasciato rughe solenni sulle fronte di Herzog: gli israeliani gli rinfacciano di avere — a 54 anni — un volto ancora infantile. Prima della campagna elettorale ha preso lezioni per gonfiare di steroidi baritonali la voce chioccia. A differenza degli ultimi leader laburisti, non è un generale decorato come Ehud Barak o Amram Mitzna e neppure un boss carismatico come Amir Peretz o Shelly Yachimovich (al femminile).

Con i consiglieri ha lavorato per indurire l’immagine arrendevole: gli analisti considerano un errore aver annunciato in anticipo la rotazione — in caso di vittoria — con Tzipi Livni, troppo generoso (o debole) per essere il primo ministro di una nazione che si considera in guerra permanente. Modi Bar-On, intervistatore del Canale 2 , gli ha chiesto se gli israeliani non avrebbero bisogno di uomo con «modi più soldateschi e ricordi dalle trincee». Il capo della sinistra ha risposto: «Credo siano pronti per un premier responsabile e prudente, pronto a prendere decisioni al di là della retorica e delle mosse spettacolo». I sondaggi sembrano essere d’accordo con lui: è il primo leader laburista in quindici anni (da quando Barak sconfisse proprio Netanyahu) a rimanere sopra i 20 seggi (gli ultimi rilevamenti ne calcolano 24-25, quattro in più del premier in carica).

Ben Caspit sul quotidiano Maariv fa notare quanto l’atmosfera sia cambiata: «Herzog — ironizza l’editorialista — ha potuto presentarsi per una manifestazione ad Ashdod senza blindati e senza scorta». La città portuale è sempre stata la fortezza elettorale del Likud ma gli attivisti della destra sembrano già in ritirata, convinti che in parte i voti conservatori andranno a Moshe Kahlon, una transfuga dal partito, l’ex ministro delle Telecomunicazioni (con Netanyahu) che tutti gli israeliani ancora ringraziano per aver liberalizzato il mercato della telefonia mobile: prezzi più bassi e concorrenza a vantaggio dei consumatori. Al comizio finale di Netanyahu, ieri sera in piazza Rabin, luogo simbolo della sinistra, la maggior parte dei quasi 15 mila partecipanti era rappresentata dai coloni nazionalisti. La destra moderata e quegli elettori di centro che ormai decidono le elezioni sono rimasti a casa. Il rischio per il premier è che lo facciano anche domani.

LA REPUBBLICA - Bernardo Valli: "La terra contesa tra due popoli: una sfida infinita all'ombra del voto"

Bernardo Valli, come sempre, è autore di un pezzo contro Israele. Parla, per esempio, dell'idea di una "Grande Israele" (una Israele cioè che includesse tutta la regione tra il Mediterraneo e il Giordano, che ha tra l'altro una estensione minore di quella di Piemonte e Liguria) come se si trattasse di una ipotesi politica concreta e diffusa. Mentre non è così: neanche un partito di destra come HaBayt HaYehudi propone una simile opzione, che appartiene soltanto a frange radicali molto minoritarie.
Valli riprende un interessante articolo di Amos Oz, spingendosi però ben oltre e giungendo a definire "mite e conciliante" il dittatore dell'Anp Abu Mazen, sostenitore esplicito di soluzioni violente contro Israele, ovvero del terrorismo.
Aggiungiamo che la divisione del territorio in due Stati è una ottima idea, ma la premessa deve essere che lo Stato arabo palestinese accetti di vivere in pace a fianco di quello ebraico, pacifico e disarmato. Lo conferma la storia recente: Gaza è di fatto da quasi dieci anni indipendente, ma nel frattempo la guerra dei terroristi che la dominano contro Israele è stata ininterrotta.

Ecco il pezzo:


Bernardo Valli

E' come la morte. Tutti ammettono che esiste e che è inevitabile. Ma si spera che arrivi il più tardi possibile. Non ci si pensa quindi troppo o la si ignora. È un modo un po’ brutale, me ne rendo conto, per affrontare il problema di cui, malgrado l’importanza, non si è parlato direttamente durante la campagna elettorale israeliana appena conclusa. Mi porta a questa azzardata immagine Amos Oz, uno dei maggiori scrittori viventi. Assente dal dibattito in vista del voto di domani, ma ben presente nelle menti e negli scritti, la questione è in realtà un dilemma: è meglio arrivare a uno Stato binazionale o a due Stati divisi, uno israeliano e l’altro palestinese? Oppure lasciare le cose così come sono, moltiplicando gli insediamenti israeliani nei territori occupati (o contesi)?

