Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 12/03/2015, a pag. 32, con il titolo "Un islam nazionale", l'analisi di Renzo Guolo.
L'idea di favorire la configurazione di islam nazionali in alcuni Paesi, tra cui l'Italia, è poco credibile. Sarebbe un'ottima idea, se non prescindesse dalla realtà delle cose. Infatti larga parte dei musulmani residenti in Europa è ostile al sistema delle libertà europee ed è inutile dire quanto sia diffuso endemicamente l'antisemitismo negli ambienti islamici.
Guolo non ritiene che per prima cosa bisognerebbe pretendere che questi atteggiamenti - fertile humus per il terrorismo islamico - vengano accantonati con posizioni chiare da parte delle autorità musulmane. Il motivo è semplice: l'islam italiano è gestito dall'UCOII, diretta emanazione dei Fratelli Musulmani, la radice travestita di 'moderatismo', molto più pericolosa di qualunque Stato Islamico. Il suo progetto è invadere di musulmani l'Europa, e ci sta riuscendo. Grazie anche a personaggi, perlomeno ambigui, come Guolo.
Ecco l'articolo:
Renzo Guolo
UCOII, Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia
La necessità di contrastare il radicalismo islamista muta anche i rapporti tra Stati e musulmani europei. La lotta allo jihadismo presuppone un coinvolgimento delle comunità islamiche continentali capace di delegittimarlo dall’interno. L’indispensabile contrasto d’intelligence e sicurezza non è sufficiente, da solo, a arginare un fenomeno che, come dimostrano numeri e biografie dei foreign fighters europei, rappresenta la punta dell’iceberg di una radicalizzazione di più vaste dimensioni.
Ma il coinvolgimento sarà tanto più efficace quanto i musulmani si sentiranno parte integrante della collettività nazionale e non un corpo estraneo sospettato di dubbia lealtà politica nei confronti delle istituzioni. Considerazione che vale, soprattutto, per i Paesi nei quali i musulmani, in maggioranza, non sono cittadini e l’Islam è percepito come religione dello straniero.
Musulmani in preghiera
È il caso di Austria e Italia che in comune hanno tradizioni religiose maggioritarie, cittadinanza basata sul principio dello ius sanguinis, presenza di imprenditori politici della xenofobia declinata in islamofobia. Entrambe rivisitano ora le politiche verso l’Islam di casa. L’Austria mediante la riscrittura dell’ Islamgesetz del 1912, eredità del multinazionale e multireligioso impero asburgico che comprendeva allora anche la Bosnia; l’Italia attraverso la riesumazione dell’ormai inanimata Consulta per l’Islam al ministero dell’Interno.
Il nuovo Islamgesetz è stato salutato da alcuni come l’inizio della fine della “resa all’Islam”. Impone il sermone nella preghiera collettiva del venerdì nella lingua nazionale e agli imam di farsi veicoli dei valori repubblicani. In realtà, come ha ricordato il ministro degli Esteri e dell’Integrazione Kurz, il suo obiettivo è la costruzione di «un Islam di stampo europeo». Persino la parte della legge che prevede la fine dei finanziamenti dall’estero alle comunità musulmane mira a quell’esito. Affrontando il sottaciuto rapporto tra i musulmani non cittadini e i loro Paesi d’origine.
I finanziamenti provenienti dagli Stati della Mezzaluna rappresentano, in taluni casi, la modalità mediante cui alcuni Paesi europei hanno “regolato” i loro rapporti con i musulmani presenti nel loro territorio. Paesi come l’Austria hanno, di fatto, affidato a quegli Stati la rappresentanza dei credenti in Allah. Così, ai piedi delle Alpi, la Turchia ha avuto l’onere ma anche il surplus politico di finanziare, e controllare, le organizzazioni locali, oltre che formare gli imam. Una supplenza istituzionale esternalizzata che ha consentito agli Stati europei riluttanti di non farsi carico di questioni costose politicamente come la riforma della legge sulla cittadinanza e il riconoscimento dell’Islam come articolazione del nuovo pluralismo religioso nazionale. Supplenza che ha prodotto anche condizionamenti nelle scelte di politica estera.
L’affidamento esterno della rappresentanza si è verificato, sia pure con tratti diversi, anche in Italia. Governi di diverso colore, alle prese con il dilemma affidabilità/rappresentatività dei loro interlocutori, hanno privilegiato il rapporto con questa o quella organizzazione legata a un certo Paese: come l’Unione musulmani in Italia, vicina al Marocco. O, comunque, espressione dell’Islam degli Stati: come la Moschea di Roma, il cui consiglio d’amministrazione è formato dagli ambasciatori di Paesi della Mezzaluna. Opzione che permetteva anche di evitare di riconoscere il peso dell’Ucoii, i cui gruppi dirigenti, almeno di prima generazione, erano ritenuti legati ai transnazionali Fratelli Musulmani. Quell’organizzazione costituiva l’ossatura “dell’Islam delle moschee” diffuso nel territorio ma nei suoi confronti prevaleva il giudizio politico negativo sull’affidabilità della filiazione.
Ora l’Austria mette fine ai finanziamenti esteri, provenienti in larga parte da Turchia e Qatar. Quanto all’Italia, coinvolge nella rinata Consulta esponenti dell’Ucoii, dalle nuove leve dirigenti alle seconde generazioni, nel tentativo di colmare quel deficit di rappresentatività che rischiava di essere un tallone d’Achille nel contrasto alla deriva radicale e puntando a valorizzare il conflitto all’interno dell’Islam politico. Strategie diverse, che in un comune hanno il fine di normare e controllare. L’effetto, voluto o meno, è il progressivo passaggio da “Islam degli Stati” a “Islam di Stato”. A una nazionalizzazione dell’Islam che incoraggia l’emergere di Islam nazionali.
Scelta che, da un lato provoca un mutamento nel panorama dell’istituzionalizzazione delle religioni, con le implicazioni che ne derivano sul piano del riconoscimento del pluralismo. Dall’altro implica inevitabilmente, se si vuole dare efficacia al progetto di Islam nazionale, la rivisitazione della legge sulla cittadinanza in base al principio dello ius soli. Il permanere dell’ambiguità, nazionalizzare l’Islam ma considerarlo ancora religione degli stranieri, non produrrebbe alcun vantaggio sistemico. Solo costi politici e religiosi aggiuntivi.
Per inviare la propria opinione a Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante