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La Stampa - La Repubblica - L'Espresso - Il Manifesto Rassegna Stampa
13.03.2015 Israele/elezioni: Molinari informa, Valli/Riva/Giorgio rivelano il proprio odio verso Israele
Commenti di Maurizio Molinari, Bernardo Valli, Gigi Riva, Michele Giorgio

Testata:La Stampa - La Repubblica - L'Espresso - Il Manifesto
Autore: Maurizio Molinari - Bernardo Valli - Gigi Riva - Michele Giorgio
Titolo: «Israele, Netanyahu adesso teme la sconfitta: 'Un complotto internazionale contro di me' - Tra i seguaci di Netanyahu che ora temono le urne; la sinistra di Israele torna a sognare la vittoria - In Israele rischiano di perdere tutti - Netanyahu rincorre He»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/03/2015, a pag. 10, con il titolo "Israele, Netanyahu adesso teme la sconfitta: 'Un complotto internazionale contro di me' ", il commento di Maurizio Molinari; da REPUBBLICA, a pag. 1-18, con il titolo "Tra i seguaci di Netanyahu che ora temono le urne; la sinistra di Israele torna a sognare la vittoria ", il commento di Bernardo Valli; dall'ESPRESSO, a pag. 71, con il titolo "In Israele rischiano di perdere tutti", il commento di Gigi Riva; dal MANIFESTO, a pag. 6, con il titolo "Netanyahu rincorre Herzog", il commento di Michele Giorgio.

A destra:
Ytzhak Herzog, Tzipi Livni: "Noi o lui"
Benjamin Netanyahu: "Noi o loro"

Ecco gli articoli, preceduti quando ritenuto opportuno dal nostro commento:

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Israele, Netanyahu adesso teme la sconfitta: 'Un complotto internazionale contro di me' "


Maurizio Molinari

«Siamo in una situazione di rischio»: è Benjamin Netanyahu che, parlando ai sostenitori di Kiryat Motzkin, vicino Haifa, ammette per la prima volta di poter perdere le elezioni di martedì. A spiegare i timori del premier uscente sono sondaggi e analisi elettorali: il suo Likud viene dato a 21 seggi, ovvero 3 o 4 seggi dietro il centrosinistra di Yitzhak Herzog e Tzipi Livni, la sua popolarità è scesa dal 48 al 34 per cento, e l’indebolimento nasce non tanto dalla perdita di voti verso altri partiti ma dallo scontento nel suo partito, che potrebbe portare molti elettori a non votare.

L’ex consulente di Obama
Un indicatore di tale tendenza è quando avvenuto due giorni fa quando il Likud ha annullato un evento elettorale di Netanyahu in un piccolo centro del Sud - sua roccaforte - per timore di carenza di pubblico. Non essere riusciti a riempire una sala per matrimoni in una cittadina del Negev è stato un campanello d’allarme per il premier, che attribuisce l’indebolimento all’«esistenza di una grande coalizione contro di me» che sarebbe «finanziata dall’estero». Il riferimento è all’ong «Victory-2015», guidata da Jeremy Bird ex consulente di Barack Obama, e agli organizzatori della marcia anti-Netanyahu di sabato a Tel Aviv che, essendo anch’essi una ong, possono ricevere fondi dall’estero mentre è proibito ai partiti politici.

Yuval Steinitz, ministro per la Sicurezza e stretto collaboratore di Netanyahu, descrive così le «forze esterne che vogliono far perdere il Likud»: «Elementi negli Stati Uniti, l’Autorità palestinese e grandi gruppi media nazionali» ovvero anzitutto l’editore di «Yedioth Aharonot» Amon Mozes. Un altro collaboratore del premier ammette: «Il discorso al Congresso non ha prodotto l’effetto che speravamo».

