Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 05/02/2015, a pag. 3, con il titolo "Obama ha una strategia per l'Iran, si chiama appeasement", l'analisi di Michael Doran.
Michael Doran Barack Obama
L'inaccorto prestigiatore Obama nelle fauci del leone Iran
Il presidente Barack Obama augura alla Repubblica islamica dell’Iran ogni bene. I suoi leader, ha spiegato in una recente intervista, sono a un bivio. Possono scegliere di continuare con il loro programma nucleare, cioè di continuare a trasgredire le indicazioni della comunità internazionale isolando ancora di più il loro paese; oppure possono accettare limitazioni alle loro mire nucleari per inaugurare un’èra di relazioni pacifiche con il resto del mondo. “Hanno la possibilità di spezzare l’isolamento e dovrebbero approfittarne – ha detto il presidente – se lo faranno, ci sono risorse e talenti incredibili dentro l’Iran, e sarebbe una potenza regionale di successo”. Quanto è ansioso Obama che l’Iran spezzi l’isolamento e diventi una potenza regionale di successo? Molto. Un anno fa, Benjamin Rhodes, viceconsigliere per la Sicurezza nazionale e membro chiave dell’inner circle del presidente, ha dato una buona notizia a un amichevole gruppo di attivisti del Partito democratico.
L’accordo nucleare fra Teheran e il 5+1 – i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania – rappresentava, ha spiegato, non solo “la migliore opportunità che abbiamo per risolvere la disputa nucleare iraniana”, ma “probabilmente la più grande conquista in politica estera del secondo mandato”. Per l’Amministrazione, ha sottolineato Rhodes, “questo è come la riforma sanitaria”. “Stiamo già pensando a come strutturare un accordo in modo da non avere necessariamente bisogno di un’azione legislativa immediata”. Perché questo bisogno di aggirare il Congresso? Rhodes non aveva bisogno di molte spiegazioni. Come il presidente stesso ha notato, “c’è ostilità e sospetto verso l’Iran, non solo fra i membri del Congresso ma fra la gente” (…). Per il presidente, meno sappiamo dei suoi progetti in Iran, meglio è. Eppure questi progetti, come ha spiegato Rhodes, non sono una componente minore o accidentale della sua politica estera.
Al contrario, sono centrali nel pensiero strategico di quest’Amministrazione quando pensa al ruolo dell’America nel mondo, specialmente in medio oriente. E questo è vero fin dall’inizio. Nel primo anno della presidenza, un funzionario di alto livello ha detto a David Sanger del New York Times: “Ci sono stati più incontri alla Casa Bianca sull’Iran che sull’Iraq, l’Afghanistan e la Cina. E’ il dossier su cui ha passato più tempo e di cui ha parlato meno in pubblico” (…). L’inesperienza è un problema di questa Amministrazione, ma non manca una visione strategica. Al contrario, una strategia è stata delineata dall’inizio, e per quanto sia stata implementata in modo maldestro, Obama ha tenuto fede alle politiche che scaturivano da quella visione. Quella che segue è una ricognizione delle più importanti fra queste politiche e del loro contributo al tentativo del presidente di incoraggiare l’Iran elevandolo a potenza regionale di successo, amica e partner degli Stati Uniti.
Primo round
Se nell’èra Bush l’America si è comportata come uno sceriffo che guidava una coalizione alla ricerca di mostri, nel mondo di Obama l’America disarma i rivali invischiandoli in una rete di collaborazioni. Per liberare il mondo da tiranni e stati canaglia bisogna accettarli e ammorbidirli. (…) Come s’applica questo principio al caso dell’Iran? Durante gli anni di Bush si è diffuso un complicato mito secondo cui i mullah di Teheran avrebbero offerto un “grand bargain”, un accordo su tutti gli aspetti, dalla sicurezza regionale alle armi nucleari. L’inflessibile Bush, tuttavia, aveva rifiutato la mano tesa iraniana, sprecando l’opportunità di normalizzare le relazioni con l’Iran e di portare ordine in tutto il medio oriente. Obama ha basato la sua politica di avvicinamento su due premesse fondamentali di questo mito del “grand bargain”: che Teheran e Washington fossero alleati naturali, e che Washington fosse la causa principale dell’inimicizia. Se soltanto gli Stati Uniti adottassero una postura meno belligerante, proseguiva il ragionamento, l’Iran farebbe altrettanto (…). Facendo eco al suo discorso inaugurale, Obama ha detto: “Se paesi come l’Iran intendono schiudere il pugno troveranno la nostra mano tesa”. Purtroppo, la Guida suprema, Ali Khamenei, ha ignorato l’invito. Cinque mesi più tardi, nel giugno 2009, all’alba della protesta verde, il suo autoritario pugno era ancora chiuso. I manifestanti, assetati di riforme democratiche e infuriati per i brogli, hanno chiesto aiuto a Obama. Lui ha risposto tiepidamente, con modeste dichiarazioni di sostegno mentre menteneva una posizione di neutralità. Inimicarsi Khamenei, dopo tutto, avrebbe potuto distruggere il sogno di una nuova èra nelle relazioni fra Stati Uniti e Iran.
