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Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
09.01.2015 Nel Corano i germi del crimine
Commenti di Magdi Cristiano Allam, Giuliano Ferrara, Bernard-Henri Lévy, Pierluigi Battista, Michel Onfray, Ayaad Hirsi Ali

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Magdi Cristiano Allam - Giuliano Ferrara - Pierluigi Battista - Bernard-Henri Lévy - Pierluigi Battista - Michel Onfray - Hayaan Hirsi Ali
Titolo: «I versetti dell'odio che insegnano come uccidere - Come amarsi, perché - Ma non alziamo le mura di una fortezza assediata - Vauro e gli altri che censurarono quelle vignette 'provocatorie' - Questo è il nostro 11 settembre e gli intellettuali non se ne ac»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 09/01/2015, a pag. 1-13, con il titolo "I versetti dell'odio che insegnano come uccidere", il commento di Magdi Cristiano Allam; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Come amarsi, perché", l'editoriale di Giuliano Ferrara; dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-30, con il titolo "Ma non alziamo le mura di una fortezza assediata", l'analisi di Bernard-Henri Lévy; a pag. 15, con il titolo "Vauro e gli altri che censurarono quelle vignette 'provocatorie' ", il commento di Pierluigi Battista; da REPUBBLICA, a pag. 16, con il titolo "Questo è il nostro 11 settembre e gli intellettuali non se ne accorgono", il commento di Michel Onfray; a pag. 17, con il titolo "Chiedo una riforma religiosa che non dia giustificazioni", le dichiarazioni di Ayaan Hirsi Ali.

Ecco gli articoli:

IL GIORNALE - Magdi Cristiano Allam:  "I versetti dell'odio che insegnano come uccidere"


Magdi Cristiano Allam

Se un domani anche in Italia dovesse verificarsi un attentato atroce come quello che il 7 gennaio ha insanguinato la redazione di Charlie Hebdo, non dovremo sorprenderci. Perché anche da noi ci sono le condizioni che lo consentono: il convincimento di tutti i musulmani, moderati ed estremisti, che la raffigurazione di Maometto, ancor di più se in chiave satirica, sia inammissibile e da sanzionare; l'impegno ad accreditare l'islamofobia, ovvero il divieto di criticare l'islam, inteso come reato alla stregua del razzismo nei confronti di una comunità etnico-confessionale; il sostegno da parte di fasce della popolazione, prevalentemente nell'ambito cattolico e della sinistra, alla legittimazione dell'islam, alla proliferazione delle moschee e l'attribuzione ai musulmani di uno statuto giuridico che riecheggia la sharia, come a esempio il riconoscere gli effetti civili della poligamia; la presenza di terroristi islamici reduci dai campi delle loro guerre sante in Siria e Irak che potrebbero scatenarsi in qualsiasi momento. Nessuno dei sedicenti musulmani moderati, pur condannando la strage di Charlie Hebdo, ha difeso il diritto della libertà d'espressione o per esempio twittato #jesuischarlie. Perché nessun musulmano potrebbe contraddire sia il divieto assoluto di rappresentare Maometto sia il reato di blasfemia che, secondo la sharia, sono entrambi sanzionabili con la condanna a morte. L'aniconismo, il culto privo di immagini, si rifà a un detto attribuito a Maometto secondo cui «a un individuo che ritrae un essere vivente verrà chiesto di infondergli la vita» e costui «verrà torturato fino al Giorno del giudizio». Secondo Maometto essendo solo Allah il Creatore della vita, l'individuo che ritrae un essere vivente tenterebbe di sfidare e di competere con Allah. Questo divieto viene suffragato da cinque versetti coranici (Sura LIX, L'esodo, 24; Sura III, La famiglia di Imran, 6; Sura VII, Il Limbo, 11; Sura XL, Il Perdonatore, 64; Sura V, La tavola imbandita, 90). Ebbene, se è solo l'islam integralista a prescrivere il rifiuto di tutte le immagini di esseri viventi perché potrebbero essere idolatrate (ed è ciò che ha portato i terroristi islamici ad abbattere i Buddha in Afghanistan o le statue cristiane), tutte e quattro le scuole giuridiche dell'islam sunnita (hanafita, sciafiita, malikita e hanbalita) concordano sul divieto di rappresentare Allah, Maometto e i profeti citati nel Corano. Così come tutti i musulmani riconoscono che, sulla base della sharia, la legge islamica, tutti coloro che commettono blasfemia criticando Allah, il Corano o Maometto devono essere condannati a morte. La legge sulla blasfemia è ufficiale in Pakistan ma è di fatto vigente in tutti i Paesi musulmani, dove le pene possono essere diverse, fermo restando la condanna del reato. La strage di Charlie Hebdo non si sarebbe verificata se non fossero stati i musulmani «moderati» della Grande Moschea di Parigi e dell'Uoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia) ad accusare il settimanale satirico di blasfemia e a trascinarlo in tribunale nel 2007, sollevando un clima d'odio condiviso dalla miriade di associazioni autoctone per i diritti degli immigrati e dei musulmani e taluni ambienti cristiani e cattolici, su cui si è successivamente innestato il terrorismo delle bombe e dei kalashnikov al grido di «Allah è grande, vendicheremo il profeta». Ecco perché la strage di Charlie Hebdo è un simbolo della contiguità e della consequenzialità del pensiero e delle azioni dei moderati e dei terroristi islamici. Un attentato atroce simile potrebbe verificarsi in Italia anche perché il nostro Paese condivide con la Francia e altri Paesi europei la presenza di terroristi islamici nostrani, con cittadinanza italiana o residenti fissi, reduci dai campi di battaglia in Siria e Irak. Il 7 gennaio verrà ricordato come l'evento che ha segnato l'affermazione del terrorismo islamico autoctono ed endogeno in Europa, perpetrato da terroristi islamici europei, sferrato sul suolo europeo, le cui vittime sono europee. Sono i frutti avvelenati del relativismo religioso, del multiculturalismo, dell'islamofilia e della globalizzazione monca. Ma l'abbiamo capito che stiamo subendo una guerra scatenata nel nome dell'islam in cui tutti i musulmani condividono l'obiettivo di islamizzarci, divergendo soltanto sui mezzi per perseguire lo stesso fine? Siamo consapevoli che in questa guerra o combattiamo per salvaguardare la nostra civiltà laica e liberale dalle radici cristiane o saremo sottomessi all'islam?