I partiti di estrema destra, quello di Nafali Bennet (Habayt Hayeudi) o di Avigdor Liberman (Yisrael Beiteinu), archiviano tutti gli interrogativi. Per loro la sovranità o il controllo di Israele sull’intera Palestina, con formule diverse, non sono in discussione. Sono un dogma. E nel corso della campagna elettorale gli altri partiti, in particolare quelli concorrenti di destra, per recuperare o non perdere voti si sono discostati con cautela da quelle posizioni estreme o addirittura le hanno appoggiate.

Il tema della sicurezza è uno dei più sentiti e attraversa in diagonale la società. Dice Amos Oz che in generale ci si adagia da anni in una specie di violenta e incosciente routine, «una gestione del conflitto», pur di rinviare la grande decisione dei due Stati. L’appuntamento inevitabile in un futuro imprecisato, da rinviare il più possibile, sorge puntuale nella mente degli israeliani. Per gli uni è una rinuncia al Grande Israele. Per altri un incubo. Per altri ancora l’unica soluzione. Una soluzione obbligata; o razionale; o dovuta, trattandosi di un vitale adeguamento alla realtà, che certo travolge convinzioni, ma salva dal peggio. La letteratura contemporanea israeliana ha l’affascinante peculiarità di esprimersi in un’antichissima lingua restaurata e ammodernata: l’ebraico. E gli scrittori che l’alimentano (come i registi e gli attori nel cinema, altrettanto vivo e critico della società) sono spesso le indispensabili coscienze di un paese in preda ad ansie e passioni. Nel pieno della campagna elettorale, quando nessuno affrontava il futuro assetto della terra contesa da due popoli, Amos Oz ha detto, in due conferenze, che quel trascurato problema è una questione di vita o di morte per Israele. Se non si creano al più presto due Stati può nascere il timore di vedere deli- nearsi tra il mare e il fiume Giordano uno Stato arabo.

L’autore di Giuda, l’ultimo suo romanzo, scarta l’idea di uno Stato binazionale, come quello spagnolo o belga. Per lui non è possibile in Medio Oriente. E pensa che la paura di uno Stato arabo possa portare a una temporanea dittatura di fanatici israeliani che opprimerebbe entrambi, gli arabi e gli stessi oppositori ebrei con una mano di ferro. La dittatura avrebbe una vita breve. È difficile infatti nella nostra epoca, secondo Amos Oz, che la dittatura di una minoranza, in tal caso israeliana, riesca a sopravvivere a lungo e non venga schiacciata dalla maggioranza. Da qui l’urgente necessità di creare due Stati ben divisi, perché una convivenza oggi è impossibile. Lo sanno bene entrambi i popoli. Ma adagiarsi in «una gestione del conflitto» come accade da anni, vale a dire continuando a usare il bastone in Cisgiordania, i missili a Gaza, affrontando puntuali intifade, scontrandosi con Hamas e con gli hezbollah, e aspettando o subendo altrettanto puntuali ventate di terrorismo, ritarda soltanto l’inevitabile appuntamento della divisione.

Quella di Amos Oz può essere presa come una visione romanzesca, se non si tiene conto della situazione mediorientale, e delle giustificate apprensioni che essa suscita in chi vi è immerso. Ce l’ha sotto gli occhi. Durante la campagna elettorale non si è parlato, è vero, di quel che Amos Oz chiama una questione di vita o di morte per Israele, e che la stragrande maggioranza dei paesi del pianeta, Stati Uniti in testa, chiede, cioè la nascita di uno Stato palestinese. Benyamin Netanyahu ha dimenticato da un pezzo il discorso pronunciato a Bar Ilan nel 2009 in cui accettò il concetto di due Stati e precisò di non avere l’intenzione «di costruire nuove colonie o di espropriare terre per quelle esistenti».

