Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/03/2015, a pag. 5, con il titolo "Bonino e il sì all'Iran: 'E' un alleato per evitare la guerra di religione' ", l'intervista di Paolo Valentino a Emma Bonino; da REPUBBLICA, a pag. 18, con il titolo "Tra la gente di Teheran che sogna l'intesa nucleare: 'Vogliamo finalmente essere un paese normale' ", l'analisi di Vanna Vannuccini.
Ecco gli articoli:
L'Iran sostiene Hamas e soprattutto Hezbollah, il movimento terrorista sciita clerico-fascista
CORRIERE della SERA - Paolo Valentino: "Bonino e il sì all'Iran: 'E' un alleato per evitare la guerra di religione' "
Emma Bonino torna a sponsorizzare la piena apertura dell'Occidente all'Iran. Argomentando la sua posizione giunge a sostenere che l'Iran possa essere un parner nella lotta contro il terrorismo. Ma Bonino dimentica che il regime sciita è da sempre grande sponsor dell'estremismo islamico e del terrorismo. Chi ne fa maggiormente le spese è - come al solito - Israele, che vede ai propri confini le milizie clerico-fasciste sciite di Hezbollah, direttamente dipendenti da Teheran.
Come può un Paese che finanzia e sostiene in ogni modo il terrorismo essere un alleato per contrastare il terrorismo?
Ecco l'articolo:
Emma Bonino
Obama nelle fauci del leone Iran
Onorevole Bonino, perché lei da ministro degli Esteri, ma anche dopo, ha insistito tanto sulla necessità di un accordo nucleare con Teheran? «Ho sempre avuto una posizione di apertura “prudente” e verificabile, non di apertura “in bianco”. E non l’ho cambiata. L’Iran è importante, economicamente e strategicamente. È anche leader riconosciuto del mondo sciita, che è componente decisiva di tanti Paesi in conflitto: Afghanistan, Iraq, Siria, Libano, Yemen. Un mondo tuttavia meno problematico di quello sunnita, lacerato da tensioni intestine con forte tendenza alla radicalizzazione jihadista. L’Isis (come i Talebani, Boko Haram, Al-Shabaab) è un movimento estremista sunnita di ispirazione ideologica wahabita e salafita. E Teheran può esserci alleato nella lotta a questi fenomeni che generano terrorismo internazionale».
Emma Bonino segue con grande attenzione la trattativa sulla limitazione del programma nucleare persiano, entrata nella stretta finale con i colloqui preliminari a due tra Iran e Stati Uniti, di lunedì scorso a Montreux, in Svizzera. «C’è l’impegno politico a raggiungere un accordo quadro entro la fine del mese — spiega l’ex ministro degli Esteri —. Poi c’è tempo fino a luglio per definire le questioni tecniche e le modalità di monitoraggio dell’Aiea. È quindi una fase cruciale, quella che riprende il 15 marzo a Ginevra, questa volta con la partecipazione di tutti i Paesi 5+1 (Usa, Russia, Cina, Regno Unito, Francia più Germania, ndr ) e di Lady Ashton per conto dell’Ue. Ma nulla è scontato».
L’impressione è che il vero ostacolo sia il calendario di smantellamento delle sanzioni, che l’Iran vorrebbe molto rapido. Pensa che gli Usa possano concedere qualcosa su questo? «È un tema difficoltoso per Washington. Gran parte del discorso del premier israeliano Netanyahu al Congresso verteva sulla timeline di 10 anni per la riduzione delle attività nucleari di Teheran, giudicata troppo breve. Visto dall’Iran, l’idea che lo smantellamento delle sanzioni debba attendere anni appare a dir poco problematica. Difficile anticipare il punto di equilibrio».
L’Italia, come hanno riconosciuto gli iraniani, ha giocato un ruolo di apripista nella ripresa del dialogo occidentale con Teheran. Non fu un errore strategico scegliere di star fuori dal formato 5+1? «Errore è riduttivo. Fu una scelta inspiegabile, che non solo ha elevato la Germania a partner strategico, ma ci ha del tutto marginalizzati».