IL FOGLIO - Giuliano Ferrara: "Come amarsi, perché"


Giuliano Ferrara

Higher level of counter-violence, livello più alto di contro-violenza: qui lo diciamo da tempo in forma forse meno pudica e apparentemente iperbolica (violenza incomparabilmente superiore). Ma ora il medesimo concetto lo leggiamo, per la firma di uno dei maggiori suoi editorialisti, George Packer, sulle colonne del New Yorker, giornale liberal di rinomanza mondiale. In genere bastiamo a noi stessi, e con l’aiuto del Wall Street Journal avanziamo pure, ma evidentemente la questione è posta anche a partire da pregiudizi o ipotesi diversi dai nostri. Tuttavia: che cosa significa una violenza incomparabilmente superiore come risposta alla guerra santa islamista contro di noi? Che formula è mai?

E’ formula culturale, politica, civile, militare e tecnologica. La lagna islamofila e pseudooccidentalista tende a essere spazzata via dalle circostanze: avessero colpito una sinagoga o una chiesa cristiana, allo strepito cerimoniale di prammatica sarebbe seguita in pochi giorni la ripresa del boicottaggio di Israele o il devastante silenzio sui crimini contro gli infedeli, all’insegna del dialogo inter-religioso per eunuchi e del pacifismo di stato, che connotano oggi le nostre società e in parte perfino la chiesa cattolica e altre denominazioni evangeliche europee (non quelle americane). Ma a essere sterminati stavolta sono gli splendidi ubriaconi della satira assoluta venuti dal cuore del ’68, supergoscisti e anarchici spavaldi ed eroici, trasformati in martiri della libertà di espressione dai kalashnikov di tre jihadisti che gridavano le loro preghiere ideologizzanti al cielo di Parigi.

Così la fusillade ha messo nei pasticci quelli che l’islamofobia è sempre in divieto di sosta, quelli che le radici della violenza sono nei campi profughi palestinesi, quelli che hanno censurato le vignette di Charlie Hebdo e il film sul profeta Muhammad in nome della laicità repubblicana o della separazione tra fede e politica (il presidente francese Jacques Chirac, il presidente americano Barack Obama: e scusate se è poco), quelli che le vere vittime sono gli islamici, quelli che bisogna riunirsi in preghiera e digiuno per evitare la guerra occidentale alla Siria chimica di Assad (Papa Francesco: e scusate se è poco) eccetera. Non esprimo qui disprezzo, ma dissenso strategico.

