Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/01/2015, a pag. 1-13, con il titolo "La Bibbia messa ai margini e la crisi del cristianesimo", l'analisi di Rav Giuseppe Laras.
Giuseppe Laras
La Grande sinagoga di Parigi sabato è rimasta chiusa. Non accadeva dal 1944. Domenica riaperta, ha ospitato Netanyahu.
Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agli inizi. E' la prima volta dai giorni di Adolf Hitler che le sinagoghe in Francia sono state chiuse di sabato. Tuttavia, è unicamente il tragico attentato al giornale Charlie Hebdo che ha scosso gli europei: i molti e continui attentati ai singoli ebrei e alle comunità ebraiche in tutta Europa in questi anni hanno turbato qualcuno, ma per quasi tutti si è trattato «solo» di ebrei.
Molti intellettuali e politici sostengono che il problema non è l’Islam, ma il terrorismo. È come dire che il cristianesimo non è l’antisemitismo o l’antigiudaismo. Certo! Tuttavia è innegabile che l’antisemitismo e l’antigiudaismo sono stati problemi profondi propri del cristianesimo (e non solo). La violenza e il fanatismo, la sottomissione religiosa e il terrore non esauriscono l’Islam, ma sono un problema religioso che in qualche modo riguarda l’Islam. L’autocritica dell’Islam (assieme alla critica laica esterna) su questo punto sembra difettare. Cristiani ed ebrei, secondo il Corano, sono presenti nei Paesi islamici in quanto dhimmi , popolazioni sottomesse, tollerate purché subalterne e paganti apposite tasse. Cosa dobbiamo, sia a livello politico e giuridico sia a livello interreligioso, chiedere oggi ai più autorevoli teologi islamici nei Paesi europei e arabi, anche a fronte della massiccia presenza demografica di musulmani?
La prima domanda è la seguente: è possibile per l’Islam, in ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e cristiani, accettare teologicamente, apprezzandolo , il concetto di cittadinanza politica , anziché quello di cittadinanza religiosa , confliggente quest’ultimo con i valori occidentali e pericoloso per le comunità cristiane ed ebraiche che, in qualità di minoranze, sarebbero esposte a intolleranze e arbitrio? Questa domanda fondamentale, per ignoranza, ignavia e inettitudine, non è mai stata seriamente posta dai politici europei, che hanno responsabilità enormi, anche del sangue sinora versato. C’è una seconda questione, che si intreccia alla prima. Per l’Islam, gli ebrei hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani hanno pratiche cultuali, oltre a condividere con i primi una Rivelazione alterata, dal sapore idolatrico. È possibile per l’Islam, in ossequio al Corano e per necessità religiosa interiore dei musulmani osservanti, e non solo perché sollecitato da ebrei e cristiani, apprezzare positivamente, in una prospettiva teologica, ebrei e cristiani in relazione alle problematiche sollevate da questo assunto coranico?
Premesso che ci sono migliaia di singoli musulmani che a queste domande hanno già risposto personalmente con il rispetto per il prossimo e per la sua fede, con un certo pluralismo e con l’integrazione ricercata e praticata, tuttavia manca una reale, inequivocabile, onesta, autorevole e vincolante riflessione teologica islamica al riguardo. È chiaro che se le risposte saranno per lo più negative, non sufficientemente autentiche o caratterizzate da silenzi e imbarazzi, ci si troverà tutti di fronte a un immenso problema. C’è una tentazione che può profilarsi, a diversi livelli, sia nel cristianesimo sia nella politica europea: quella di lasciar soli gli ebrei e lo Stato di Israele per facilitare una pace politica, culturale e religiosa con l’Islam politico, specie nell’ottica delle future proiezioni demografiche religiose europee e mediterranee. È una strategia fallimentare che i cristiani arabi provarono con il panarabismo e l’antisionismo. Gli esiti sono ben noti: dopo che quasi tutti i Paesi islamici si sono sbarazzati dei «loro» ebrei, si sono concentrati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoranze cristiane. È una storia che si ripropone e che va dal genocidio armeno (cento anni fa), ai cristiani copti di Egitto, ai cristiani etiopi e nigeriani, sino a Mosul. E molti Paesi europei, un’intera «classe» di intellettuali e molti cristiani di Occidente hanno le mani grondanti del sangue dei cristiani di Oriente, dato che sono stati disposti a sacrificarli sugli altari del pacifismo, dell’opportunità politica, di un malinteso concetto di tolleranza, della cultura benpensante e radical chic, della «buona» coscienza.
