Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/03/2015, a pag. 1-25, con il titolo "La simbiosi fra Israele e Stati Uniti", l'analisi di Abraham B. Yehoshua; dal FOGLIO, a pag. IV, con il titolo "Il voltafaccia", l'analisi di Antonio Donno.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Abraham B. Yehoshua: "La simbiosi fra Israele e Stati Uniti"
Abraham B. Yehoshua
Il discorso tenuto da Benjamin Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti, nonostante il malumore e l’opposizione del presidente Obama e del governo americano, è un’ulteriore, incredibile prova del rapporto simbiotico e, mi azzarderei a dire, unico nel suo genere, fra la più grande superpotenza al mondo e Israele, un piccolo Stato di circa otto milioni di abitanti impantanato nei conflitti del Medio Oriente.
Malgrado i senatori e i membri del Congresso sapessero che la richiesta di Netanyahu di comparire davanti a loro non derivasse unicamente dalla sua intenzione di esprimere pubbliche riserve su un eventuale accordo tra gli Stati Uniti e l’Iran (Netanyahu avrebbe potuto farlo con articoli e interviste sui media americani) ma di sfruttare quel palcoscenico per conseguire prestigio e pubblicità in vista delle vicine elezioni in Israele, lo hanno accolto con grandi onori ed entusiasmo.
Israele è diventato un’importante pedina nelle lotte di potere della politica interna americana ed è difficile spiegare le ragioni di questo suo particolare status esclusivamente in termini di interessi strategici. Gli Usa, nel bene e nel male, hanno sviluppato un profondo interesse emotivo per Israele, come già affermò negli Anni Settanta l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger. Rispondendo infatti a una domanda sull’importanza strategica dello Stato ebraico sostenne che la questione era emotiva e non solo strategica, e quindi molto più significativa.
Ma quando è cominciata questa simbiosi che porta indubbiamente benefici - ma anche svantaggi - a Israele e di certo nuoce ai rapporti fra gli Stati Uniti e i Paesi arabi?
Subito dopo la nascita del piccolo Stato ebraico, sorto sulle ceneri della Shoah, quando negli anni Cinquanta e Sessanta Israele lottava per la sopravvivenza e avrebbe avuto bisogno di sostegno, le amministrazioni americane si mostravano distanti e indifferenti. Per anni si rifiutarono di fornire armi a Israele e i governi di Gerusalemme dovettero dipendere unicamente dalla Francia per le loro necessità di difesa. Nei primi anni Sessanta il presidente John F. Kennedy non acconsentì a ricevere il fondatore e il venerato primo ministro di Israele, David Ben Gurion, alla Casa Bianca e il loro incontro - segreto e infelice sotto parecchi punti di vista - avvenne in una stanza d’albergo di New York. Durante la campagna di Suez del 1956 gli Usa imposero all’esercito israeliano il ritiro incondizionato dal deserto del Sinai e dalla Striscia di Gaza, senza fornire peraltro garanzie contro una possibile ripresa dell’aggressività egiziana.
Negli anni in cui il minuscolo Stato ebraico era impegnato a difendersi dalle minacce di annientamento dei Paesi arabi, a dare rifugio a centinaia di migliaia di sopravvissuti alla Shoah e di profughi ebrei provenienti dai Paesi arabi, a garantire la sopravvivenza di un regime democratico in un mondo in cui la democrazia era ancora una cosa rara e a concedere pieni diritti civili alla minoranza araba entro i suoi confini (malgrado i palestinesi non riconoscessero la sua legittimità), in quegli anni, i suoi primi venti di vita, gli Stati Uniti d’America si mostravano freddi e poco attenti ai suoi bisogni esistenziali, politici e militari.
