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Il Foglio Rassegna Stampa
17.02.2015 Con le parole il Califfato non si ferma
Anticipazione del libro di Carlo Panella in uscita a marzo

Testata: Il Foglio
Data: 17 febbraio 2015
Pagina: 2
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Come si salva la Libia»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 17/02/2015, a pag. II, con il titolo "Come si salva la Libia", un’anticipazione dell’ultimo capitolo de “Il libro nero del Califfato” (Edizione Bur-Rizzoli) di Carlo Panella. Il saggio sarà in libreria all’inizio di marzo.


Carlo Panella


Terroristi dello Stato islamico in Libia

In Libia non esiste nessuna forza politica o tribale, nessuna coalizione, nessuna milizia, o alleanza di milizie, in grado di esercitare la sovranità nazionale. Il tentativo dell’Onu e dell’Italia di costruire una mediazione tra le parti è fallito. L’unica soluzione è imporre un governatore dell’Onu, forte di un massiccio e combattivo intervento militare sul modello dell’Iraq. Come già era accaduto per lo sfondamento in Iraq, l’occidente si è reso conto con incredibile ritardo della sconvolgente forza d’attacco delle milizie fedeli al Califfato in Libia.

E’ stato poi obbligato a prendere atto di una seconda novità decisiva: per la prima volta dal 2011 gli impianti petroliferi sono stati bombardati dai jihadisti, a partire dai pozzi, per continuare con le pipeline e con i terminali a mare. Un attentato ha interrotto le pipeline di Saris, di Makruk, i pozzi di Sidra sono stati bloccati, il terminale di al Bahi è stato attaccato dalle milizie del Califfato, che probabilmente investiranno poi altri terminali della costa da Ras Lanuf fino a Aydabyi. Attacchi non “di rapina”, come quelli precedenti operati dalle milizie libiche, ma inseriti in una chiara logica di guerra.

Infatti, la Noc (agenzia energetica di Stato libica) ha annunciato la possibilità concreta di bloccare tutte le operazioni di estrazione e trasporto di gas e greggio verso l’Italia e l’Europa. Contemporaneamente, la città di Sirte è caduta sotto il controllo di Ansar al Sharia e di altre milizie fedeli al Califfato, che si sono impadronite delle emittenti radio e televisive e dalle quali hanno trasmesso sermoni di Abu Bakr al Baghdadi, mentre si è scoperto che, dall’altra parte della Libia, Surman, 60 chilometri a ovest di Tripoli era sotto controllo del Califfato. Gli attacchi jihadisti, nel complesso, evidenziano una chiara offensiva che mira a circondare da più parti Misurata e le sue milizie (baricentro militare del governo islamista di Tripoli), per attaccare poi Tripoli.

Parte di questa strategia, è il proselitismo secondo i moduli califfali. Sotto questa luce va interpretato l’orrendo video diffuso in rete il 14 febbraio sullo sgozzamento sulla riva del mare di 21 egiziani copti. Anche in Libia inizia la “caccia al cristiano”, con tutte le atrocità già perpetuate in Mesopotamia. Non basta: gli scafisti – che hanno obbligato, armi puntate, un battello della Guardia costiera di restituire loro i gommoni e i resoconti dei clandestini superstiti dei gommoni affondati nel Canale di Sicilia nell’inverno 2015 – hanno evidenziato una netta svolta anche nel traffico di carne umana dalle coste libiche.

Le minacce di morte con cui i poveretti sono stati costretti a salire sui gommoni, nonostante le condizioni di mare impossibili e il fatto che i piloti – muniti di tute e pinne – abbiano abbandonato le imbarcazioni a poche miglia dalla riva, indicano che il traffico di merce umana è ormai caduto sotto il controllo di milizie jihadiste, interessate solo alla rapina. Le onde del caos libico investono così in pieno l’Italia, privata delle risorse energetiche, costretta a far rientrare tutti i suoi connazionali, a chiudere precipitosamente la sua ambasciata di Tripoli e oggetto di nuove ondate di clandestini.

In questo contesto, prima il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, poi il premier, Matteo Renzi, poi il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, hanno annunciato la disponibilità a partecipare a una operazione militare in Libia “sotto l’egida dell’Onu”. Immediata la risposta del Califfato: il 14 febbraio al Bayan, la radio ufficiale dello Stato islamico, ha trasmesso da Mosul un comunicato in cui Gentiloni è stato definito “ministro dell’Italia Crociata”, con la minacciosa accusa di avere deciso di schierare il nostro paese “con le nazioni atee”, per combattere lo Stato islamico.

