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Corriere della Sera Rassegna Stampa
12.01.2015 Sono terroristi, perché li chiamano 'militanti'?
Conversazione di Pierluigi Battista con Giuliano Ferrara

Testata: Corriere della Sera
Data: 12 gennaio 2015
Pagina: 14
Autore: Pierluigi Battista
Titolo: «Il paradosso della fede: 'Militanti, non terroristi: seguono il Corano'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA dell'11/01/2015, a pag. 14, con il titolo "Il paradosso della fede: 'Militanti, non terroristi: seguono il Corano' ", la conversazione di Pierluigi Battista con Giuliano Ferrara.


Pierluigi Battista                            Giuliano Ferrara


Maometto il profeta: "Finitela di chiamare 'violenti' i miei seguaci, oppure vi uccideranno"

Caro Giuliano Ferrara, lei che esorta a usare una «violenza incomparabilmente superiore» per sgominare i terroristi... «Alt, la fermo subito perché sta commettendo il solito errore. Guardi questo articolo che ho appena finito di scrivere: Je suis Kouachi , Je suis Coulibaly . Sono impazzito? No, ma sono contrario a definirli terroristi. Sono guerriglieri, combattenti, militanti islamici che applicano alla lettera la legge sacra fissata nei testi coranici. Erano ragazzi di strada, rapper che inseguivano un successo impossibile, con la testa confusa, uno di loro era riuscito addirittura a farsi ricevere da Sarkozy. Ma poi, con un processo di conversione guidato dalla rete di cellule in cui si predicano i precetti del purismo islamista, questi ragazzi trovano un senso, una missione. Si organizzano e si votano alla morte, quella degli infedeli da ammazzare e quella propria da sacrificare nel martirio. Come gli shàhid che si fanno esplodere davanti a una pizzeria di Tel Aviv o buttano già le Twin Towers schiantandosi con gli aerei». E perché mai colpire una combriccola di vignettisti, di disegnatori che stavano preparando un nuovo numero di Charlie Hebdo ? «Ma come perché? Perché sono blasfemi, e nei regimi dove domina la legge islamica i blasfemi e gli “apostati” vengono condannati a morte o con le punizioni corporali. Proprio in questi giorni, nella “moderata” Arabia Saudita, sono partiti con la somministrazione di 50 frustate delle mille comminate contro il blogger Al Jafali, condannato a dieci anni di reclusione per “frasi irriverenti nei confronti del Profeta”. Ci vede questa grande differenza con i combattenti islamici che hanno compiuto la decimazione di quel covo di blasfemi che offendevano Maometto, profanando l’Islam con le loro vignette?». È davvero impressionante questa corsa un po’ ipocrita alla negazione della radice islamica delle stragi di questi giorni. Però è difficile non comprendere le ragioni di chi sta al vertice delle istituzioni come Hollande e certo non può fare la guerra a 5 milioni di musulmani francesi. «Ma che c’entrano i 5 milioni di musulmani. Hollande nega l’evidenza e dice che le stragi di Parigi non hanno niente a che vedere con l’Islam? È la bancarotta della Francia repubblicana e illuminista che finge di non capire per rinunciare a combattere. Dovrebbero andare a lezione dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, che davanti alle autorità religiose dell’università di al Azhar ha chiesto una “rivoluzione” nell’Islam per “sradicare” il fanatismo: “È possibile che la nostra dottrina debba fare di tutta l’ umma una sorgente di pericolo, uccisioni e distruzioni per il resto del mondo?”. Un leader coraggioso».