I coloni nei territori occupati sono 350 mila, non sono mai stati tanti, e ce ne sono inoltre 300mila a Gerusalemme Est, che Israele ha conquistato nel 1967 e che ha annesso in seguito, con una decisione giudicata illegale da larga parte del mondo. Infatti quasi tutte le ambasciate, comprese l’americana e l’italiana, sono a Tel Aviv, nonostante la Knesset abbia dichiarato Gerusalemme capitale di Israele. Penso che a Gerusalemme gli israeliani abbiano diritto alla precedenza, sul piano religioso. Per gli ebrei è il centro dell’universo, è la prefigurazione della Gerusalemme celeste. Mentre per i cristiani quel che conta non è tanto il luogo quanto la figura di Cristo. E per i musulmani prima di Gerusalemme vengono la Mecca e Medina. Sul piano politico capita tuttavia, come sabato sera, durante un breve dibattito televisivo con il laburista Isaac Herzog, che Benyamin Netanyahu si comporti con spavalderia. Ha detto spazientito: «Se gli ebrei non hanno il diritto di costruire a Gerusalemme, dove possono farlo?».

In realtà costruiscono da tempo a valle e sulle alture, dove vogliono, nonostante gli inviti a non farlo dell’Onu e degli Stati Uniti. Ma in quel contesto e con quel tono l’affermazione significava anche scartare l’idea dei due Stati, poiché Gerusalemme dovrebbe essere la capitale condivisa, sia pure in una sempre più vaga prospettiva. I palestinesi si stanno abituando alla vicina Ramallah, loro capitale provvisoria in espansione? Netanyahu si è rivolto agli elettori del Likud e a quelli degli altri partiti di destra, la cui base popolare è spesso di origine orientale (sefardita). Ma in generale anche agli israeliani per i quali è impensabile una rinuncia sia pure parziale alla città per millenni punto di riferimento per gli ebrei sparsi nel mondo, e da anni annessa definitivamente allo Stato ebraico. Ma nella battuta su Gerusalemme c’era una frecciata anche per il presidente americano.

Attraverso John Kerry, il segretario di Stato, Barack Obama aveva ribadito poche ore prima, la necessità di uno Stato palestinese, di cui parte di Gerusalemme potrebbe appunto essere la capitale. La polemica con la Casa Bianca sul nucleare iraniano, portata da Netanyahu al Congresso di Washington, potrebbe essere almeno in parte disinnescata se gli Stati Uniti non arrivassero, entro fine mese come stabilito, a un accordo con Teheran. E non è scontato. L’estensione delle colonie in Cisgiordania, e il continuo aumento della loro popolazione, creano invece una netta e permanente divergenza con Obama sul problema palestinese. Problema destinato a ritornare in primo piano perché in aprile Abu Mazen, presidente dell’Autorità di Ramallah, il più mite e conciliante capo palestinese, dovrebbe presentare una denuncia contro Israele al Tribunale criminale internazionale per l’occupazione della Cisgiordania. Gli Stati Uniti l’hanno ritardata a lungo, minacciando anche di sospendere gli aiuti alla Palestina.

Non pochi intellettuali, tra i quali lo storico Zeev Sternhell, sostengono che la vittoria dell’Unione sionista, la coalizione di centrosinistra, non cambierebbe nulla. O molto poco. Isaac Herzog e la sua alleata Tzipi Livni non si sarebbero impegnati molto nel precisare il loro progetto sul problema palestinese. Si sono limitati a esprimere la vaga intenzione di rianimare il processo di pace. Per Herzog e Livni, in caso di vittoria primi ministri a turno, sarebbe comunque più agevole normalizzare i rapporti con il vasto mondo che, come Amos Oz, considera i due Stati affiancati una questione essenziale.