E’ dunque ora indispensabile che l’Italia chiarisca la sua strategia politica e quindi militare, a partire da un esame non ideologico, ma concreto, delle dinamiche che hanno portato a questo disastro annunciato. Il primo punto agli atti è che la missione di mediazione Onu gestita – malamente, al solito, dallo spagnolo Bernardino León – non solo è fallita, ma ha involontariamente favorito l’impianto e l’esplosione delle forze del Califfato. Una replica della dinamica siriana, in cui l’inerzia occidentale e la mediazione dell’Onu per “una soluzione che può essere solo politica” hanno aperto il varco all’irruzione del Califfato. In Libia, i miliziani del Califfato si sono insinuati nella frattura di faglia creata dalla guerra civile che vedeva combattersi da una parte i Fratelli musulmani, gli islamisti e le milizie di Misurata e dall’altra i “laici” del governo “legittimo” di Tobruk del premier al Thinni, le milizie di Zintan e l’armata di Khalifa al Haftar (insofferente a ogni comando).

Il Califfato ha usato così le onde destabilizzanti del terremoto tra due armate libiche contrapposte – che non riuscivano a vincere, né sapevano concordare una pace – per attirare nuove leve (accorse a migliaia) e colpire nuovi obiettivi. Il punto focale di questa sanguinosa crisi avvitata su se stessa, e anche la ragione sostanziale del fallimento dell’Onu, è che in Libia non esiste più nessuna possibile coalizione di tribù, partiti o milizie in grado di esercitare la sovranità nazionale, neanche parziale.

La ragione di questa assenza totale e irrimediabile è semplice: il modo caotico – ed errato – con cui la Nato ha condotto la guerra ha permesso la formazione di una miriade di milizie locali che hanno una forza di 200 mila uomini armati, secondo la valutazione di Ibrahim Sharqieh, vicedirettore del Doha Center della Brookings Institution. Queste milizie e i loro leader hanno eroso e sgretolato dall’interno l’autorità e il peso decisionale dei capi tribù e dei tradizionali “consigli tribali”. Il potere di comando dei “signori della guerra” si è rivelato infinitamente maggiore di quello dei secolari vertici tribali. Quindi, all’assenza di una élite nazionale urbana, si è sommata la frantumazione del plurisecolare sistema sociale di governo e gestione del territorio. L’illusione, nutrita non senza ragione dai nostri servizi segreti (tra i migliori d’Europa, peraltro) secondo cui, nell’uno e nell’altro campo, partiti e milizie affidabili fossero disponibili a una trattativa e a un accordo purtroppo non ha retto alla prova dei fatti.

Ma l’Onu, in Libia, non ha valutato correttamente neanche il peso determinante – in negativo – degli interventi militari diretti e indiretti della Turchia, contrapposta all’Egitto, a sua volta contrapposto al Qatar. Tre nazioni che hanno manovrato e manovrano consistenti milizie locali, secondo strategie e dinamiche solo in parte libiche. Il mondo sunnita “moderato” e filoccidentale si è infatti spaccato a fronte del fallimento generale consumato dai Fratelli musulmani dopo il 2012. Oggi i due più grandi paesi musulmani del Mediterraneo, Turchia ed Egitto, si confrontano in un clima di guerra fredda, in cui è coinvolta anche l’Arabia Saudita, alleata dell’Egitto.

Guerra che è diventata calda tra i loro clientes in Libia. La somma delle spinte destabilizzatrici degli interventi politico-militari esterni sui partiti e le milizie libiche è stata, ed è, ben maggiore della controspinta verso la stabilizzazione esercitata da Italia e Onu. Queste evidenze disgregatrici sono state però non viste, non valutate, dall’Onu ma nemmeno dalla diplomazia italiana, entrambe prigioniere di schemi interpretativi obsoleti. Ha vinto così la tendenza di piegare un’ingovernabile realtà dentro gli angusti spazi concettuali di protocolli Onu consolidati, che impongono che vi sia un governo nazionale, che possa essere di riferimento a un eventuale intervento militare di “peace enforcing”. Ha vinto l’illusione che le pressioni dell’Onu e dell’Italia sulla Turchia (paese Nato), sull’Arabia Saudita, che a sua volta è intervenuta sul Qatar, potessero avere per effetto un accordo di pace tra i loro terminali libici, l’un contro l’altro armati. Lo schema è inadeguato, e fallimentare. Nei fatti, non per princìpi astratti.

