Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/02/2015, a pag. 39, con il titolo "Califfato, la barbarie invisibile che vuole renderci tutti sudditi", la recensione di Elisabetta Rosaspina al libro di Domenico Quirico sul Califfato islamico; dalla REPUBBLICA, a pag. 47, con il titolo " 'Ecco il vero Houellebecq', parola di Charlie", la recensione di Anais Ginori al libro di Bernard Maris su Michel Houellebecq.
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Elisabetta Rosaspina: "Califfato, la barbarie invisibile che vuole renderci tutti sudditi"
Elisabetta Rosaspina Domenico Quirico
Il grande Califfato (Neri Pozza)
Sulla copertina del libro, una mappa mostra i confini del Grande Califfato . Per dimensioni, più che per disposizione geografica, ricorda l’insaziabile espansionismo transcontinentale di imperi scomparsi, come l’ottomano o, ancor prima, quello romano. Una chiazza nera dilaga compatta dalla Spagna all’Asia, inglobando i Balcani e il Medio Oriente e scendendo ben più a sud della penisola araba, come una mantella nera che copre la metà superiore dell’Africa. Ne fa parte tutto il Mediterraneo, con l’esclusione — magari soltanto provvisoria — delle coste francesi e italiane. Agli occhi di un medico potrebbe apparire forse come una radiografia, con le ombre scure di una diffusa metastasi.
Agli occhi di un giornalista, come Domenico Quirico, quella è la fetta di mondo che il «califfo» sogna di rendere invisibile. Invisibile e impenetrabile agli «infedeli impuri», cioè più o meno al resto del pianeta. Un delirio? In parte, è un progetto già realizzato: «Ci sono Paesi come la Siria, la Libia, parte dell’Iraq, ma anche l’Afghanistan, il Nord della Nigeria o del Mali, dove non sappiamo più che cosa stia accadendo, semplicemente perché i giornalisti indipendenti non vi hanno accesso» osserva Quirico, l’inviato speciale de «La Stampa» per cinque mesi prigioniero di Jabhat al-Nusra e di altri gruppi armati in Siria, nel 2013. Fu in quel periodo che il reporter italiano sentì parlare, per la prima volta, di quell’ipotetico regno del tiranno islamico che allietava le menti dei suoi carcerieri e aguzzini: Il Grande Califfato . Che dà il titolo al suo nuovo libro, pubblicato in queste settimane da Neri Pozza.
Quirico raccontò ciò che aveva udito appena rimise piede in Italia, dopo la sua liberazione, ma le sue informazioni furono accolte da increduli sorrisi: come si poteva prendere sul serio, negli anni Duemila, lo sproposito di restaurare un «Califfato»? Un territorio governato da una specie di sultano, magari come quello di Iznogoud (in italiano Gran Bailam), il gran visir da fumetto inventato da René Goscinny, con il sogno di «essere califfo al posto del califfo». Un anno e mezzo più tardi, però, riesce difficile ironizzare sulle metastasi della barbarie che apre e chiude, a suo piacimento, le finestre del terrore. «Da quelle aree ormai le uniche notizie che arrivano — commenta Quirico — sono voci incontrollate e incontrollabili oppure i video della pura propaganda autoprodotta. Mi piacerebbe poter andare a Mossul, nel Nord dell’Iraq, a vedere e raccontare come vive la gente ai tempi del Califfato. Come è cambiata la vita quotidiana dei suoi abitanti sotto il regime dell’Isis. Non se ne sa nulla».
Non si sa nulla della società civile siriana, che in qualche modo sta cercando di sopravvivere allo scempio di ogni speranza di libertà: «Sì, forse, il poco che ne rimane. Non so se esistano ancora luoghi sociali in Siria e comunque non si può andare lì ad ascoltare. L’obiettivo del Califfato è abolire gli Stati. Il problema di uno Stato palestinese, che ha mobilitato l’Islam per più di mezzo secolo, scomparirà, perché lo scopo della jihad è di renderci tutti sudditi del sultano». Si sa poco anche dell’autoproclamato «emiro» e del suo stato maggiore: «Abu Bakr al-Baghdadi? Non sappiamo con sicurezza nemmeno quando è nato né come si sia sviluppata la sua biografia. I comandanti sono figure quasi completamente ignote. Sappiamo soltanto che, per loro, noi siamo animali da sgozzare».