Il livello più alto di contro-violenza, servizi segreti raccolta dati prevenzione e stretta repressiva capillare a parte, comincia da una presa d’atto necessaria. Abbiamo rinunciato con spocchia all’esportazione della democrazia, che doveva essere una crociata secolare come fu la sconfitta del nazi-fascismo totalitario, e stiamo importando il jihad armato; abbiamo teso la mano all’islam e abbiamo ricevuto una scarica di piombo nello stomaco dall’islamismo; stiamo tradendo Israele, e le conseguenze già si fanno sentire; abbiamo spodestato il Papa di Ratisbona, isolandone le sagge parole, e siamo rimasti senza parole, in mano ai paternoster e all’invocazione della misericordia; abbiamo confuso il multiculturalismo con la dissoluzione dell’identità occidentale, e la sharia è alle porte in Europa mentre si moltiplicano i casi di clandestinità e persecuzione e martirio del libero pensiero occidentale in occidente, dove isolate voci criminalizzate denunciano il suicidio collettivo; abbiamo favorito e protetto con argomentazioni banalmente solidariste l’immigrazione selvaggia e non abbiamo l’integrazione o anche solo una convivenza possibile e ordinata, razionale; abbiamo degradato la croce cristiana a simbolo di intolleranza islamofoba, nascondendola, e abbiamo la mezzaluna nelle moschee dominate dagli imam di ogni genere e il prosternarsi coranico sul sagrato del Duomo di Milano; abbiamo stretto un patto protocollare con l’islam che non conta e non racconta la verità, travestendolo da islam moderato, e abbiamo lasciato al generale al Sisi, che se le cose non cambiano è il prossimo Sadat, di dire la verità, al Cairo, davanti ai dotti della teologia coranica, sulla necessità di una rivoluzione antifondamentalista e antiletteralista nella religione-che- produce-ideologia-mortuaria e prassi terroristica per ogni dove nel mondo.

La violenza incomparabilmente superiore che riscatta è il rovesciamento integrale nel suo opposto di questo prontuario della resa, della rassegnazione, della sfiducia. Non dobbiamo più essere divisi tra chi denuncia il rischio dell’islamismo e chi combatte l’islamofobia, percorso sicuro per una sconfitta che farà epoca. Dobbiamo nelle parole e nelle cose almeno metterci al livello di un generale egiziano che ha visto al lavoro il governo islamicomoderato dei Fratelli musulmani e che ha saltato il fosso non della fede ma dell’ideologia alla quale l’intera umma islamica è oggi vincolata, come lui stesso afferma: una ideologia, ha detto al Sisi davanti ai dotti di Al Azhar il primo gennaio 2015, che fa dell’islam un nemico mortale dell’umanità, un soggetto di un miliardo e mezzo di persone che si batte per annichilire il resto dell’umanità. Non solo George Packer, ma il capo dello stato politicamente più importante dell’area arabo-islamica, chiede letteralmente una “rivoluzione” contro l’ideologia islamista. Un livello più alto di contro-violenza è dunque necessario.

CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy: "Ma non alziamo le mura di una fortezza assediata"


Bernard-Henri Lévy

Davanti a noi — ormai è chiaro — abbiamo una prova lunga e terribile. Ma dobbiamo affrontarla senza alzare le mura di una fortezza assediata, superando la paura, evitando di reagire al terrore con lo spavento.

Dodici volti. Dodici nomi, alcuni dei quali sono stati chiamati ad alta voce, come si fa con i condannati a morte prima dell’esecuzione. Dodici simboli della libertà di ridere e di pensare, barbaramente assassinati e oggi compianti dal mondo intero. Per questi dodici, per Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Bernard Maris e tutti gli altri, per questi martiri dell’umorismo che ci hanno fatto tante volte morire dal ridere e che invece, loro, ne sono morti per davvero, il minimo che possiamo fare è dimostrarci all’altezza del loro impegno, del loro coraggio e, oggi, del loro lascito. Ai vertici della nazione francese spetta il compito di prendere atto della guerra che non hanno voluto vedere ma nella quale si trovavano ormai da anni, e impegnati in prima linea, i giornalisti di Charlie , quei redattori e vignettisti che erano — come ormai sappiamo — quasi degli inviati di guerra, dei Robert Capa della matita e del tavolo da disegno. Questo è il momento della verità della Quinta Repubblica. È l’ora di guardare in faccia una realtà implacabile e di affrontare una prova che si annuncia lunga e terribile. È l’ora di smetterla, una volta per tutte, con i discorsi concilianti che ci propinano da tanto tempo gli idioti ammaestrati di un islamismo che si stempera nella sociologia della miseria e dell’esasperazione. Ma più di ogni altra cosa è venuta l’ora — adesso o mai più — di mostrare quel sangue freddo repubblicano che ci impedirà, pur guardando in faccia il male, di abbandonarci allo stato di emergenza e alle sue funeste semplificazioni.