Lo schema non ammette, non esamina e non cerca di individuare un’alternativa: un “piano B”. E’ dunque indispensabile che l’Italia, che coraggiosamente si è fatta carico dei disastri provocati dalla guerra della Nato, prenda atto dei limiti, addirittura concettuali, delle strategie dispiegate in Libia. Il governo italiano deve impostare – di fronte e assieme alla comunità internazionale – una nuova azione politico-militare sulla Libia, ribaltando gli stessi princìpi guida seguiti sino a oggi. Deve prendere atto dell’evidenza: nessun governo è possibile a Tripoli, con nessuna coalizione. In particolare, il governo di Tobruk del premier al Thinni, al di là della sua scarsa rappresentatività (alle elezioni hanno votato 600 mila libici su 6 milioni di abitanti), ha ampiamente dimostrato di non avere peso e seguito politico nel paese, neanche in Cirenaica. Continuare a considerarlo il baricentro di ogni strategia politica, nel nome di un astratto principio di legalità, è stato forse giusto e corretto, ma si è poi rivelato sterile, inutile e non funzionale. Non ha portato ad alcun risultato. Anzi.

Ne consegue che l’unica strada praticabile è quella della assunzione diretta – ovviamente temporale – da parte dell’Onu della sovranità nazionale libica, con la nomina di un governatore plenipotenziario non libico, che indichi un governo ad interim a sua discrezione, con la collaborazione dalla presenza militare esterna, che controlli innanzitutto tutti i proventi del petrolio, assumendo l’amministrazione temporanea della Noc e che possa esercitare la sua autorità grazie alla presenza di un consistente schieramento militare.

Quanto a questo impegno militare, il secondo principio che l’Italia deve ribaltare per puro senso della realtà è che in Libia sia possibile una operazione dell’Onu di “peace enforcing” e di “peacekeeping”. Non solo perché nessuna pace è oggi ipotizzabile, ma perché la dinamica degli scontri militari in atto in tutta la Libia ha una dimensione tale che si impone la necessità di una operazione di “peace making”. Detto in altri termini: è necessaria un’occupazione militare di tutti i gangli della Libia, innanzitutto le grandi città, i pozzi, le pipeline, i terminali petroliferi e le vie di comunicazione che collegano una costa libica lunga ben 1.770 chilometri.

Da un punto di vista operativo, il punto di riferimento deve essere l’occupazione militare dell’Iraq, guardando non già all’armata di invasione del 2003 attuata con 300 mila militari, ma ai 150-170 mila uomini impegnati dal 2004 in poi. Inviare contingenti più limitati, ragionare su poche decine di migliaia di unità, a fronte dei 200 mila miliziani libici (o quanti siano, comunque un numero enorme), senza un quartier generale (da annientare con relativa facilità) ma con infinite centrali di comando, rischia di produrre inevitabilmente la ripetizione della pessima avventura del contingente dell’Onu in Somalia nel 1992. A quanto è dato di comprendere a oggi (ma il quadro è confuso), è purtroppo questa seconda l’opzione su cui si discute nel governo italiano (lo conferma la cifra di cinquemila militari italiani, indicata il 15 febbraio 2015 dal ministro della Difesa Roberta Pinotti), con una sottovalutazione preoccupante della inefficacia operativa di tale impegno per conseguire qualsiasi risultato e per evitare disastrose perdite. La massa critica militare dispiegata in Libia deve infatti essere in grado di combattere frontalmente le milizie del Califfato e di opporre, su non meno di 50 scenari territoriali, una forza militare imponente che scoraggi qualsiasi velleità d’attacco.

Dando per scontato, naturalmente, che questa forza militare dell’Onu non può allearsi con nessuno degli attuali contendenti (vuoi le “milizie di Zintan”, vuoi le “milizie di Misurata”, per semplificare), pena acutizzare la crisi e impedire qualsiasi ricomposizione politica. Ne consegue che l’ordine di grandezza di un intervento di “peacekeeping” in Libia deve aggirarsi, al minimo attorno alle 100-150 mila unità, con consistenti reparti blindati, elicotteri, eccetera. A questo straordinario dispiegamento militare, “boots on the ground”, possibile unicamente col contributo diretto degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia e dei paesi arabi, va sommato un massiccio dispiegamento delle flotte della Nato a presidio delle coste, funzionale anche al contrasto del traffico di immigrati, investendo la Nato del compito di accoglienza dei richiedenti asilo e installazione di campi profughi dell’Onu in Sicilia e Italia meridionale. Acquisiti questi ordini di grandezza, due sono le strade possibili che l’Italia può seguire. La prima consiste nel dispiegare un immane sforzo politico e diplomatico nei confronti degli alleati, affinché occupino con decine di migliaia di militari il suolo libico. Imporre quindi, battendo letteralmente i pugni sul tavolo, alle nazioni responsabili del caos libico che si impegnino con tutte le loro forze con un contingente di 100-150 mila uomini.

