Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/02/2015, a pag. I, con il titolo "La grande scommessa su Sisi", l'analisi di Daniele Raineri.
Daniele Raineri
Abdel Fattah Al Sisi
Il presidente egiziano Sisi è un fenomeno anomalo sulla scena perché è alleato di (quasi) tutti e intrattiene rapporti di calda amicizia con nazioni e interlocutori che tra loro sono nemici e si farebbero la guerra, ma che di lui hanno un giudizio unico e conforme: Sisi ci serve, lo sosteniamo, è il nostro baluardo contro l’islam violento.
Grazie a questo ruolo, il presidente egiziano sta flirtando con successo e nello stesso momento con i russi, con gli americani, con i sauditi, gli israeliani, i siriani, i francesi, gli italiani e altri – perché sa di essere stato investito del ruolo di grande stabilizzatore del mondo arabo. “O me oppure il capo dello stato islamico Al Baghdadi”, suona la sua canzone.
Abu Bakr Al Baghdadi
Altri prima di lui hanno tentato di far valere lo stesso schema obbligato in passato, non ha funzionato – ma erano altri tempi. Il Califfato oggi sta dispiegando il suo potenziale terrificante tra la Libia e il Kurdistan passando anche per l’Egitto e rende tutto molto più convincente. Per ora Sisi ha una grande apertura di credito, è da vedere cosa ne fa. Domenica era la vigilia della visita del presidente russo Vladimir Putin in Egitto e il giornale di stato al Ahram ha pubblicato una pagina intera con testo e carrellata di pose fotografiche titolata: “Putin… eroe di questo tempo”, che in arabo è “Butin… batal min adha azzaman”, dove Putin diventa “Butin” perché gli arabi confondono la lettera p con la b – e questo fa venire in mente la vecchia barzelletta di Hosni Mubarak che torna da una visita americana a Washington e dice ai suoi che là il nome del presidente americano è stampato sopra tutte le maniglie di tutte le porte: “Bush”.
Il mattino dopo, lunedì, l’Egitto tributa al Batal russo il massimo degli onori. Le guardie a cavallo scortano la limousine presidenziale tra le vie del Cairo, tappezzate di suoi ritratti con giganteschi “Welcome” scritti soprattutto in inglese – in modo che il messaggio sia chiaro al mondo intero. Putin arriva al palazzo presidenziale di Qasr al Qobba salutato da ventuno cannonate d’onore e da duecento scolaretti festanti, ascolta stringendo la mascella mentre la banda militare esegue una versione disastrosa dell’inno nazionale russo, al limite dello sperimentalismo cacofonico, regala al presidente egiziano un fucile d’assalto kalashnikov estraendolo dalla custodia sagomata, e l’altro ha l’aria di gradire molto – cosa che scatena le ironie dei corrispondenti esteri (le ironie dei corrispondenti esteri contano meno che zero e svaporano presto su Twitter, va notato). Alla sera i due cenano assieme all’interno della vetrata discoidale in cima alla Cairo Tower, con vista a perdita d’occhio sulla megalopoli araba.
Putin e Sisi annunciano assieme accordi importanti tra i due paesi. La Russia aiuterà l’Egitto a costruire il primo reattore nucleare a Dabaa e forse dopo quello altri tre. C’è in programma di creare una zona di libero scambio tra l’Egitto e l’Unione eurasiatica (una lega di nazioni ex sovietiche) e questo dovrebbe incrementare il traffico economico con Mosca – già cresciuto dell’ottanta per cento tra il 2013 e il 2014, dice Putin.
I due confermano un accordo sulle armi di cui si era parlato a novembre: il Cairo sta per acquistare tre miliardi e mezzo di dollari in armi da Mosca. Quello che colpisce durante la visita sontuosa del russo è ciò che intanto succede intorno, poco notato, ai margini del campo visivo. La settimana prima erano uscite le “tasribat” (i leaks), detti anche “Sisi leaks”, risalenti al 2014 – quando ancora non era presidente – in cui lui è intercettato mentre ride con altri generali egiziani su come mungere gli alleati arabi del Golfo, che di Sisi sono sempre stati i grandi finanziatori. “Ai sauditi digli che abbiamo bisogno di 10 miliardi di dollari, da depositare sui conti militari. Digli che quando se Dio vuole vincerò le elezioni quei soldi diverranno dello stato. E ne vogliamo anche dieci dal Kuwait e altri dieci dagli Emirati. Più un altro po’, da mettere nella Banca centrale per fare quadrare il bilancio del 2014”. Quando un generale al telefono risponde che queste richieste provocheranno infarti alla corte saudita, lui ribatte: “Dai, tanto ne hanno un’infinità!”.
Lunedì, sia i sauditi sia il Kuwait hanno risposto alle tasribat con flemma assoluta, dicendo che a loro non importa, non badano a questi tentativi di rovinare i rapporti felici con il Cairo. Ai sauditi munifici la Russia di Putin non piace, due settimane fa il New York Times ha scritto che la loro decisione di tenere basso il prezzo del greggio potrebbe essere spiegata con il desiderio di far capitolare il leader russo – che appoggia la Siria di Bashar el Assad. Ma non dicono una parola sull’accoglienza favolosa al Cairo. Ieri Reuters ha scritto che l’Egitto sta per firmare in questi giorni un contratto “da cinque o sei miliardi di dollari” con la Francia per l’acquisto di caccia Rafale – che potrebbero servire nella vicina crisi in Libia – e di altra tecnologia da guerra.
