Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 06/02/2015, a pag. 9, con il titolo "Quella coalizione che non decolla: il Califfato ferito, ma non arretra", l'analisi di Maurizio Molinari.
A destra: peshmerga curdi combattono contro i terroristi dello Stato Islamico
Maurizio Molinari
A sei mesi dall’inizio dei raid aerei contro lo Stato Islamico (Isis) la coalizione guidata dagli Usa registra defezioni di alleati e scarsi risultati con l’eccezione del successo di Kobani, ottenuto dai peshmerga curdi. Alla radice della debolezza c’è l’assenza di truppe di terra capaci di liberare i territori di Siria e Iraq dove i jihadisti hanno edificato il Califfato.
Defezioni alleate
Gli Emirati Arabi Uniti sono il primo partner che abbandona la coalizione. Il motivo formale è la «necessità di perfezionare le missioni di soccorso per recuperare militari in zona di guerra» con un riferimento evidente all’episodio del pilota giordano, caduto a fine dicembre in Siria e catturato da Isis. È un’obiezione condivisa da Arabia Saudita, Bahrein e Qatar che partecipano in Siria - come dal Marocco che vola sull’Iraq - ma le cui missioni complessive sono però inferiori al 5 per cento del totale, ovvero simboliche. A conti fatti l’unico alleato arabo che davvero partecipa ai raid è la Giordania di re Abdullah.
Raid poco efficaci
Il Pentagono è restio a diffondere le statistiche dei raid ma ammette che il 90 per cento delle missioni è condotta da aerei Usa con la Gran Bretagna al secondo, distante, posto con 100 decolli ovvero «un numero incredibilmente basso» come recita un rapporto del Parlamento britannico. L’ambasciatore Usa a Baghdad, Stuart Jones, afferma che gli attacchi hanno eliminato almeno 6000 jihadisti: sulla carta dovrebbe essere un numero considerevole visto che per la Cia il totale degli effettivi dello Stato Islamico è di 30-40 mila. Ma si tratta in realtà di un danno limitato perché l’antiterrorismo Usa e Ue valuta che ogni mese arrivino a Isis, attraverso la Turchia, mille volontari stranieri grazie ai quali è facile rimpiazzare le perdite. La coalizione non è inoltre riuscita a eliminare i leader di Isis ed è a corto di obiettivi perché i comandanti del Califfo adottano tattiche da guerriglia disperdendo le truppe, creando posti di comando nelle case e muovendosi su mezzi civili.
I peshmerga
Per l’ex generale Usa John Allen, a capo delle attività della coalizione, in quasi 180 giorni di raid la coalizione è riuscita a far arretrare Isis appena dall’1 per cento dei circa 250 mila kmq che controlla. L’unico successo visibile è stato ottenuto in gennaio nella città siriana di Kobane dove, dopo quattro mesi di aspri combattimenti, i peshmerga curdi hanno prevalso sui jihadisti. Si è trattato di una battaglia di terra dei curdi siriani, sostenuti dai curdi iracheni arrivati via Turchia e da centinaia di raid alleati, dimostrando che la coalizione per fare progressi ha bisogno di truppe in campo. Dopo Kobane, i peshmerga hanno ripulito le zone circostanti dai jihadisti di Isis e, in Iraq, hanno accresciuto l’offensiva su Mosul, avvicinandosi alle periferie. Mosul è il maggiore centro urbano del Califfato in Iraq e Isis, nel tentativo di allentare la pressione, ha attaccato negli ultimi giorni i curdi a Kirkuk.
Curdi festeggiano la liberazione di Kobane
Tenaglia su Mosul
Se i curdi premono su Mosul e gli aerei giordani mercoledì notte hanno colpito i comandi Isis nella stessa città è perché il Pentagono vuole indebolire le difese cittadine del Califfo in vista dell’offensiva di primavera. A lanciarla dovrebbero essere le truppe irachene. I 2900 soldati Usa inviati da Barack Obama servono ad addestrare contingenti di unità speciali irachene in due ex basi di Saddam Hussein a Nord di Baghdad. Il piano del generale Lloyd Austin, che da Tampa guida le operazioni anti-Isis, è di convergere su Mosul da due fronti: i curdi da Nord e gli iracheni da Sud, con il massiccio sostegno di raid aerei. Nella convinzione che una vittoria aprirebbe la strada alla riconquista, nei mesi estivi, del Nord dell’Iraq.
Carenza truppe di terra
Ciò che indebolisce i piani del Pentagono, spiega l’analista militare Max Boot, è fare affidamento su truppe irachene di scarsa qualità e su reparti di peshmerga carenti di armi pesanti. Ciò che manca di più alla coalizione sono i contingenti di terra che Washington, sin dall’estate, ha chiesto di impegnare a Turchia e Paesi arabi. Il Parlamento di Ankara ha votato l’autorizzazione all’intervento ma il presidente Erdogan lo ha bloccato, chiedendo in cambio a Washington di essere lui a guidare le operazioni militari in Siria. I Paesi arabi che avrebbero truppe da inviare - dall’Egitto alla Giordania fino all’Arabia Saudita - esitano temendo di impantanarsi.
Il fattore Iran
L’Iran sciita gioca una partita militare propria. Fornisce armi e istruttori a Baghdad, ha creato un canale diretto con i peshmerga e dispone di unità paramilitari proprie in Iraq. Ma le sue attività anti-Isis - inclusi raid aerei - si limitano a Dyala, la provincia confinante, a difendere Baghdad e le città sante di Najaf e Kerbale. Finora non ha fatto nulla per indebolire il Califfo nel Nord e nell’Ovest dell’Iraq perché Isis spacca il fronte sunnita, proprio rivale strategico nel Golfo Persico.
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