Secondo round
All’inizio del 2013 Obama ha messo in piedi un canale bilaterale segreto con il regime di Ahmadinejad. Il momento della svolta nelle relazioni fra America e Iran non è, come recita la versione ufficiale, l’elezione di Hassan Rohani nel giugno del 2013, ma la rielezione di Obama nel novembre 2012. Il primo incontro segreto con gli iraniani è avvenuto 11 mesi prima dell’avvento di Rohani. Nell’aprile dello stesso anno gli americani e i loro alleati hanno incontrato i negoziatori iraniani in Kazakistan, e hanno offerto loro di allentare le sanzioni in cambio della distruzione dell’uranio già arricchito al 20 per cento. Anche più importante era la seconda concessione, che permetteva all’Iran di arricchire uranio fino al 5 per cento, nonostante il Consiglio di sicurezza dell’Onu avesse ordinato di sospendere tutte le attività di arricchimento. Gli iraniani hanno intascato le due concessioni e hanno chiesto un terzo regalo, il “diritto di arricchire”. Se Obama voleva un accordo, avrebbe dovuto fare pressione sul Consiglio di sicurezza per inserire nella risoluzione il diritto perpetuo degli iraniani di arricchire uranio. (…) Esagerando la percezione di uno spirito riformista dell’Iran, la Casa Bianca ha presentato l’accordo come una concessione fatta dall’Iran e non dall’America.
Terzo round
Obama ha scambiato concessioni permanenti degli americani con temporanei gesti di avvicinamento. I più importanti di questi gesti erano lo smaltimento dell’uranio al 20 per cento, la rinuncia a nuove centrifughe e il congelamento della costruzione del reattore di Arak. Tutti e tre i gesti, tuttavia, possono essere facilmente revocati. Al contrario, gli americani hanno dichiarato il diritto di arricchire degli iraniani e hanno accettato il principio per cui tutte le limitazioni al programma nucleare iraniano sono temporanee e reversibili. Queste due concessioni sono entrate nella posizione ufficiale del 5+1, difficilmente saranno modificate (…). Obama ha ripetuto spesso che l’accordo ha “fermato” il programma nucleare iraniano, ma l’accordo in realtà ha congelato soltanto le azioni degli americani, non quelle dell’Iran. Per esempio, gli scienziati iraniani stanno perfezionando le tecniche di arricchimento sulle vecchie centrifughe, visto che il “freeze” riguarda solo l’installazione di nuove. E grazie a un cavillo dell’accordo che permette loro di lavorare ai reattori per “ricerca e sviluppo” gli scienziati si stanno impratichendo anche sulle centrifughe nuove. Il programma nucleare sta andando avanti (…).
In quanto a ideologia e strategia, Obama crede che integrare l’Iran nel sistema economico e diplomatico sia un modo più efficace per moderare l’aggressività nel fare pressione. Contrariamente a ogni logica e a tutte le prove accumulate dall’accordo del 2013, Obama crede che questo metodo stia funzionando (…). Forse il presidente ha ragione. Forse la globalizzazione levigherà l’Iran come le onde dell’oceano smussano le conchiglie taglienti. Se è così, però, questo avverrà in tempi oceanici. Nel frattempo i navigati briganti di Teheran che Obama ha elevato al rango di partner nel suo nuovo ordine mondiale sono più forti e più decisi. Con minimi sacrifici dei loro interessi, non solo hanno ottenuto i benefici economici e diplomatici previsti dall’accordo, ma mantengono anche le loro ambizioni nucleari e i mezzi per perseguirle. Avendo il sostegno della più grande potenza del mondo nella loro traiettoria verso il successo, hanno buone ragioni per essere fiduciosi.
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