Quando è cominciata dunque la profonda trasformazione dei rapporti tra la superpotenza e questo piccolo Paese che ha portato molti a sostenere, e non a torto, che l’America è molto più sottomessa ai dettami degli israeliani e degli ebrei che non il contrario? Credo che il punto di svolta sia stato dopo la guerra dei Sei giorni, scoppiata nel 1967. Gli Usa si trovavano in una situazione difficile: la guerra del Vietnam si faceva sempre più intricata, senza via d’uscita, in molte città erano in atto rivolte studentesche, la tensione razziale era altissima e in parecchie nazioni del terzo mondo e del Medio Oriente si andava rafforzando l’influenza del blocco comunista. Ma nel giugno del 1967 il piccolo Stato ebraico, minacciato da una disfatta militare che gli americani e altri Paesi occidentali non cercavano concretamente di evitare, prese in mano il proprio destino e, dando prova di grande coesione nazionale e di eccezionale ingegno militare, in soli sei giorni rimosse il blocco navale egiziano, sbaragliò gli eserciti nemici e conquistò ampi territori.
Non c’è dubbio che questa vittoria, sul modello di un western hollywoodiano stile «Mezzogiorno di fuoco» in cui uno sceriffo solitario affronta tre ceffi pericolosi e li ammazza uno dopo l’altro, rappresentò un momento cruciale per gli americani. In un momento di crisi e di sfiducia suscitò la loro ammirazione e li avvicinò a Israele su un piano emotivo. L’identità degli americani è basata su schemi mitologici secondo i quali un individuo che dà prova di coraggio e di valore, a dispetto dello scetticismo altrui, è degno di grande rispetto.
Improvvisamente, quindi, tutti si ricordarono che lo Stato ebraico è, di fatto, «l’unica democrazia del Medio Oriente», e dunque una specie di piccola America. Gli Usa, che avevano firmato trattati con le dittature dell’America Latina e con regimi bui come quello dell’Arabia Saudita, si infatuarono di Israele e lo inglobarono nel mito della loro identità al punto che il segretario di Stato americano George Shultz durante la prima guerra del Libano, nel 1982, quando i caccia israeliani abbatterono un centinaio di aerei siriani, disse: «Ecco, sono stati i nostri piloti a compiere questa fantastica impresa», mentre un ministro israeliano del Likud sostenne che Israele è di fatto una portaerei degli Stati Uniti pronta a difendere l’America in Medio Oriente.
Ma Israele non è veramente una risorsa strategica degli Stati Uniti. Mai, infatti, soldati israeliani combatteranno le guerre di questa superpotenza nella regione. Israele, per gli Usa, è piuttosto un obbligo morale. I suoi leader dovranno garantirne la sicurezza ma anche salvarlo dalla permanente occupazione dei territori palestinesi per poter arrivare alla pace e alla soluzione di due Stati per i due popoli. Per raggiungere questo obiettivo non servono quindi applausi scroscianti e ossequiosi a Washington ma una modifica dell’innaturale e pericolosa simbiosi che comincia ad alterare sia la politica americana sia quella israeliana.
IL FOGLIO - Antonio Donno: "Il voltafaccia"
Barack Obama
Il Partito democratico americano, con il presidente Harry Truman in testa, ha dato un contributo fondamentale alla nascita dello stato di Israele, il 14 maggio 1948. Benché il dipartimento di stato fosse accanitamente contrario al sostegno che Truman e i suoi collaboratori della Casa Bianca stavano assicurando al movimento sionista, per ragioni che riguardavano il possibile schieramento del mondo arabo a fianco dell’Unione sovietica, il Partito democratico, sia alla Camera dei Rappresentanti sia al Senato, sposò senza indugi la politica pro sionista di Truman.
Harry Truman
Così Israele, nei suoi primi decisivi anni di vita, almeno fino al 1953, poté contare sull’appoggio incondizionato del Partito democratico. Anzi, fu proprio l’ala progressista del partito, quella liberal, a schierarsi in prima fila nel sostenere la causa della nascita di Israele contro l’opposizione e le manovre dilatorie del dipartimento di stato e del Foreign Office britannico, intese a far fallire il piano di spartizione. Uno degli esponenti più in vista tra i liberal del tempo, Freda Kirchwey, scrisse parole di fuoco contro coloro che facevano di tutto perché il nuovo stato di Israele non vedesse la luce: “Uno dei capitoli più disgraziati della storia degli Stati Uniti è stato scritto da quegli esponenti del dipartimento di stato e della Difesa che hanno adottato una politica di rinvio che può solo avere disastrose conseguenze per la pace e la sicurezza, per non parlare della giustizia e della moralità”.