Una parata di Hezbollah: questi sono i terroristi armati e finanziati dall'Iran
Lei ha citato il discorso di Netanyahu al Congresso. Cosa pensa delle obiezioni di Israele? «Non mi ha mai convinto l’idea di far campagna elettorale all’estero, specie quando il risultato è in bilico. Non è un grande esempio di leadership estorcere ai leader repubblicani del Congresso un invito sgradito alla Casa Bianca. Temo anche sia un errore per Israele affidare la relazione strategica con gli Usa a un rapporto partisan e conflittuale. Non mi convincono i toni apocalittici di Netanyahu. Abbiamo tutti bisogno di recuperare una relazione con l’Iran, da un lato per allontanare la minaccia nucleare, dall’altro perché Teheran ci aiuti a uscire dall’incubo delle guerre di religione. Per questo sono convinta sostenitrice del negoziato, e non solo per gli effetti dissuasivi che avrà sulla capacità di proliferazione iraniana. Per convinzione e lunga storia radicale, sono amica del popolo ebraico. Da sempre Marco Pannella ha sostenuto non la strategia “land for peace” o quella “due popoli, due Stati”, ma quella dei “due popoli, due democrazie” e la prospettiva dell’ingresso nella Ue, che i leader israeliani non hanno mai considerato, pur essendo sostenuta dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Credo che Netanyahu non abbia fatto avanzare per nulla la questione fondamentale della sicurezza d’Israele».
Un’ultima domanda sulla Libia, dove l’Isis ci minaccia da vicino. È una crisi risolvibile? «C’è qualche speranza legata all’incontro tra le fazioni in Marocco, con la mediazione dell’Onu. L’ipotesi di un governo inclusivo è l’unica percorribile. Alla fine, il governo di Tobruk, sostenuto da Egitto ed Emirati, e il gruppo di Tripoli-Misurata, sostenuto da Fratelli Musulmani e Qatar, si stanno convincendo che una vittoria militare sia impossibile. In più, so per certo che gli egiziani hanno fatto sapere che a loro interessa solo la Cirenaica, come zona cuscinetto. C’è da augurarsi che il processo vada a buon fine, altrimenti si va alla guerra civile totale. Ma rimango cauta».
LA REPUBBLICA - Vanna Vannuccini: "Tra la gente di Teheran che sogna l'intesa nucleare: 'Vogliamo finalmente essere un paese normale' "
Anche La Repubblica si allinea con il Sole 24 Ore, La Stampa e il Corriere della Sera nel dipingere l'Iran come un Paese pacifico e normale. Quando invece ben sappiamo essere un regime teocratico estremista che minaccia di distruggere Israele e di estendere il proprio dominio sul mondo arabo (e non solo). La corsa al nucleare che l'Iran sta proseguendo rende chiari gli obiettivi del regime degli ayatollah. Il fatto che una larga parte della stampa italiana stia dipingendo questo Paese come un partner per la pace soggiace a una profonda incomprensione della natura vera della dittatura iraniana. Mira alla riapertura del business, cioè la fine delle sanzioni, come IC sottolinea da sempre.
Ecco il pezzo:
Vanna Vannuccini
«Anche noi dobbiamo ripartire da zero », dice uno studente che tiene per mano la fidanzata. È venuto a visitare una mostra speciale, che pochi si aspetterebbero di vedere al Museo di arte contemporanea di Teheran, inaugurata dallo stesso ministro della Cultura Ali Jannati (figlio di un ayatollah ultraconservatore, lui invece un liberale). Una personale di Otto Piene, che era passata anche dal Guggenheim. Già sulle scale siamo accolti da una spettacolare corona di inflatables, sculture d’aria colorate che assomigliano a tronchi d’albero sormontati da immensi fiori a stella. Piene è un pittore tedesco del famoso Gruppo Zero. Negli anni del dopoguerra in Germania, come in altri paesi d’Europa, gli artisti sentivano un’urgenza di rinnovamento, volevano ripartire da zero, ma avevano anche fiducia nel futuro. Sentimenti che oggi toccano un nervo sensibile dei giovani iraniani che aspettano col fiato sospeso la conclusione dei negoziati sul nucleare a Ginevra. “Arcobaleno” è intitolata la mostra, perché Piene dipingeva arcobaleni in serie. E chi visita la mostra li vede come un simbolo di riconciliazione. «Sogno un mondo più largo — dovrei forse desiderarne uno più stretto? », è una citazione di Otto Piene nella prima pagina del catalogo.