L’autore non lascia spiragli di speranza nelle 234 pagine in cui descrive quel che ha potuto vedere, intravedere o intuire, negli ultimi anni, dell’avanzata di queste truppe disumane, dove si mescolano etnie, lingue, culture diverse, dai somali ai ceceni, dai nigeriani di Boko Haram agli specialisti iracheni rodati da Saddam Hussein, dai salafiti tunisini fino agli europei, fuoriusciti dalla civiltà per vincere la loro jihad oppure morire. È un viaggio, con una macchina fotografica dentro la mente, per catturare e conservare ogni prezioso particolare dagli abissi del fanatismo. Così ricorrente, nella sua ottusa crudeltà, a qualunque latitudine dove prosperi chi crede davvero che Dio possa ordinare di uccidere.
LA REPUBBLICA - Anais Ginori: 'Ecco il vero Houellebecq', parola di Charlie"
Anais Ginori Bernard Maris Michel Houellebecq
Houellebecq economista (Bompiani)
I libri, a volte, appaiono come sinistri presagi. Nella patria del romanzo, i posteri ricorderanno Sottomissione , in cui Michel Houellebecq immagina una Francia governata da un partito islamico e che nel giorno dell’uscita in libreria, il 7 gennaio 2015, è finito suo malgrado al centro della strage di Charlie Hebdo . Il giornale satirico aveva dedicato la copertina proprio al libro di Houellebecq. La riunione di redazione era iniziata con accese discussioni sul valore del romanzo. Insieme ai vignettisti Charb, Cabu, Tignous, Honoré, c’era anche Bernard Maris, economista dissidente, da tempo amico del romanziere. A lui aveva appena dedicato un libro: l’altro tassello di questa storia insensata.
Autore di molti saggi contro l’ortodossia del liberalismo che ci governa, Maris aveva pubblicato a settembre un pamphlet, Houellebecq economista, ora tradotto da Bompiani: una preziosa reliquia per capire quanto pensiero, e non solo vita, ci possa essere in una stanza di giornale. Maris era un veterano di Charlie Hebdo , ne aveva diretto per qualche anno la redazione, possedeva azioni della piccola cooperativa. «Sono profondamente colpito, è la prima volta che un mio amico viene assassinato », ha detto Houellebecq dopo l’attentato. Il romanziere è andato ai funerali di Maris, senza proferire parola. Emmanuel Carrère, che pure conosceva l’economista, ha ricordato invece la sua «faccia da attore americano» e i suoi silenzi «in cui potevi sentirti a tuo agio».
Di certo, Maris non poteva prevedere che nella sua ampia bibliografia l’ultimo libro sarebbe stato quello dedicato all’ enfant terrible della letteratura francese. Un saggio che appare come una provocazione sin da titolo. «Fare di Houellebecq un economista sarebbe vergognoso come assimilare Balzac a uno psico-comportamentalista », premette Maris che fa del romanziere il più efficace censore dell’approccio “quantificante” del nostro tempo. «Se la sofferenza dei protagonisti di Dostoevskij è legata alla morte di Dio — nota nel saggio — quella dei protagonisti di Houellebecq nasce dalla violenza perpetua del mercato». «Houellebecq economista» è insomma una battuta, ammette l’autore, «per svelare la triste morale e il pugno di ferro dissimulati sotto gli orpelli di una scienza». Maris è profondamente convinto che l’economia non sia una scienza, e neppure un insieme di teorie esatte, con le quali analizzare il presente o, peggio, decifrare il futuro.
L’autore paragona gli oracoli del nostro tempo ai “casuisti”, i gesuiti raziocinanti descritti nei Provinciali, che sarebbero della stessa «genia nociva e ragionatrice » destinata all’estinzione. «Senza l’opera di Houellebecq, nessuno si ricorderà più dell’economia e di quegli strani casuisti che saranno stati gli economisti ». Maris sostiene che nessuno meglio del romanziere sia arrivato a cogliere «la cancrena economica che pervade la nostra epoca». Certo, riconosce l’economista, in molti grandi romanzi si parla di ambizione, crudeltà, egoismo, passione, soldi, successi e fallimenti. «Ma nessuno ha sorpreso la piccola musica economica, il sottofondo sonoro da supermercato che, con le sue note lancinanti e scialbe, inquina la nostra esistenza».
