Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/01/2015, a pag. 11, con il titolo "Quegli improbabili campioni di libertà", l'analisi di Stefano Montefiori.
Il Corriere non cita l'Anp, abbiamo provveduto noi ad aggiungerlo.
Stefano Montefiori
La manifestazione tenutasi a Parigi domenica
Forse una figura migliore l’ha fatta il ministro degli Esteri del Marocco, Salaheddine Mezour, che è venuto a Parigi per presentare le condoglianze a Hollande ma poi si è rifiutato di partecipare alla marcia. Assenza rara, e motivata. Nel 2006 il settimanale marocchino Journal hebdomadaire , in un servizio sulle caricature di Maometto del giornale danese Jyllands Posten poi ripubblicate da Charlie Hebdo , mise in pagina una foto che lasciava intravedere uno dei disegni. Si scatenò la rabbia popolare, assecondata da un regime che non amava quel giornale troppo critico (e costretto a chiudere nel 2010). Domenica, dopo la visita all’Eliseo, il ministro Mezour ha disertato la manifestazione ed è tornato in Marocco, dove il governo pochi giorni prima aveva proibito la distribuzione di tutti i giornali stranieri con vignette di Charlie Hebdo (quelli nazionali neanche ci avevano provato a pubblicarle). Altri capi di Stato e di governo, domenica, non hanno avuto la stessa pur discutibile coerenza. Si sono mostrati Charlie a Parigi, essendo persecutori di Charlie in patria. L’organizzazione non governativa Reporters sans Frontières ha protestato contro la presenza nel corteo di Paesi come l’Egitto (al 159° posto su 180 nella classifica della libertà di stampa 2014), Turchia (154°), Russia (148°) o Emirati Arabi Uniti (118°). «Come fanno i rappresentanti di regimi predatori della libertà di stampa a sfilare a Parigi?», si legge nel comunicato pieno di sdegno di Rsf. «È intollerabile che quanti riducono al silenzio i giornalisti nei loro Paesi approfittino di Charlie per cercare di migliorare la loro immagine internazionale», ha spiegato il segretario di Rsf, Christophe Deloire. Tra mille scritte «Je suis Charlie» c’erano pure il ministro degli Esteri russo Lavrov, il premier ungherese Viktor Orbán, il premier turco Davutoglu, il presidente del Gabon, Ali Bongo. Non esattamente i migliori amici dei giornalisti. «E perché non Bashar al Assad?», si è allora chiesta su Twitter la reporter di Le Monde Marion Van Renterghem, inaugurando l’hashtag di grande successo # PauvreCharlie , povero Charlie. In molti hanno chiesto l’arrivo del nordcoreano Kim Jong-un, o lamentato la spiacevole assenza del dittatore cileno Augusto Pinochet (morto nove anni fa). Hollande ha capito che l’arrivo degli improbabili campioni di libertà a Parigi rischiava di intaccare lo stato di grazia collettivo, e ha cercato di distinguere. Un conto era la marcia repubblicana per la libertà di espressione, un altro la lotta al terrorismo: e se il russo Lavrov non ha titolo per la prima, può tornare utile per la seconda. Non a caso il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha proclamato che Parigi era domenica «la capitale mondiale della resistenza contro il terrorismo»: i capi di Stato e di governo sfilavano contro gli attentati, più che a favore di Charlie Hebdo . Ma se la sfumatura ha permesso di salvare la giornata da un punto di vista diplomatico, il corto circuito si è creato quando anche i politici più discussi si sono messi a marciare, per pochi minuti, sullo stesso boulevard calpestato dalla folla immensa di «Je suis Charlie». Così, abbiamo visto Sameh Shoukry, ministro degli Affari esteri dell’Egitto, Paese dove attualmente sedici giornalisti sono incarcerati. Tra loro, i tre di Al-Jazeera in prigione dal dicembre 2013, accusati di avere diffuso false notizie e di essere vicini ai Fratelli musulmani. Poi Ahmet Davotoglu, primo ministro della Turchia, dove la lotta al terrorismo, secondo Reporters sans frontières, viene regolarmente utilizzata per giustificare la persecuzione di giornalisti sgraditi al regime. Nel dicembre scorso 24 persone sono state arrestate dopo le perquisizioni tra i media dell’opposizione al presidente Erdogan. L’Algeria, al 121° posto nella classifica di Rsf, era rappresentata dal ministro degli Esteri Ramtane Lamamra, che ha potuto manifestare a Parigi quando ad Algeri sono proibite le manifestazioni contro il quarto mandato del presidente Abdellaziz Bouteflika. E poi Ali Bongo, ultimo protagonista della dinastia che governa il Gabon, dove appena il 3 gennaio scorso il giornalista Jonas Moulenda, autore di un’inchiesta sui crimini rituali, è stato costretto a rifugiarsi in Camerun. «Non posso dire che vedere Ali Bongo alla marcia mi abbia fatto bene», ha detto in tv Laurent Léger, uno dei giornalisti sopravvissuti per miracolo al massacro di Charlie Hebdo . E ancora il presidente del Benin, Boni Yayi, che ha decretato un giorno di lutto nazionale e ha marciato a Parigi quando i giornali Le Béninois libéré e L’indépendant in patria sono perseguiti per offesa al capo dello Stato. Uno dei casi più interessanti, perché nell’Unione Europea, è quello di Viktor Orbán, primo ministro dell’Ungheria, che non solo dal 2011 punisce per legge l’«informazione non equilibrata», cioè critica nei confronti del suo potere, ma ha pure approfittato della marcia della fraternità per dire alla tv di Stato di Budapest che i massacri di Parigi dovrebbero servire da lezione: «Non vogliamo vedere tra noi minoranze con caratteristiche culturali diverse. Vogliamo che l’Ungheria resti l’Ungheria». Luz, altro vignettista superstite, è amareggiato: «Abbiamo visto sfilare tutti i nostri personaggi. Pure l’assurdità contro la quale ci battiamo, era alla marcia».
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