Sul fronte opposto a sentire il vento a favore è Herzog, che riceve il sostegno formale dall’ex presidente Shimon Peres: «Conosco lui, e la sua famiglia da anni, è un leader di livello e sarà capace di restituire unità alla società israeliana facendo ricorso a solidarietà e speranza». L’appoggio dell’anziano leader laburista era scontato ma, da veterano della politica nazionale, Peres lancia lo slogan «solidarietà e speranza» andando incontro a ciò che la popolazione chiede in questo momento: porre rimedio agli eccessi di differenze economico-sociali e riaprire l’orizzonte a una pace con i palestinesi.

Le speranze dei palestinesi
Non a caso i portavoce dell’Autorità palestinese da Ramallah affermano di augurarsi la «sconfitta di Netanyahu» ed Herzog risponde: «Sono convinto che esista un partner per la pace». A non credere a Herzog invece è Hamas che da Gaza tuona: «Gli israeliani sono tutti uguali, e uniti, nel negare i diritti dei palestinesi». Tzipi Livni sceglie invece un profilo più basso, tradendo cautela su un risultato finale che resta in bilico: il conteggio dei seggi delle possibili coalizioni non dà infatti al «Campo Sionista» del centrosinistra la certezza di governare e ciò porta al timore di uno sgambetto di Netanyahu, che sebbene sconfitto potrebbe farcela a raggiungere il quorum di 61 seggi con destre e religiosi, o all’ipotesi dell’unità nazionale.

LA REPUBBLICA - Bernardo Valli: "Tra i seguaci di Netanyahu che ora temono le urne; la sinistra di Israele torna a sognare la vittoria "

Bernardo Valli esprime in questo articolo i propri pregiudizi contro lo Stato ebraico. E' in particolare a proposito del problema di un Iran dotato di armi nucleari, uno dei temi caldi della campagna elettorale in Israele, che il giornalista è protagonista di scivoloni a ripetizione.
Valli ironizza con facilità sulla minaccia atomica, irridendo così il cardine della campagna elettorale di Netanyahu. Peccato che Valli non dica che in Israele tutti i partiti sionisti - di destra o di sinistra poco cambia - considerino l'Iran la minaccia primaria alla propria sicurezza. E' vero che Netanyahu insiste particolarmente sul tema, mentre l'Unione Sionista considera altrettanto rilevanti questioni di altro genere, ma sulla sicurezza persino Grossman, lo scrittore che aderisce al partito di sinistra radicale Meretz, si è detto d'accordo con Netanyahu.

Ecco il pezzo:


Bernardo Valli

Per farsi rieleggere dagli israeliani, Benjamin Netanyahu ha sfidato il presidente americano. Fantasia e audacia non sono mai mancate al primo ministro. Usando quei forti lati del suo carattere, ai quali deve gran parte del lungo potere, adesso ha dato un’impronta internazionale al voto nazionale di martedì prossimo.

L’idea non tanto occultata era di ridurre l’elezione a un referendum sulla propria persona. Il successo non poteva mancare al garante della sicurezza, pronto a far fronte all’alleato americano tratto in inganno dagli ayatollah di Teheran, occupati nelle intenebrate centrali nucleari a preparare una minaccia “esistenziale” contro Israele. Ma, a quattro giorni dall’appuntamento, il terzo mandato come primo ministro appare molto più incerto per Benjamin Netanyahu. Gli oppositori si stanno rivelando assai meno insignificanti di quel che pensasse.

Al centrosinistra, giudicato tanto innocuo, gli ultimi pronostici assegnano più seggi alla Knesset, il Parlamento, di quelli attribuiti al Likud. Nelle sedi del grande partito di destra si avverte un certo smarrimento. L’euforia tradizionale si è smorzata. Anche se poi ci si affida alla scarsa credibilità delle inchieste d’opinione per ritrovare un po’ di ottimismo. In effetti sbagliano spesso.

Se il suo partito perde terreno, personalmente Netanyahu resta comunque il leader che raccoglie più consensi, per ora virtuali. Nel progettare la campagna elettorale, Barack Obama è apparso a Netanyahu il solo vero avversario da sfidare. E se l’è costruito su misura: un avversario estraneo alla prova elettorale, ma ben presente nell’essenziale problema della sicurezza di Israele. Gli avversari locali, almeno in un primo tempo, non gli sono sembrati degni di un’attenzione esclusiva.