Anche i francesi hanno i loro problemi con i russi, c’è la questione delle navi da guerra Mistral comprate da Mosca e ora ferme nei cantieri navali per colpa delle sanzioni internazionali e hanno problemi anche più gravi con Assad – sono stati gli unici europei pronti a partecipare alla campagna aerea punitiva poi interrotta all’ultimo minuto nell’agosto 2013. Ma considerano l’egiziano un alleato privilegiato.
Questa è la grande qualità di Sisi. Compra armi dalla Russia per più di tre miliardi di dollari, sta facendo la stessa cosa con la Francia per “forse quasi sette” miliardi di dollari e ha rapporti così buoni con gli stati del Golfo che quelli scrollano le spalle quando escono delle intercettazioni ingiuriose. Washington aveva minacciato di interrompere gli aiuti militari per un miliardo e mezzo di dollari l’anno, ma poi li ha fatti ripartire. Se questo fosse un giornale di stato stampato in Egitto, quelli dove i toni rischiano sempre di slittare verso l’iperbole, il titolo potrebbe essere: il presidente Sisi, l’eroe dei due mondi. I due mondi sono le due grandi joint venture ideologiche e avversarie di questi anni che vedono da una parte Russia- Iran-Siria-Venezuela-Repubbliche popolari del Donbass-Marine Le Pen-Matteo Salvini e via scalando, e dall’altra America- grandi paesi europei-sauditi e altri regni del Golfo-Israele-governo ucraino-partiti europei di centrodestra e centrosinistra assortiti (può essere che qualcuno sia rimasto fuori da queste due liste, ma il concetto si è capito).
L’esistenza di questi due fronti ideologici è la ragione per cui è probabile che a un militante di Forza nuova preso a campione piacciano a pelle l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich, il presidente siriano Bashar el Assad e quello venezuelano Nicolás Maduro: perché li percepisce confusamente ma a ragione nello stesso cesto (nota: si tratta soltanto di un esempio). Ebbene, di questi mondi contrapposti Sisi è l’unico comune denominatore, il campione. E’ appena uscita un’intervista sul giornale tedesco Spiegel che spiega perché. I due giornalisti, Dieter Bednarz e Klaus Brinbaümer, tentano di fare ammettere al presidente egiziano che lui è salito al potere con un colpo di stato e che è stato particolarmente violento contro le proteste dei Fratelli musulmani. – Voglio dire prima di tutto quanto ammiriamo la Germania per la sua perfezione, per la sua disciplina.
Nella nostra passione per la Germania capiamo anche che voi avete capito male gli eventi accaduti qui perché siete stati influenzati dalla Fratellanza musulmana. La Fratellanza è riuscita a manipolare l’opinione pubblica. – Non può dare la colpa di tutte le critiche alle manipolazioni. – Sono qui seduto con voi oggi in modo che la Germania possa capire meglio cosa è davvero accaduto qui. Vorrei vedere la Germania e tutto l’occidente al nostro fianco: se l’Egitto è stabile, allora anche l’Europa è stabile. […] – Qual è la minaccia più grande: lo Stato islamico o la Fratellanza musulmana? – Condividono la stessa ideologia: ma la Fratellanza musulmana è all’origine di tutto. Tutti gli altri estremismi emanano da essa. – Suona come se lei volesse dire che l’Egitto sarebbe sopraffatto dal terrorismo se non fosse per la sua presenza. Gli egiziani hanno una scelta alternativa a lei? – Non ricoprirei mai quest’incarico contro il volere del popolo. La mia etica e il mio patriottismo me lo impedirebbero. […] – Al Forum economico di Davos due settimane fa lei ha incontrato il cancelliere Angela Merkel per la prima volta. Il cancelliere l’ha già invitata tempo fa. Sta pensando a una visita in Germania? – Si, è in programma. Quando ero un giovane ufficiale sono stato in Germania in numerose occasioni. So che la vostra patria è un paese meraviglioso. – E’ vero che il cancelliere l’ha definita “un’àncora di stabilità”? – Sì, ma per essere precisi: non stava parlando di me, stava parlando dell’Egitto: un’ancora di stabilità nella regione. (Sisi incassa lo stesso apprezzamento da Merkel e da Putin nel giro di due settimane).
Sisi ha preso due importanti decisioni di guerra nelle ultime settimane. Ha creato un comando militare unificato nel Sinai e ha promesso un miliardo e trecentomila dollari di fondi per lo sviluppo della penisola, che è tra le aree più derelitte dell’Egitto. Sull’Atlantic Council si spiega che la struttura dell’esercito egiziano era rimasta ferma al 1968 e che è inadeguata a combattere contro la guerriglia islamista che sta colpendo nel Sinai – l’ultima ondata di attacchi simultanei ha fatto trenta morti. Dopo la sconfitta contro Israele nel 1967, il Cairo aveva piazzato due corpi d’armata diversi a sorvegliare oltre il Canale di Suez, ma non funziona più, gli egiziani che combattono per Baghdadi non rispettano le divisioni burocratiche e artificiali di quarant’anni fa, si spostano, infliggono perdite.
La nuova spartizione del territorio dovrebbe in un solo gesto riconoscere il problema e risolverlo. E intanto, al confine con la Striscia i militari continuano a lavorare alla creazione di una terra di nessuno che isolerà Gaza più di quanto già fanno gli israeliani sugli altri lati.
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