Ancora Kirchwey: “Se gli Stati Uniti dovessero piegarsi di fronte a tali pressioni, sarebbero distrutte le basi morali sulle quali è stata costruita la nostra nazione (…). Una dimostrazione di fermezza da parte nostra metterebbe fine al gangsterismo arabo”. Anche durante il decennio repubblicano, con Dwight D. Eisenhower alla Casa Bianca e John Foster Dulles come segretario di stato, il Partito democratico, con Adlai Ewing Stevenson (1900-’65) in testa come principale esponente della parte liberal del partito, accusò ripetutamente il Partito repubblicano di voltare le spalle al giovane e debole stato ebraico, al fine di recuperare l’amicizia del mondo arabo e allontanare i sovietici dal medio oriente, mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza di Israele. Che cosa spingeva il Partito democratico e i liberal al suo interno a sostenere a spada tratta le ragioni di Israele?
Per rispondere a questa domanda occorre riferirsi alla cultura politica in quel momento diffusa nel mondo occidentale, ossia tra la fine della guerra e i primi anni 50. E’ sufficiente indicare nella specificità dell’orrenda situazione del popolo ebraico la ragione unica dell’atteggiamento del mondo democratico occidentale a favore della soluzione della nascita di uno stato ebraico in Palestina, cioè nell’antica Terra d’Israele? Certamente questa ragione è incontestabile, perché poggiava pesantemente sul senso di colpa del mondo democratico, ma è una ragione che discende da una nuova visione dell’ordine mondiale, o da una nuova speranza di un ordine che facesse i conti definitivamente con la barbarie.
Il Partito democratico e gli stessi liberal vedevano nella Guerra fredda non solo il modo politico-diplomatico-militare di contrapporsi al totalitarismo comunista, prolungamento su altre sponde dello sconfitto totalitarismo nazionalsocialista, ma la ragione stessa dell’esistenza della democrazia nel mondo. Questo dato è di un’importanza cruciale. La distruzione dell’Europa durante due guerre mondiali, il trionfo macabro di forze irrazionali (o allora giudicate tali) dedite allo sterminio e alla negazione stessa dell’individualità umana come creatrice di progresso e di bene – forze che avevano dominato e devastato tutta la prima metà del Ventesimo secolo – erano giudicati inammissibili per la mentalità emergente nel mondo democratico.
Era il momento che gli Stati Uniti si mettessero alla testa di una nuova fase della guerra a favore del progresso pacifico e democratico dell’umanità: questa era la motivazione del Partito democratico e dei liberal americani: una potente spinta morale alla base di una scelta di lotta per la libertà. Israele rappresentava il cuore di un problema morale di dimensioni planetarie. Nel piccolo stato ebraico da fondare come rifugio di un’umanità reietta per secoli, il Partito democratico e i suoi liberal vedevano la ragione stessa, la ragione più cogente dell’esistenza della democrazia e della libertà nel mondo. E nel mondo arabo ostile agli ebrei l’esempio lampante di irrazionalità, reazionarismo, odio, arretratezza, fanatismo.
Gli arabi odiavano gli ebrei perché ebrei. Nulla di nuovo oggi da questo punto di vista. La battaglia per Israele era il “test case” della nuova fase della storia mondiale, dove la liberazione di un popolo, la cui cultura era all’origine stessa dell’occidente, era il simbolo di una rinascita spirituale del mondo democratico e di un suo impegno a livello globale: una sorta di purificazione. Il liberal Adlai Stevenson, governatore dell’Illinois e candidato democratico alla presidenza nei primi anni 50, così si espresse: “Proprio perché il sionismo rappresenta l’aspirazione a una patria ebraica, io mi sento di essere un sionista”.