IL MESSAGGERO - Eric Salerno: "Gli israeliani alle urne, Netanyahu in affanno, maggioranza a rischio"

Rientrato in Italia da Israele, Salerno continua la sua opera di odiatore di Israele.  Dipinge il leader del Likud Benjamin Netanyahu a tinte fosche, come se si trattasse di un esponente dell'estrema destra. E' tipico dei detrattori di Israele additare lo Stato ebraico e i suoi rappresentanti come estremisti di destra e violenti: è in somma sintesi lo schema che vorrebbe che gli ebrei israeliani avessero ben imparato dai nazisti e per cui i palestinesi starebbero subendo una persecuzione razziale da parte degli ebrei. Si tratta, evidentemente, di un cumulo di menzogne che ben qualificano chi le diffonde.


Eric Salerno

Piazza Rabin, a Tel Aviv, è il luogo simbolo di uno scontro politico e sociale che dopo l'assassinio del premier laburista che aveva osato un tentativo di pace con i palestinesi, vede Israele sempre più frantumato. «Tutti meno che Bibi» (il nomignolo del premier) gridavano sere fa decine di migliaia di persone alla ricerca di un cambiamento.

Ieri sera, a due giorni dal voto anticipato del 17 marzo, sulla stessa piazza Netanyahu di fronte a 15mila tra coloni e militanti della destra estrema, ha lanciato un grido d'allarme: «La sinistra potrebbe vincere». Sarebbe la fine, per lui, di Gerusalemme unita e degli insediamenti. Paradossalmente non saranno le questioni sociali ed economiche o il futuro dei rapporti con i palestinesi a determinare l'esito del voto che si è trasformato in un vero referendum sulla personalità del premier. È stato il momento, un paio di giorni fa, in cui Bibi ha confuso il nome di un suo rivale politico con quello di un possibile alleato che per la prima volta Israele ha sentito in affanno il suo premier di lungo corso.

L'uomo, che da sempre ha dato più importanza al modo di comunicare il proprio messaggio che al messaggio stesso, è in difficoltà. Risulta in testa agli ultimi sondaggi il laburista Herzog, leader dell'Unione sionista, una nuova coalizione di centro-sinistra che come altre formazioni minori è a caccia di chi vorrebbe un volto nuovo uscire da un panorama abbastanza piatto rispetto alla vecchia generazione dei padri della patria.

Netanyahu è in politica dal 1988. Ha alle spalle nove anni come premier. Ha perso carisma. È stanco. E, come scrive il quotidiano Yediot Aharonot, ha di fronte un uomo energico, «una persona che unisce invece di dividere, pieno di valori che formano un leader».

VENTICINQUE LISTE
Per cercare di comprendere la complessità del sistema politico israeliano bisogna pensare alla prima Repubblica italiana. Gli israeliani sono quasi sei milioni. Alle urne si presentano 25 partiti dei quali, a giudicare dagli ultimi sondaggi non più di 11 potranno superare la soglia elettorale. Se si considera che il Likud e l'Unione sionista (in testa) stanno gareggiando intorno ai 24 seggi ciascuno, si può capire come il prossimo governo (come per il passato) sarà frutto di una coalizione più o meno vasta. E, dunque, di un souk dove scambi di favori spesso saranno più importanti delle convergenze ideologiche, religiose o sociali.

IL DIVARIO TRA RICCHI E POVERI
Herzog potrà essere un anti-Netanyahu vincente?, si chiedeva ieri Haaretz per il quale la presenza nella coalizione di Tzipi Livni, in passato legata politicamente all'attuale premier, è importante in un momento in cui parte dell'elettorato vuole un'alternativa alla destra non troppo spinta a sinistra. Anche se il leader del centro-sinistra ottenesse il mandato di formare il governo non gli sarà facile mettere insieme almeno 61 seggi dei 120 della Knesset. Il parlamento risente della realtà socio-politica del paese. I partiti religiosi si daranno al migliore offerente ma c'è chi nella galassia del centro-sinistra non accetterebbe di sedere con loro. Poi c'è la coalizione di partiti arabi che rifiuta di far parte di un governo. E, d'altra parte, nessun leader affronterebbe un processo di pace senza una maggioranza ebraica. La questione palestinese, comunque, non è sull'agenda. Il caos che regna nei paesi arabi che circondano Israele l'ha relegato in fondo alle priorità di un popolo preoccupato per il crescente divario tra ricchi e poveri e da sempre focalizzato sulla propria sicurezza. Il tasto magico sul quale continua a scommettere Netanyahu.

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