Mentre si capisce la prudenza dei capi di Stato, sconcerta l’autocensura che ci infliggiamo noi dei media. Sul New York Times hanno purgato la scena in cui i due assassini risparmiano la donna che apre loro la porta di Charlie Hebdo . Loro dicono: «Non uccidiamo le donne ma devi convertirti all’Islam, leggere il Corano e coprirti». Ma il giornale la stravolge così: «Non ti uccido, sei una donna. Ma pensa a quello che stai facendo. Non è giusto». Perché? «Perché fanno parte di un mondo che deve nascondere la verità. Uno come Hollande, che si fa beccare con il casco integrale e le brioche per andare a trovare l’amante, incarna il tipo antropologico di una Francia giacobina che non ha più voglia di litigare con nessuno. E il New York Times , un giornale che ammiro per la qualità della sua filosofia dell’informazione, è il tempio del progressismo e della gay culture , irriverente fino alla blasfemia nei confronti dei simboli cristiani, ma paralizzato dal senso di colpa dell’Occidente». Cioè l’idea che l’Occidente sia solo imperialismo, sopraffazione, petrolio, oppressione delle minoranze? «Anche, ma soprattutto l’idea che sia colpevole di tutto ciò che c’è di orrendo nel mondo, compresa la barbarie omicida di chi si ribella al suo dominio. Per cui, se massacrano a colpi di kalashnikov gli scanzonati anarco-libertari di Charlie Hebdo la colpa non è dei combattenti islamici ma di Marine Le Pen, dell’islamofobia, di Eric Zemmour, dell’omofobia, del razzismo».

Marine Le Pen chiede la pena di morte, però. «Senta, io detesto la famiglia Le Pen, detesto con tutto il mio cuore la destra francese, con quel suo fondo sulfureo, gretto, venato di antisemitismo. Ma sono così esasperato dall’ipocrisia che se dovessi scegliere andrei alla manifestazione della Le Pen, piuttosto che sfilare in quella di Hollande in cui ci si rifiuta di dire la verità sull’Islam». Che poi Ferrara, diciamo la verità, non è che lei in questi anni abbia mostrato di amare appassionatamente il mondo secolarizzato, irreligioso, laico, relativista. «Si sbaglia, il mondo libertario, libertino, liberale è il mio mondo. Ma vorrei che restasse un mondo complesso, in cui c’è l’autorità e anche la trasgressione, la disciplina e insieme la ribellione. Un mondo delle differenze, dove si può essere libertini e combattere l’orrore dell’aborto, stare nella modernità ma rifiutare la deriva disumanizzante della tecnoscienza». Un mondo che ha finalmente conquistato la separazione tra politica e religione. Una conquista grandiosa. Lei ci tiene ancora? «Ma è ovvio. Ci sono però due modi di intendere la distinzione tra politica e religione. Quello di Thomas Jefferson, dove il “muro di separazione” impedisce allo Stato di incarnare una religione e sancisce il diritto delle chiese di essere tante, varie, irriducibili a una religione di Stato. L’altra è la versione francese, giacobina, che fa della stessa l aicité una religione di Stato totalitaria, che impone di abbassare le croci e di azzerare ogni simbolo religioso nelle scuole». Intanto lei elogia al Sisi, certo non un fior di democratico. La democrazia come valore universale è bell’e finita. «No, la democrazia resta per me un valore universale. Ma è la realtà della democrazia che non è universale. Abbiamo tentato di esportare la democrazia ma ci vuole un impegno costante di un Occidente sicuro di sé, disposto a combattere e spendere tanti punti di Pil per il Pakistan, l’Iran, la Siria. Invece battiamo in ritirata. E ci ritroviamo col califfato, con 200 mila morti in Siria, con Parigi a ferro e fuoco».

Nessuno vuole conoscere le storie dell’«internazionale degli invisibili», di quegli scrittori, giornalisti, vignettisti che sono spariti dalla circolazione perché braccati da una condanna a morte decretata dai fondamentalisti. È la paura? «È la paura che ho letto negli occhi di tante persone che amo e che stimo a partire dall’11 settembre. Una paura che si misura nella freddezza odiosa nei confronti dello Stato di Israele, dello Stato degli ebrei, degli ebrei in generale. Quando due anni fa, a Tolosa, Mohammed Merah, un franco-algerino, un combattente islamico come i fratelli Kouachi o Amedy Coulibaly, ha ammazzato davanti a una scuola ebraica tre bambini colpevoli semplicemente di essere ebrei, la reazione furono i soliti due minuti di lutto e poi via. Per i quattro assassinati nel supermercato kosher, nessuno ha lanciato l’hashtag #jesuisjuif come #jesuischarlie . Fa troppa paura».

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