Il laburista Isaac Herzog, capo della principale coalizione nemica, dava l’impressione di non voler esibire il nome del proprio partito troppo impopolare. Per questo lo si descriveva nascosto dietro una vaga Unione sionista, sigla patriottica e mimetica creata per l’occasione. Herzog? Un cognome prestigioso. Nipote di un grande rabbino. Figlio di un presidente della Repubblica. Nipote di un famoso ministro degli Esteri, Abba Eban. Ma un personaggio di 54 anni senza carisma: l’aria di un secchione, la voce chioccia, la faccia di un ragazzo, pessimo oratore. Un fastidio, non un pericolo.

Nella scelta del vistoso antagonista fuori competizione deve avere pesato il fatto che l’attuale inquilino della Casa Bianca non susciti molte simpatie nello Stato ebraico, benché egli sia il capo della grande nazione alleata e protettrice di Israele. Un personaggio potente conferisce prestigio a chi osa affrontarlo. È un rischio, ma consente di evadere dall’insidiosa area della politica interna. Di abbattere i confini di una campagna elettorale che dà risalto a scandali e insuccessi economici.

Ma oltre alla fantasia e all’audacia, Benjamin Netanyahu ha anche il senso del dramma, ha la capacità di scavare nei profondi sentimenti dei connazionali, tra i quali occupa uno spazio particolare il problema della sicurezza, motivato dalla storia e dall’agitato presente mediorientale. E ha quindi enfatizzato la minaccia esterna, che rende appunto trascurabili i fastidiosi fatti interni dei quali deve rispondere come primo ministro durante due mandati. In tutto per nove anni. La grande minaccia è l’Iran, che preparerebbe l’arma nucleare. Barack Obama, l’ingenuo, vale a dire l’incapace, crede nella sincerità degli Ayatollah che auspicano puntualmente la distruzione di Israele, e si prepara a concludere un accordo con Teheran prima della fine del mese. Un’intesa che impegnerebbe l’Iran a limitarsi al nucleare per uso civile, ma che già da adesso, prima di essere raggiunta, non va presa sul serio vista l’inaffidabilità dei discepoli di Khomeini.

Grazie all’invito dei repubblicani, maggioritari nel Congresso e decisi oppositori del presidente, Netanyahu ha potuto esprimersi a Washington, con l’azzardata convinzione che si trattasse di una lite in famiglia, e non di un rischio per il privilegiato ed essenziale rapporto tra Stati Uniti e Israele. E ha detto in sostanza che Barack Obama è appunto un ingenuo, o un incapace. Aggettivi che ovviamente si è ben guardato dal pronunciare. Anzi, nella forma è stato cauto. Bastava la sua presenza, ufficialmente sgradita dalla Casa bianca, e il tono del suo discorso, in aperta opposizione alla politica del presidente, per rendere chiara la sfida.

Per la sua storia e la sua posizione, Israele attira un’attenzione spropositata rispetto alle sue dimensioni. Un’attenzione con aspetti che vanno dalla geopolitica alla morale. Dalla solidarietà dovuta alla memoria alle ondeggianti passioni sollecitate dagli avvenimenti. Ne sono la prova i riconoscimenti simbolici dello Stato palestinese votati da democrazie occidentali, con la premessa che debba essere garantita l’incolumità e l’integrità dello Stato ebraico. Gli israeliani si lamentano di questi ossessivi sguardi puntati su di loro. Al tempo stesso, secondo i casi, capita che non siano tanto disturbati, se non proprio lusingati, da tanta premura.

