Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 15/01/2015, a pag. 18, con il titolo "Non fa satira ma incita all'odio: bisogna fermarlo", l'intervista di Anais Ginori a Gilles Van Kote, direttore di Le Monde; dalla STAMPA, a pag. 21, con il titolo "Perché la Francia non difende Dieudonné", il commento di Cesare Martinetti; dal CORRIERE della SERA, a pag. 38, con il titolo "Libertà di parola anche per Dieudonné", il commento di Pierluigi Battista.
L'informazione italiana oggi è tutta in difesa dell' "umorista" Dieudonné. L'unica, isolata voce fuori dal coro è quella di Gilles Van Kote, direttore di Le Monde intervistato da Anais Ginori sulle pagine di Repubblica.
La libertà di opinione è un principio da difendere, ma non tutto quello che può essere pensato rientra in questa categoria. Il fascismo, per esempio, non è un'opinione, e infatti l'apologia di fascismo in Italia è giustamente considerata reato. Lo stesso discorso vale per l'antisemitismo, elemento costitutivo del fascismo stesso. Per questo è ben diversa l'ironia - anche grottesca - sulle religioni, come quella di Charlie Hebdo, e la presunta libertà di poter esprimere opinioni antisemite e negazioniste come quelle di Dieudonné.
L'antisemita Dieudonné ha inventato la quenelle, un gesto che emula il saluto nazista
Ecco gli articoli:
LA REPUBBLICA - Anais Ginori: "Non fa satira ma incita all'odio: bisogna fermarlo"
Anais Ginori Gilles Van Kote
«La libertà di espressione ha un limite evidente: la legge ». Il direttore di Le Monde, Gilles Van Kote, ha aperto sulle colonne del giornale il dibattito intorno al fermo di Dieudonné e alla solidarietà manifestata invece ai vignettisti di Charlie Hebdo . «Ci sono ovviamente molte differenze tra le persone coinvolte, anche alla luce dei tragici eventi della settimana scorsa » nota Van Kote. «Ma nel momento in cui vogliamo difendere un principio, dobbiamo anche domandarci quali sono i suoi confini».
Fin dove si può arrivare? «In Francia ci sono leggi che puniscono l’incitamento all’odio razzista, l’antisemitismo e l’apologia del terrorismo. Dieudonné ha infranto diverse volte queste leggi in passato. E’ recidivo. Nel momento in cui si dichiara solidale con un terrorista il suo fermo sembra piuttosto giustificato ».
Dieudonné si giustifica dicendo che sono battute, è umorismo. «C’è una differenza tra fare battute sugli ebrei e incitare all’antisemitismo. Gli ebrei per primi scherzano tra di loro, sono un popolo con humor. Se l’ironia sconfina nell’odio o nel negazionismo allora si infrange la legge. Nel caso della presunta battuta su Coulibaly il reato è ancora più evidente».
L’ironia di Charlie è diversa? «Nel nostro paese non esiste il reato di blasfemia. Per le vignette di Maometto è difficile parlare di incitamento all’odio razzista, a meno di non considerare i musulmani un gruppo etnico. Charlie Hebdo ha avuto diversi processi in passato ma per altri reati, soprattutto la diffamazione ».
Oltre al rispetto della legge, come direttore di giornale lei si pone altri limiti? « Le Monde non è giornale come Charlie. Non pubblichiamo commenti o vignette che ci sembrano inutilmente offensive della religione altrui. Il giorno dopo l’attacco al settimanale abbiamo ripubblicato una delle vignette di Maometto sotto accusa. L’abbiamo fatto, come la maggior parte dei giornali, perché era parte della notizia».
Nessun dubbio sul pubblicare la vignetta in copertina del nuovo Charlie ? «No. Tra l’altro mi sembra che vada nel senso giusto. Riesce miracolosamente a fare dell’ironia su una tragedia. Contiene una parola, perdono, in cui tutti i credenti si possono riconoscere. Il nostro vignettista Plantu ha disegnato i rappresentanti delle tre religioni monoteiste che tengono in mano questa copertina».