“Conto alla rovescia per il domani”, è un altro titolo. Ginevra, dicono tutti, segnerà la svolta decisiva per il futuro del paese: «O diventiamo un paese normale, di cui il resto del mondo ha rispetto e fiducia oppure che cosa?», si chiede lo studente. Nessuno riesce a figurarsi quale sarebbe l’alternativa. «Dopo trentacinque anni di chiusura, tre decenni e mezzo in cui il mondo ci ha considerati un popolo di second’ordine, vogliamo tutti che l’isolamento abbia fine», mi dice un funzionario del ministero degli Esteri. Anche la pressione economica ha fatto la sua parte: il crollo dei prezzi del petrolio, che è calcolato a 130 dollari nella legge di bilancio ed è sceso a 60, è stato l’ultimo colpo. Poi ci sono i cento miliardi di dollari congelati all’estero per via delle sanzioni sulle transazioni finanziarie, mentre i guadagni fatti quando il petrolio era a 150 dollari sono spariti (si parla di un buco di 6 miliardi di dollari negli ultimi anni di Ahmadinejad e ieri il ministro dell’Interno Rahmani Fazli ha detto che «denaro sporco» sta entrando nella politica per manovrarla).
«Nessun paese può crescere economicamente quando è isolato», ha ammonito il presidente Rouhani. Ma c’è anche chi vuole il fallimento del negoziato: non solo Netanyahu e pezzi del Congresso a Washington, sono in tanti anche qui. «In questo momento tacciono, nessuno vuol prendersi la responsabilità di un fallimento dopo che il Leader Supremo Khamenei ha dato esplicito sostegno al negoziato: semplicemente aspettano il momento opportuno per alzare la voce», avverte un analista che preferisce rimanere anonimo. Sono gli ultraconservatori, sono i pasdaran (almeno in parte), sono tutti coloro che non solo perderanno i benefici portati dalle sanzioni, che hanno consentito di accumulare enormi ricchezze. E per molti è in gioco anche la sopravvivenza politica. «Se si farà l’accordo — dice un professore universitario — i conservatori scompariranno nelle due elezioni importanti che ci saranno a primavera: non saranno rieletti al Majlis, il Parlamento dove oggi hanno la maggioranza, e, cosa forse ancora più pericolosa per loro, all’Assemblea degli esperti, gli 86 eletti che stanno in carica otto anni e hanno il compito di nominare il Leader Supremo».
Va detto che Khamenei è più in salute di quanto sia stato detto, anche se in questi giorni è di nuovo sotto osservazione in ospedale dopo un’operazione alla prostata, ma comunque si avvicina agli 80 anni. Al discorso di Netanyahu il governo ha reagito con ostentata pacatezza: «Il mondo vede con soddisfazione i progressi fatti nel negoziato e solo un governo che aggredisce e occupa non è contento», ha detto il presidente Rouhani. «Il negoziato prosegue, e che Obama avesse difficoltà col Congresso si sapeva. Il governo sottolinea lo sforzo enorme fatto dall’Iran. È vero che i 5+1 riconosceranno il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, il programma nucleare è considerato da sempre lo strumento per entrare nella modernità, ed essere privati di un diritto garantito a tutti i firmatari del Trattato di Non Proliferazione sarebbe stato un affronto inaccettabile. Ma le condizioni saranno durissime: riduzioni drastiche, chiusure o trasformazioni di impianti, ispezioni ad libitum non annunciate dell’Aiea. Il tutto almeno per dieci anni — un numero «a due cifre», come ha detto Obama. Tra dieci anni la leadership presumibilmente sarà cambiata — sono tutti piuttosto anziani — e il nucleare non sarà più al centro dell’orgoglio nazionale iraniano.
«Abbiamo dato prova di tanta buona volontà. Se non avessimo fatto uno sforzo così grande non saremmo arrivati dove siamo», ha spiegato il consigliere diplomatico del Leader Ali Velayati al ministro Gentiloni. Ma se l’accordo si riuscirà a fare o no, è ancora scritto nelle stelle. «Siamo vicini», ha detto Zarif dalla Svizzera, ma è come il cubo di Rubik: nulla è a posto finché tutto non è a posto. Si prevede la firma di un accordo politico entro marzo, poi seguirà un piano d’azione tecnico da firmare entro il 30 giugno. Il 9 arrivano di nuovo gli ispettori dell’Aiea, che vogliono soprattutto indagare sul passato, ma Teheran dice che la documentazione nelle loro mani è un falso. Per chi si oppone all’accordo, qui come a Washington, è facile far leva su 35 anni di alienazione traumatica tra Iran e Stati Uniti. Riabilitare l’Iran, consentire alla sua reintegrazione nella comunità internazionale è un passo enorme per Obama e per Kerry. Da due decenni i due paesi si considerano rispettivamente il Grande Satana e l’Asse del Male. Non c’è film americano che non lo provi, non c’è manifestazione a Teheran senza gli slogan “morte all’America”. Ma tutti oggi sanno anche che in gioco c’è molto di più, per l’Iran e per il resto del mondo.
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