Chaim Weizmann
Ascoltando Chaim Weizmann, leader del movimento sionista, nel 1940, Stevenson così commentò: “Per un momento non ho più seguito le sue parole e ho riflettuto sulle qualità di una grande leadership, di una grandezza perenne. Ho riflettuto sull’indomabile volontà di raggiungere un grande obiettivo, non per mezzo dell’odio, del fanatismo, dell’ignoranza, della schiavitù, della brutalità e del sangue, ma per le vie del compromesso e della pace”.
Le parole del liberal Stevenson rappresentano bene ciò che andava maturando nella sensibilità democratica della cultura occidentale. Insomma, l’uscita del mondo dall’incubo della guerra era, soprattutto per la cultura occidentale, un processo di rigenerazione, una rigenerazione che non cercava strade nuove, nuovi punti di riferimento, ma trovava nelle fondamenta stesse della propria tradizione gli strumenti per la rinascita.
La tradizione consisteva nei principi della filosofia liberale, quella filosofia da cui era scaturito l’esperimento americano; e con Israele si vedeva una sorta di compimento di quell’esperimento in un popolo che era stato una delle matrici culturali e spirituali di quella stessa vicenda americana. Michael Novak, filosofo e teologo cattolico americano, ha ben scritto che le ali dell’aquila americana rappresentano l’una il cristianesimo, l’altra l’ebraismo. E la nascita di Israele, voluta dai democratici di Truman e dalla stessa ala liberal del partito, sanciva il fatto che “Israel in the mind of America” fosse un dato ineliminabile nella cultura americana. O, almeno, così sembrava.
Dal canto suo, il Partito repubblicano, dopo il decennio di Eisenhower, fu all’opposizione negli anni di John Fitzgerald Kennedy (1961-’63) e Lyndon Johnson (1963-’69), e non ebbe alcun interesse per il dossier “Israele”. Ma furono proprio gli anni 60 a cominciare a intaccare quel legame tra il Partito democratico, i suoi liberal e Israele, nato alla fine degli anni 40 sulle basi degli impulsi politici ed etici della filosofia liberale americana. E ben prima della guerra del 1967, alla quale troppi si riferiscono come momento topico nell’inizio dell’indebolimento del legame tra i liberal del Partito democratico e Israele. Il fatto è che, a partire dai movimenti di liberazione nazionale dei paesi coloniali, nella società occidentale, e in quella americana in particolare, si stava introducendo il virus del terzomondismo come criterio unico e incontestabile nell’interpretazione della storia contemporanea.
Con la diffusione dell’ideologia terzomondista tra le fasce giovanili, con i suoi dogmi sullo sfruttamento dei paesi coloniali da parte del mondo capitalistico, la continua predazione delle ricchezze e la concezione che il mondo ricco fosse ricco grazie alle ruberie perpetrate a danno dei paesi del Terzo mondo, si andava imponendo nella cultura occidentale un modo di leggere i rapporti tra i paesi ricchi e i paesi poveri in un senso unico, totalizzante. Chi non vi si adeguava era tacciato di imperialismo, reazionarismo, come minimo di insensibilità. Era apparsa la political correctness, che avrebbe ammorbato la nostra storia sino a oggi. Il terzomondismo fu il primo veicolo di tale mutamento culturale e i suoi sacerdoti furono “i teologi della rivoluzione mancata, ottenebrati dall’assunzione di massicce dosi di oppio ideologico”, come ha scritto il sociologo Luciano Pellicani, riprendendo una famosa espressione di Raymond Aron.
I dannati della terra di Frantz Fanon, che fu una delle letture preferite del futuro presidente americano Barack Hussein Obama, procurò la bibbia del pensiero unico, mentre gli sfruttati del Terzo mondo divennero i nuovi proletari che avrebbero portato a compimento quella rivoluzione che i proletari imborghesiti e panciuti dei paesi capitalistici non erano riusciti a sviluppare o non avevano voluto realizzare, ammaliati dalle sirene del benessere capitalistico. La new left americana fu la portatrice di questo dogma di liberazione. Benché i suoi seguaci nei campus dichiarassero che il loro scopo fosse restaurare l’originaria “innocenza” americana – quell’innocenza persa con lo sfruttamento dei paesi poveri, l’imperialismo, il capitalismo – la new left, in effetti, stava introducendo nella società americana nuovi criteri di giudizio e una modificazione sostanziale del linguaggio.