La minaccia del terrorismo rischia di provocare una forma di autocensura nei giornali? «E’ il rischio che corriamo, passata l’emozione di questi giorni. Ma non dobbiamo cedere e continuare a difendere la nostra identità, i nostri valori democratici e repubblicani sotto attacco».
Capisce alcuni giornali, come il New York Times , che hanno deciso di non ripubblicare la nuova vignetta di Charlie Hebdo ? «Il posto della religione negli Stati Uniti è indubbiamente diverso che in Francia. Noi non diremmo God Bless France. Siamo un paese laico da molto tempo e continueremo ad esserlo».
LA STAMPA - Cesare Martinetti: Perché la Francia non difende Dieudonné"
Cesare Martinetti
Siamo tutti Charlie, ma perché non siamo tutti Dieudonné? Nel giorno in cui il settimanale satirico torna in edicola dopo la carneficina del 7 gennaio ed esaurisce in poche ore milioni di copie, l’umorista viene arrestato per apologia di terrorismo. Aveva detto di sentirsi Charlie, ma si sentiva anche Coulibaly il killer del supermercato ebraico. E oggi, in Francia, non si scherza con le parole.
Un accostamento odioso, certo, la vittima sullo stesso piano del carnefice. Ma cosa voleva dire esattamente? Forse che anche Coulibaly è una vittima, il simbolo di una tragica parabola umana delle banlieue di oggi: un ragazzo francese di colore (come Dieudonné) che parlava male l’arabo e finisce nel tritacarne di criminalità-carcere-arruolamento-indottrinamento-assassinio-morte.
La strage di redattori e vignettisti di Charlie Hebdo ha messo in secondo piano il fatto che molte di quelle vignette erano ben al di là del buon gusto e del rispetto. Per tutti, ma soprattutto per gli arabi. Ha scritto ieri lo scrittore israeliano Shlomo Sand, «non erano caricature degli islamisti, ma un’assimilazione dell’islam al terrore, l’equivalente di disegnare Mosè come un usuraio e identificare gli ebrei con il denaro». Ma il tribunale di grande istanza di Parigi nel passato ha più volte riconosciuto il «diritto alla mancanza di rispetto e all’insolenza», una traduzione del principio volterriano dell’assoluta libertà di espressione.
Se n’è giovato anche Dieudonné (figlio di un camerunense e di una francese), one man show di successo al Theatre de la Main d’Or di Parigi, dove scherza su schiavitù, colonizzazione, deride la shoah e ha inventato il gesto della «quenelle», un saluto nazista alla rovescia. È il sigillo di un caricaturale rovesciamento di simboli che ha prodotto un fenomeno definito da «Le Monde» la «generation Dieudonné»: un’umanità postideologica di destra, sinistra, bianchi, neri, arabi, razzisti, antirazzisti, antisemiti... un miscuglio esplosivo, nello spirito dei tempi. Un’indecifrabile unità nazionale.
Ma ora è entrato in vigore un silenzioso e non dichiarato «patrioct act» alla francese, il riflesso della manifestazione di domenica che non è stata una generale riconciliazione nazionale, ma piuttosto la riconciliazione dei francesi con se stessi e la loro storia. Tra place Nation e République c’erano le istituzioni dei musulmani, non i musulmani. È stata «la vittoria di Vercingetorige» (cioè dei Galli...) ha detto l’intrattabile Dieudonné che in serata è stato rilasciato e ha potuto fare il suo spettacolo. La guerra di Francia – come l’ha definita il premier Manuel Valls – è appena agli inizi.
CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista: "Libertà di parola anche per Dieudonné "
Pierluigi Battista
Il comico Dieudonné è un essere spregevole, ma le società che non vogliono compromettere i princìpi della libertà di espressione devono consentire anche agli esseri spregevoli di dire la loro. Dieudonné non «pareggia» Charlie Hebdo , non è come i vignettisti del settimanale decimato dai fanatici ma di segno contrario. No. Charlie Hebdo non odia e non vuole annientare i rappresentanti delle religioni da prendere in giro, Dieudonné odia gli ebrei ed è un campione dell’antisemitismo più turpe. Charlie Hebdo è irriverente e provocatorio, Dieudonné invoca la camera a gas per il giornalista ebreo Patrick Coen nel tripudio degli spettatori che detestano gli ebrei come il loro comico sul palco. Charlie Hebdo ride, Dieudonné inventa la quenelle , che è un saluto nazista camuffato, fa premiare lo storico negazionista Robert Faurisson da un finto deportato con la stella gialla, irride le vittime dei campi di sterminio, chiama alla guerra santa contro Israele. Un essere spregevole, repellente, che con i suoi spettacoli riempie circhi e teatri: e si capisce perché un numero sempre crescente di ebrei francesi non senta più la Francia come casa propria e voglia partire per Israele, dove sono stati celebrati i funerali dei morti uccisi nel supermercato kosher. È proprio la lontananza assoluta dalle sconcezze propalate da Dieudonné che ci costringe a deplorare l’arresto che era stato disposto dalle autorità francesi (cui è seguita, nel pomeriggio, la scarcerazione) dopo il «Je suis Coulibaly» ostentato all’indomani delle carneficine di Parigi. Domenica milioni di persone hanno sfilato per le strade della capitale francese in difesa della libertà d’espressione. Si sono raccolti attorno a valori che nell’ordinarietà della routine passano inosservati. Hanno capito, dopo la strage che si è consumata nella redazione di un settimanale satirico, che non bisogna condividere idee e immagini per affermare il diritto inalienabile e non negoziabile di quelle idee e di quelle vignette di circolare liberamente. Quei francesi hanno stabilito un’ideale linea di demarcazione: di qua le società libere che tollerano i peggiori attacchi, persino a ciò che consideriamo più sacro e intangibile, di là i sistemi totalitari che considerano il dissenso un delitto, e includono in quella categoria ogni difformità non contemplata nei dogmi, nella dottrina, nei decreti fissati arbitrariamente dal potere. La libertà d’espressione deve valere anche per Dieudonné. Così come per quegli ebrei che in passato hanno manifestato davanti a teatri e tendoni per ricordare di che pasta antisemita fosse fatto quel personaggio che dileggiava i deportati, metteva alla berlina le stelle gialle, premiava chi considerava una «menzogna creata dai sionisti» lo sterminio di Auschwitz. È difficile accettare una tolleranza per idiozie tanto intollerabili. La tolleranza non è naturale, esige un grande sforzo quasi ascetico, costringe chi vorrebbe ribellarsi alle turpitudini di un Dieudonné a uno sforzo eroico di autodisciplina. Anche la libertà non ha nulla di «naturale», è una costruzione culturale, è una conquista faticosa ottenuta da pochi secoli, e solo in alcune parti del mondo. Se vogliamo difendere il valore della libertà, dobbiamo essere capaci di resistere alla tentazione censoria. Che non comporta indifferenza, rinuncia a combattere. Il conflitto tra idee e modelli culturali è l’ossigeno di una democrazia liberale e perciò non bisogna dare tregua a Dieudonné, bisogna gridare il disgusto per chi sputa sui morti della Shoah. Ma non bisogna arrestarlo, non bisogna metterlo in catene, non bisogna farne un martire per chi non aspetta altro che un guru che sappia calamitare l’odio crescente per ebrei e «infedeli». Solo così è possibile rivendicare una differenza tra «noi» e «loro»: nel mondo auspicato da Dieudonné l’intolleranza sarebbe assoluta e spietata. Nel mondo della libertà e della tolleranza il linguaggio malato di Dieudonné va contestato ma non trasferito in galera. E forse nemmeno rinviato a giudizio. Perché «Je suis Charlie» non venga dimenticato troppo presto.
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