L’elezione del 17 marzo non è esente da quei sentimenti, ma si distingue in parte per l’impronta internazionale che il primo ministro le ha dato. Oltre a rivelarci quel che più conta, cioè gli essenziali dati dello scrutinio riguardante gli undici partiti in gara, il risultato di martedì sera ci dirà se a spuntarla sia stato lo sfidante di Gerusalemme o lo sfidato di Washington. La sconfitta di Netanyahu sarà un successo (non gridato) di Obama. E in tal caso per quest’ultimo risulterà meno tormentato arrivare, entro fine mese, a un accordo con l’Iran sul problema nucleare. Vale a dire alla conclusione di una delle più difficili e lunghe trattative nella storia della diplomazia. E quindi a una delle più rilevanti imprese finora portate a termine da Obama nei suoi due mandati. E non sono tante.

Non trascurabili saranno le conseguenze in Medio Oriente dove la coalizione organizzata dagli americani cerca a stento di contenere l’espansione dello Stato islamico in Siria e in Iraq. E dove le milizie sciite comandate da generali iraniani hanno un ruolo decisivo, come truppe di terra, con l’appoggio inevitabile (anche se non ufficiale) dell’aviazione americana e quella dei reticenti alleati sunniti.

Netanyahu, come del resto l’Arabia saudita, teme un recupero dell’Iran da parte degli Stati Uniti. Non ha del tutto torto quando punta l’indice contro l’Iran degli ayatollah, da dove si alzano puntuali minacce contro lo Stato ebraico. Ma non propone un’alternativa seria al negoziato condotto dagli americani. Le sanzioni hanno dato scarsi risultati e sull’opportunità di un intervento militare avanzano seri dubbi generali e uomini dell’intelligence israeliani. Per loro la minaccia iraniana non è scontata e sarebbe comunque prevedibile e contenibile nel caso dovesse rivelarsi concreta.

E se vincesse Netanyahu? Se uscisse dalle urne per la terza volta capo del governo, sia pure un governo raffazzonato, di coalizione? Quando ha sciolto il Parlamento in anticipo era convinto di farcela. Adesso un po’ meno. Dopo qualche settimana di comizi e riunioni la voce di Isaac Herzog si è rafforzata. È meno acuta. Più incisiva. Lui si muove con agilità. Non come un intellettuale impacciato. C’è chi gli riconosce un certo carisma. Per alcuni ricorda Levi Eshkol, a lungo primo ministro negli agitati anni Sessanta: un personaggio evocato con grande rispetto anche per la sua semplicità un tempo scambiata per esitazione.

L’Unione sionista non appare più una formula dietro la quale il partito laburista nasconde l’impopolarità e la lunga decadenza. Ha via via assunto una fisionomia. Il richiamo al sionismo non è un ricorso al nazionalismo, ma un richiamo al carattere sociale del movimento, fino alla svolta liberista degli anni Settanta, quando arrivò al potere la corrente di destra (detta “riformista”).

Insomma, dice il deputato Stav Shaffir, animatore delle rivendicazioni del 2011, il sionismo va inteso anche come formula sociale. Come una politica di sinistra contro la disuguaglianza, l’aumento dei prezzi, in particolare degli affitti, in favore delle classi colpite dalla crisi. La quale non ha risparmiato Israele, benché la disoccupazione sia bassa come quella tedesca. Non è sotto l’ala dei repubblicani americani, sbandierando la minaccia iraniana al Congresso di Washington, che Benjamin Netanyahu può nascondere gli insuccessi economici dei suoi anni di governo.

Negli Stati Uniti, appoggiandosi sull’opposizione a Barack Obama, il primo ministro mette soltanto a rischio l’alleanza con l’America. Questo dice l’Unione sionista. Adesso sempre più ascoltata. Nelle riunioni si ricorda che Netanyahu ha l’appoggio incondizionato di Sheldon Adelson, miliardario americano proprietario di casinò e finanziatore in patria delle campagne repubblicane. Adelson gli paga il giornale gratuito Israel Hayom , definito a Tel Aviv la “Pravda del primo ministro”. È anche per evitare una legge che avrebbe proibito la diffusione gratuita di Israel Hayom, al fine di non danneggiare la vendita degli altri quotidiani, che si sarebbe arrivati allo scioglimento anticipato della Knesset.