La tentazione di abbandonare gli ebrei e Israele è già esistente nei ricorrenti episodi di boicottaggio europeo dello Stato di Israele. Esiste nel silenzio imbarazzato o infastidito sui morti ebrei in Europa oggi. Con buona pace della Giornata della Memoria. La Giornata della Memoria è stata purtroppo addomesticata con liturgie pubbliche e anestetizzata dalle cerimonie in Parlamento e al Quirinale. Le più alte cariche dello Stato dovrebbero annualmente andare a celebrarla a Fossoli, a Bolzano, a San Sabba o nel ghetto di Roma, per far capire che è una realtà possibile, come tale ripetibile, e che si è verificata in Italia, con il plauso, la collaborazione, l’assenso e i silenzi di moltissimi — troppi — italiani. Essa così risulta azzoppata, fraintesa e priva di potenzialità dinamiche per comprendere il presente e incidervi positivamente. E l’ignavia e il diniego europeo sulle questioni presenti e sull’incapacità di affrontare politicamente e culturalmente le insidie legate alle derive dell’Islam politico, consegnando così a razzisti e xenofobi le risoluzioni del problema, gettano ombre lunghe che rievocano i fantasmi del nazismo e, per gli ebrei, della persecuzione. L’incapacità di comprendere lo Stato di Israele in definitiva si risolve nel fatto che a una certa politica e a una certa cultura europea miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da piangere e ricordare e non come soggetti vivi con cui dialogare e confrontarsi, ovvero oggi, in primo luogo, Israele.
La nostra contemporaneità ricorda tristemente il periodo sinistro tra le due guerre mondiali: una sorta di collasso sistemico. La crisi che viviamo non è economica e demografica soltanto: è una crisi culturale e valoriale, legata alla crisi del cristianesimo e, in un certo senso, della conoscenza della Bibbia, il cardine dell’intera nostra cultura dal punto di vista urbanistico, artistico, musicale, letterario, filosofico, giuridico, politico e religioso. E proprio per questo la Bibbia non è presente nelle scuole. E questa la chiamano laicità! È stato necessario un attore per far di nuovo parlare, interessando, di Bibbia e del Decalogo: Benigni! Che débacle che sia stato necessario lui dopo duemila anni di cristianesimo e duemila e duecento anni di ebraismo in Italia! L’erosione della conoscenza della Bibbia, non in quanto «tributo antiquario» ma piuttosto in quanto «forza creatrice e rigenerante», è uno dei fatti più inquietanti e drammatici per il nostro futuro sia religioso, sia culturale nelle sue varie declinazioni, sia in termini economici e politici.
Aveva ragione C. M. Martini a dire che la Bibbia è il libro del futuro dell’Europa e dell’Occidente, ma non è stato ascoltato. Aveva ragione Benedetto XVI nella ben nota conferenza di Ratisbona, ma fu vittima del discredito mediatico e culturale. E la Bibbia è stata scritta da ebrei, per ebrei, in ebraico, e l’ebraismo ancora oggi sopravvive proprio grazie alla Bibbia. E, parimenti, credo, il cristianesimo. Il riportare la Bibbia a fondamento della cultura e dell’etica è un impegno religioso possibile, dalla fecondità straordinaria, condivisibile tra ebrei e cristiani: un impegno di cui si avverte l’urgenza impellente e drammatica in questi anni di crisi, di confusione assordante, di efferata violenza e di grande mediocrità. Tuttavia, senza il reale riferimento positivo e non ambiguo a Israele, non sarà né autentico né produttivo il dialogo tra ebrei e cristiani. Infine, visti i tempi calamitosi in cui ci troviamo e troveremo ancora di più domani a vivere, invito tutte le persone coscienti e responsabili a raccogliersi in preghiera invocando dall’alto l’impulso in ciascuno di noi ad agire ai fini del rispetto del prossimo e della pace, concetto e realtà quest’ultima troppo spesso ideologicamente abusata.
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