Un contingente che disponga di forze adeguate per disarmare le milizie libiche, con un mix di contrasto e di acquisto delle armi, e che sia in grado di schiantare le milizie califfali: questo è l’obiettivo strategico che è indispensabile conseguire, essendo fallita la prospettiva di disarmare le milizie libiche per via politica – via politica impraticabile nei confronti delle milizie califfali. L’impresa non è facile, perché per due anni America, Gran Bretagna, Francia e Nato (che pure vollero la sciagurata guerra di Libia) hanno fatto le orecchie da mercante a fronte delle pur drammatiche sollecitazioni italiane. La seconda strada, che possiamo definire “obamiana”, che l’Italia può perseguire, sia pure obtorto collo, è non fare nulla, salvo erigere un muro militare difensivo nel Canale di Sicilia. Non è una proposta paradossale, ma è una imposizione esterna, di fatto, conseguente ad alcune considerazioni. E’ ben difficile, se non impossibile, che gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra siano disponibili a questo massiccio impegno militare, che contraddice la strategia di Barack Obama e di David Cameron ed è molto impopolare sul piano interno. E’ peraltro impossibile che questo mancato impegno di America, Francia e Gran Bretagna venga sostituito da contingenti militari di paesi islamici o africani.

Dal punto di vista numerico Turchia, Egitto, Ciad, Arabia Saudita ed Emirati del Golfo, Niger e Nigeria potrebbero forse mobilitare un’armata di 50 mila unità. Ma è escluso che possano essere unificate in un comando unico, date le politiche non solo divergenti, ma addirittura antagoniste che contrappongono l’uno all’altro paese sia in Libia sia in medio oriente. A fronte della probabile indisponibilità di un consistente impegno militare dell’ occidente, l’unica via praticabile sarebbe quindi attestarsi su una linea puramente difensiva che comporterebbe l’abbandono della Libia a se stessa, consolidando sine die la sospensione dell’approvvigionamento energetico, nell’attesa che le disastrose dinamiche libiche si dispieghino. Producendo come esito il certo impianto di un Califfato forte sulle sponde del Mediterraneo. Soluzione non eroica, ma obbligata, a fronte di un probabile diniego Nato.

Desta preoccupazione però la sensazione – stando alle parole dei responsabili del nostro governo – che l’Italia, dando per scontato questo disinteresse degli alleati e della Nato, ipotizzi una terza via. Una strada mediana tra il disimpegno totale e l’intervento bellico massiccio: l’invio di un mini contingente militare in Libia, previa autorizzazione Onu, calibrato su un apporto italiano di cinquemila militari. Quindi, complessivamente ben inferiore alle 50 mila unità, come ordine di grandezza. Il suo compito, a quanto è dato da capire, ma non è ancora chiaro, sarebbe sempre quello di sostenere militarmente il governo legittimo di Tobruk, quindi di fatto di schierarsi a fianco delle “milizie di Zintan” e del loro alleato, l’esercito del generale Khalifa al Haftar, longa manus dell’Egitto.

Ma se l’Italia perseguisse questa strategia “legalitaria” e inerziale, incorrerebbe in un grave errore politico, si schiererebbe con forze politiche essenzialmente espressione della Cirenaica e renderebbe cronica e irrecuperabile la guerra civile con la Tripolitania (ma anche col Fezzan petrolifero). Lo stato di disgregazione politica e l’impotenza dei due “governi” libici è oggi tale che non è possibile scegliere un interlocutore privilegiato. Neanche se, come è il caso del governo di Tobruk, questo corrisponde, ma solo formalmente, agli standard internazionali e dell’Onu.

In linea teorica, sino a un mese fa – va detto – questa era forse un’opzione praticabile: significava ripulire la Cirenaica, imporre la vittoria militare del governo di Tobruk in quella regione e – forti di questo “arrocco” – imporre con la forza una mediazione con le forze islamiste (appoggiate da Turchia e Qatar) della Tripolitania. Ma l’irruzione vincente del Califfato in Tripolitania, sommata alla sua resistenza in Cirenaica, e la spietata contrarietà della Turchia a concedere all’Egitto un ruolo egemone in Libia rendono questa ipotesi impraticabile e miope. Nulla quaestio, naturalmente, se invece questo esiguo numero di soldati dovesse essere impegnato solo a difesa degli impianti petroliferi e quindi degli interessi nazionali dell’Italia e dell’Europa.

Ma allora questo limite difensivo e non risolutivo della crisi libica andrebbe enunciato e rivendicato. In conclusione, deve essere ribadita la totale sproporzione della capacità di dissuasione e persuasione di un eventuale mini contingente che arrivi a stento a 50 mila armati, nell’imporre una soluzione militare, e quindi politica, della intera, caotica, crisi libica. Sarebbe una strategia minimale, di cui si possono comprendere le ragioni, nel quadro dato, ma che esporrebbe il nostro paese al pericolo di impantanarsi in una palude libica che può essere sanguinosa. E soprattutto perdente.

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