Dopo cinque anni di paralisi del processo di pace nessuno parla del problema palestinese, né della sorte di Gerusalemme, né dei territori occupati, né si affronta sul serio il conflitto interno tra laici e religiosi. È con desolazione che un deputato laburista enumera i problemi essenziali trascurati anche dal suo partito. Che però ha una attenuante: non si dichiara contrario al processo di pace. E la presenza nell’Unione sionista della centrista Tzipi Livni, a lungo sfortunata animatrice del processo di pace, apre qualche timido spiraglio.

Ma è singolare la posizione di alcuni palestinesi di Ramallah, i quali si augurano la vittoria della destra israeliana. E spiegano la loro posizione dicendo che almeno la destra al potere è criticata dai paesi occidentali, mentre la sinistra (ad eccezione di Meretz, a loro avviso rappresentante la sola vera sinistra), pur comportandosi allo stesso modo, riscuote simpatia.

L'ESPRESSO - Gigi Riva: "In Israele rischiano di perdere tutti"

L'articolo di Riva contiene le stesse sbandate sul tema del nucleare iraniano del pezzo di Valli, per le quali rimandiamo al commento all'articolo di quest'ultimo. Riva aggiunge l'ipotesi, che a suo dire sarebbe diffusa nell'elettorato israeliano, di una "Grande Israele", una definizione inventata da chi vorrebbe il ritorno ai "confini di Auschwitz". L'obiettivo di tutte le forze politiche sioniste (dalla sinistra di Meretz alla destra di Israel Beitenu e HaBayt HaYehudi) è la pace, non disgiunta dalla sicurezza.
Riva dimostra infine scarsa conoscenza degli schieramenti politici israeliani, poiché come Valli parla soltanto della questione della sicurezza e della minaccia iraniana, mentre in Israele esistono addirittura due partiti che propongono esclusivamente riforme economiche e sociali.

Ecco il pezzo:


Gigi Riva

ARRIVATE IN SORDINA per la sovraesposizione mediatica che nell'area si è preso lo Stato Islamico, le elezioni in Israele (17 marzo) sono però le più importanti almeno nel confronto col recente passato. E ricordano che se il sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi è cronaca, la questione palestinese è storia e la sua soluzione è imprescindibile per qualunque assetto duraturo della regione (se mai la regione potrà avere un assetto duraturo). Contrariamente a quanto avviene nel resto del mondo è la politica estera, che coincide con quella della sicurezza, a dominare la scena. Anche per la volontà di un premier uscente, Benjamin Netanyahu, di far dimenticare le difficoltà di una larga fetta della popolazione giovane, penalizzata dall'aumento dei prezzi, soprattutto quelli degli affitti delle case (più 30 per cento in pochi anni). Il primo ministro ha voluto le urne anticipate sperando di avere il consenso, e dunque i seggi alla Knesset, per varare una legge costituzionale che sancisca la natura di Israele come Stato nazionale degli ebrei. Quanto di più delicato. Tanto da indurre per la prima volta i quattro partiti che rappresentano gli arabi-israeliani (1,4 milioni, il 20 per cento della popolazione) a presentarsi con un'unica lista, anche in seguito a una soglia di sbarramento alzata al 3,25 per cento che avrebbe costretto alcuni di loro fuori dalla Camera. La conseguenza, potenzialmente esplosiva, è che se, in un quadro frammentato, destra e sinistra fossero costrette a formare un governo di coalizione, quale principale forza di opposizione gli arabi (accreditati nei sondaggi di 13-15 seggi) avrebbero la facoltà di partecipare alle riunioni cruciali sulla sicurezza, rivolgersi al parlamento in seduta plenaria una volta al mese, ricevere come da protocollo premier e ministri degli esteri di Paesi stranieri in visita. Sarebbe normale dialettica istituzionale se non fossero spesso percepiti come quinte colonne dei terroristi, loro fratelli separati.