Per dirla con lo studioso Barry Rubin, “il capitalismo stesso era il male. L’America non era una meritocrazia ma una colonia dominata da vecchi maschi bianchi, in cui le donne, i non-bianchi e i giovani erano generalmente cittadini di seconda classe”, condannati allo sfruttamento e all’emarginazione, esattamente come i popoli nonbianchi del Terzo mondo. Questa identificazione ha un significato tutto particolare. Assimilare gli “sfruttati” all’interno dei paesi capitalistici con gli “sfruttati” del Terzo mondo permetteva una divisione semplicistica ma affascinante tra sfruttatori e sfruttati in senso planetario e un percorso rivoluzionario libero dalle pastoie dogmatiche marxiste, semplice e chiaro. Quando gli esiti della guerra del 1967, con la folgorante vittoria di Israele, furono universalmente chiari, il piatto era già servito. Una nuova mentalità aveva fatto breccia soprattutto tra le fasce giovanili dei paesi ricchi. Il marxismo-leninismo cominciava a essere relegato in ristretti gruppi di professori americani, “un esiguo numero di vecchi e avviliti accademici marxisti con i peli sulle orecchie”, come ebbe a dire Tom Wolfe con la sua tradizionale delicatezza.
Così, nel mondo politico americano, furono il Partito democratico e i liberal ad assorbire la lezione della new left e a riciclarla all’interno del linguaggio politico corrente. Progressivamente, i mass-media americani di area liberal iniziarono a sdoganare il terzomondismo e il suo linguaggio semplice e facilmente comprensibile. Il mondo arabo mediorientale, un tempo considerato dai liberal come portatore di arretratezza, fanatismo e diseguaglianza, fu catapultato senza indugi nel settore degli sfruttati, con pochi riguardi verso la necessaria considerazione delle gravi discriminazioni presenti nella sua cultura, soprattutto tra uomini e donne. Di conseguenza, il meccanismo terzomondista appioppava a Israele l’accusa di paese sfruttatore, imperialista, colonialista. Il terzomondismo, con la sua aberrante logica semplificatoria, aveva operato una divisione nella questione mediorientale: da un lato, il mondo arabo sfruttato, dall’altra Israele, longa manus dell’imperialismo e dello sfruttamento del mondo ricco.
Quando terminò la Guerra dei sei giorni, i suoi risultati permisero ai terzomondisti e ai liberal americani di tuonare: avevamo ragione! L’ideologia terzomondista aveva fatto breccia tra i liberal statunitensi e in buona parte del Partito democratico, così la posizione di Israele acquisì una nuova aberrante dimensione: ora lo stato ebraico non era più il prodotto di una guerra di liberazione nazionale contro l’imperialismo inglese e il fanatismo arabo, come era stato considerato dal mondo liberal americano nei decenni precedenti, ma al contrario svolgeva il ruolo di oppressore verso i popoli del Terzo mondo, cioè, nel caso mediorientale, gli arabi. Da quel momento in poi, i liberal americani presero progressivamente le distanze da Israele e il democratico Jimmy Carter, presidente dal 1977 al 1981, fu l’esempio più chiaro di questo distacco. Fu il Partito repubblicano con Richard Nixon (presidente dal 1969 al 1974), poi Ronald Reagan (1981-1989), infine George W. Bush (2001-2009) a porsi decisamente dalla parte di Israele.
L’attuale presidenza di Obama conferma pienamente questo mutamento politico nella sinistra americana e lo radicalizza. Il recente discorso del premier israeliano Benjamin Netanyahu al Senato americano, di fronte alla maggioranza repubblicana e in assenza di buona parte del gruppo democratico, fotografa bene il capovolgimento delle alleanze che negli Stati Uniti sostengono Israele, come esito del lungo processo di radicalizzazione del mondo liberal americano sotto l’egida dell’ideologia terzomondista.
Per inviare la propria opinione ai quotidiani, telefonare:
La Stampa 011/65681
Il Foglio 06/589090
Oppure cliccare sulle e-mail sottostanti