E così tutti romanzi dello scrittore francese vengono riletti come critica della ragion economica. Estensione del dominio della lotta parla del liberalismo e della concorrenza, Le particelle elementari del regno dell’individualismo assoluto e del consumismo, Piattaforma dell’utile, dell’inutile, della domanda e dell’offerta di sesso. Per capire la società postcapitalista che ha realizzato il fantasma di quegli “eterni kids” che sono i consumatori, prosegue Maris, bisogna leggere La possibilità di un’isola. Pur rimanendo nell’ambito della fiction, è possibile ritrovare nella narrativa di Houellebecq citazioni di Marx, Malthus, Schumpeter, Smith, Marshall, Keynes. Il romanziere parla di concorrenza, di distruzione creatrice, di produttività, di lavoro parassitario e di lavoro utile, di denaro. «E ne parla meglio degli economisti perché è uno scrittore», sottolinea Maris. «Ciascuna delle sue opere filtra e purifica tonnellate di documenti accatastati in migliaia di “dotte” biblioteche».
Il colpo di fulmine letterario è avvenuto per Maris con Estensione del dominio della lotta in cui Houellebecq tratteggia gli abissi della “cultura d’impresa”. Ma la rivelazione, continua l’autore, è La carta e il territorio. «Un grande romanzo d’amore, come tutti i romanzi di Houellebecq, ma anche una sottile analisi del lavoro, dell’arte, della creazione, del valore, del progresso, dell’industria». Maris cita il personaggio di Hélène, professoressa di economia all’università e consapevole, come scrive Houellebecq, di «insegnare assurdità contraddittorie a cretini arrivisti ». Maris era un intellettuale atipico, amico di giornalisti e scrittori, chiamato a recitare se stesso nel film Socialisme di Jean-Luc Godard. Prima di altri aveva previsto la crisi finanziaria e l’implosione dell’eurozona. La sua analisi si inserisce nella continuità di economisti “storicisti”, da Marx in poi, per criticare il mito liberale dell’equilibrio che nascerebbe dal gioco della domanda e dell’offerta. È stato uno strenuo difensore di Keynes, al quale ha dedicato un libro, perché «è il solo economista che collocava l’arte e la letteratura al di sopra di tutto, e in particolare degli imprenditori che trattava con ironia: non sono riusciti a essere degli artisti».
Nel saggio, Maris cita la frase che Houellebecq scrive in Piattaforma: «Il capitalismo è per principio uno stato di guerra permanente, una lotta perpetua che non può finire mai». Un “pensiero quantificante”, che ci fa ragionare in termini di management, collocamento, pensione, crescita, pubblicità, concorrenza «fino a roderci il cervello e renderci pazzi», osserva Maris. Siamo immersi nell’“individualismo metodologico”. «Ci percepiamo, in nome dell’economia, come atomi, autonomi pensanti, e così vivono i personaggi di Houellebecq, in una solitudine assoluta ». Un processo di “atomizzazione della società”, termine usato dal romanziere in Particelle elementari, che a suo tempo, ricorda Maris, aveva affascinato Marx. L’economia è pensiero dominante ma, spiega l’autore, «per comprendere la vita, gli economisti non smettono di togliervi il sale, l’amore, il desiderio, la violenza, la paura, il terrore, in nome della razionalità dei comportamenti».
Alla fine di tutto, avverte Maris, si crea una falsa coscienza che potrebbe far pensare che ci sono più buoni tra i poveri che cattivi tra i ricchi. E invece, prosegue l’autore, la violenza è peggiore in basso alla società che in alto. «Non ci sono vittime sociali — conclude — Ci sono dei boia e delle vittime. E ci sono quelli che meritano di sopravvivere». Maris è morto a sessantotto anni. Houllebecq “sopravvive” in uno strano incrocio di destini. I libri, per fortuna, restano.
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