SE NETANYAHU SPINGE sull'ebraicità delo Stato, dunque, è anche per via dell'incubo sempre presente in tutte le classi dirigenti che si chiama demografia. Gli ebrei, già avviati ad essere minoranza nel territorio tra il Mediterraneo e il fiume Giordano (sarebbero i confini di una vagheggiata Grande Israele), temono l'attitudine palestinese a fare più figli e ad alterare, anche nel breve termine, il rapporto percentuale fra i due popoli. E non è un caso che persino quando si recò a Parigi per gli attentati di inizio gennaio, il primo ministro non abbia resistito a lanciare un appello ai correligionari perché facciano "alya", cioè emigrino in Israele visto che la Francia in particolare e l'Europa in generale per loro non sono più accoglienti a causa del montante antisemitismo e della minaccia rappresentata dagli attentati di fondamentalisti islamici.

LA COMPOSIZIONE ETNICA dello Stato è argomento cruciale pure nel lungo periodo, nell'immediato c'è una competizione da vincere e che tutti rischiano di perdere un po'. Netanyahu, col suo Likud, è dato testa a testa con il blocco "Unione sionista" che raccoglie i laburisti di Isaac Herzog e i centristi di Tzipi Livni (da 16 anni, da Ehud Barak, la sinistra non esprime il premier). Potrebbero essere obbligati a formare un esecutivo insieme e non si capisce, almeno oggi, quale possa essere il punto d'incontro se sul tema decisivo dei colloqui di pace da riavviare coi palestinesi si trovano su posizioni inconciliabili. Il premier uscente ha sempre preferito, nella ventennale seppur discontinua permanenza al potere, lo status quo non trovando, mai, un "interlocutore" nella controparte. Mentre la coppia Herzog-Livni è convinta dell'assoluta necessità di sedersi attorno a un tavolo con Abu Mazen per arrivare alla soluzione dei "due Stati" che ponga fine a un'occupazione dei Territori vecchia ormai di 48 anni.

SULLO SFONDO, LO SPAURACCHIO del nucleare iraniano che Netanyahu agita come asso nella manica per attirare voti, proponendosi come l'unico leader con la credibilità e la forza necessaria per battere i pugni sui tavoli della diplomazia internazionale. Cosa che ha già fatto del resto con Barack Obama, cioè col presidente del Paese che resta, nonostante le antipatie personali, il principale alleato. I sondaggi pronosticano l'ingovernabilità, coi grandi partiti ostaggio dei piccoli a causa del sistema proporzionale puro: lo scenario peggiore.

IL MANIFESTO - Michele Giorgio: "Netanyahu rincorre Herzog"

Pubblichiamo la cronaca di Michele Giorgio non perché contenga novità, ma per il senso di soddisfazione che traspare dal tono dell'articolo: l'idea che Netanyahu possa essere battuto. Chiudendo il pezzo con le dichiarazioni del pluri-criminale Barghouti, condannato a pluri-ergastoli, presentandolo invece come " ex candidato alle presidenziali del 2005 ", Giorgio indica chiaramente da che parte sta.

Ecco il pezzo:


Michele Giorgio

Senza alcun dubbio il discorso contro il possibile accordo sul programma nucleare iraniano che Netanyahu ha pronunciato il 3 marzo davanti al Congresso ha convinto decine di parlamentari americani. E il suo allarme sul «terrorismo islamico» giunto sulla porta di casa degli ingenui e distratti occidentali, raccoglie consensi in tanti governi e parlamenti europei, a cominciare da quello italiano.

In Israele invece la strategia della paura, sulla quale il premier e il resto della destra hanno puntato, si sta rivelando un mezzo fiasco. Netanyahu rischia seriamente di perdere le elezioni del 17 marzo. Il costo della vita, le case che mancano (in Israele, non certo nelle colonie ebraiche nei Territori Occupati), le difficoltà crescenti dell'industria manifatturiera (mentre vanno forte le start up e il resto dell'hi tech) e di conseguenza per molte migliaia di operai e lavoratori poco qualificati, stanno avendo un peso che il primo ministro e il suo partito, il Likud, avevano sottovalutato.

E i sondaggi dimostrano che questi temi, meglio affrontati dal leader laburista Yitzhak Herzog - che guida la principale forza di opposizione, Schieramento Sionista, assieme all'ex ministra centrista Tzipi Livni - sono la priorità per buona parte degli israeliani. Il sondaggio finale pubblicato ieri dal quotidiano Haaretz dice che Schieramento Sionista ha guadagnato altri due seggi toccando quota 24, mentre il Likud ne ha persi 2 ed è sceso a 21. Al terzo posto ci sarebbe la Lista Araba Unita con 13 seggi, davanti a Yesh Atid, il partito del centrista Yair Lapid rivelazione delle legislative del 2013, e a Casa Ebraica del ministro ultranazionalista Naftali Bennett.

Secondo un altro sondaggio, Herzog - figlio del sesto presidente israeliano e nipote di un influente rabbino - starebbe colmando il gap che lo separa da Netanyahu nella percezione della gente come miglior primo ministro. Pochi giorni fa Netanyahu lo distaccava di un 26%, ora la differenza è scesa al 14%. Un giornale satirico, Israel Mahar (Israele domani), che sarà distribuito oggi gratuitamente, porta già la data del giorno dopo le elezioni con un titolo a caratteri cubitali sulla sconfitta del primo ministro in carica e il suo addio alla guida del paese.

Anonimi dirigenti del Likud, intervistati dai giornali locali, ammettono che la sconfitta è una minaccia concreta. Ed evidentemente comincia a pensarlo anche Netanyahu che, in un'intervista al Jerusalem Post, già parla del dopo elezioni, avvertendo che Herzog e Livni diventeranno a rotazione primi ministri di Israele «con l'appoggio dei partiti arabi» e avvieranno un cambio della politica di Israele che, a suo dire, diventerebbe più debole sia sul dossier Iran sia su quello palestinese. «La nostra sicurezza è a rischio, c'è un pericolo se dovessimo perdere queste elezioni».

Il dopo voto si annuncia complesso. Netanyahu anche da sconfitto sembra avere migliori possibilità di Herzog di formare una maggioranza di governo. Dalla sua parte ci sono quasi tutti i partiti della coalizione uscente e potrebbe - in assenza dell'ex ministro Lapid, avversario dichiarato dei religiosi, che nei mesi scorsi è stato «dimissionato» assieme a Tzipi Livni - portare in un possibile nuovo governo i partiti degli ebrei ortodossi, tenuti fuori nel 2013. Invece Herzog ha possibilità più limitate e deve fare i conti con la regola non scritta che da decenni condiziona la composizione di ogni governo israeliano e che gli nega i potenziali 13-14 seggi della Lista Araba Unita.

«Secondo l'establishment politico e l'opinione generale l'esecutivo deve essere formato da partiti sionisti e non comprendere formazioni non sioniste - ci spiega il professor Hillel Cohen, docente all'Università ebraica e autore di testi sulla minoranza palestinese in Israele - a questo si aggiunge il secco rifiuto della Lista Araba di aderire a qualsiasi governo». Secondo Cohen è possibile che i partiti arabi accettino di dare un appoggio esterno a un governo a guida laburista in cambio di assicurazioni da parte di Herzog sulla politica del nuovo esecutivo verso i cittadini arabi e l'avvio di negoziati concreti con l'Anp di Abu Mazen.

Da parte loro i palestinesi dei Territori occupati, guardano con scetticismo al voto in Israele. Secondo Mustafa Barghouti, ex candidato alle presidenziali del 2005, una vittoria di Herzog e Livni confonderà le idee della comunità internazionale portandola a credere che il nuovo esecutivo israeliano lavorerà seriamente per un accordo con i palestinesi. Herzog, ricorda Barghouti, è a favore del proseguimento della colonizzazione israeliana della Cisgiordania.

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