La Francia può — anzi, deve — ricompattare le difese che non siano, però, le mura di una fortezza assediata. La Francia deve — e lo deve a se stessa — mettere in campo un antiterrorismo senza poteri speciali, un patriottismo rivitalizzato, ma senza Patriot Act, una governabilità che, in poche parole, non cada in nessuno dei tranelli dove rischiarono di naufragare gli Stati Uniti dopo l’11 settembre. A questo ci hanno invitato implicitamente le parole del segretario di stato americano John Kerry, che fu dieci anni or sono l’avversario sfortunato ma dignitoso di quel pessimo antiterrorista di George W. Bush. L’omaggio da lui reso nella nostra lingua, il francese, ai dodici martiri di quello che oltreoceano si chiama il Primo emendamento, quel «Je suis Charlie», ripetuto nello stesso francese del discorso commovente del presidente Roosevelt, l’8 novembre del 1942, sulle onde di Radio Londra, non ha forse avuto il doppio merito di ribadire non solo la dimensione epocale dell’avvenimento, ma anche di rivolgere alla nazione alleata un velato ammonimento contro la tentazione, sempre in agguato, di far ricorso alla tortura, a Guantánamo, e alla biopolitica liberticida? A noi tutti, cittadini, spetta il dovere di superare la paura, di non reagire al terrore con lo spavento, di non armarci contro lo spauracchio dell’altro, di non cadere preda di sospetti diffusi, quasi sempre frutto di simili eventi traumatizzanti. Nel momento in cui scrivo, la saggezza repubblicana ha avuto la meglio. Quel «Je suis Charlie» inventato lì per lì, e come all’unisono, in tutte le grandi città della Francia, segna la nascita di uno spirito di resistenza degno del nostro passato migliore. E gli istigatori degli animi, che predicano senza sosta la divisione tra i francesi autoctoni e i discendenti degli immigrati, coloro che seminano zizzania e — al Front National come altrove — già vedono in queste dodici esecuzioni una nuova rivelazione divina a conferma dell’inesorabile avanzata della marea islamica e della nostra vile genuflessione ai profeti della «Sottomissione», ebbene costoro non avranno i risultati sperati. Tuttavia, resta ancora aperta la questione: fino a quando? È essenziale che alla «Francia ai francesi» di Marine Le Pen e dei suoi sostenitori continui a rispondere, passata l’onda emotiva, l’«Union Nationale» dei repubblicani di ogni sponda, di ogni schieramento e di ogni origine, che hanno avuto il coraggio, nelle ore successive alla mattanza, di scendere nelle piazze e nelle strade. Perché l’Unione Nazionale è l’opposto della Francia ai francesi. L’Unione Nazionale resta — da Catone il Vecchio fino ai teorici del Contratto sociale moderno — uno splendido valore che, proprio perché conoscitore della guerra giusta, sa dove si nasconde il vero nemico. L’Unione Nazionale è quella nozione che ha fatto capire ai francesi che gli assassini di Charlie non sono «i» musulmani, bensì un’infima frazione di coloro che confondono il Corano con un manuale di supplizi. Ci auguriamo che sarà questa idea a radicarsi e portare frutto dopo il magnifico risveglio del nostro senso profondo di cittadinanza.

A quelli di noi che seguono la fede islamica, vorrei dire che sarebbe opportuno protestare a voce altissima, e numerosissimi, sostenendo il rifiuto di questa forma fuorviante e spregevole di passione teologo-politica. I musulmani di Francia non sono, come si ripete fin troppo, obbligati a giustificarsi, ma invitati a manifestare la loro fraternità concreta con i loro concittadini massacrati, e così facendo a eradicare una volta per tutte la menzogna di una comunanza spirituale tra la loro fede e quella degli assassini. I musulmani di Francia hanno la grande responsabilità, davanti alla storia, di gridare a loro volta quel « not in our name » dei musulmani britannici, che si sono così voluti distinguere, lo scorso agosto, dagli sgozzatori di James Foley. Ma hanno anche la responsabilità, più urgente ancora, di proclamarsi realmente figli di un Islam di tolleranza, di pace e di misericordia. Occorre liberare l’Islam dall’islamismo. Bisogna dire e ripetere che ammazzare la gente in nome di Dio equivale a fare di Dio un assassino. E ci si augura che non solo i saggi teologi, come l’imam di Drancy, Chalghoumi, ma anche l’immensa folla dei loro fedeli, sappiano dichiarare, finalmente, che il culto del sacro, in democrazia, è una minaccia alla libertà di pensiero; che le religioni, agli occhi della legge, altro non sono che delle credenze sullo stesso identico piano delle ideologie profane; e che il diritto di riderne e di discuterne, come quello di accettarle o respingerle, è un diritto di tutti gli esseri umani.

È su questo sentiero difficile, ma liberatorio, che procedevano quei pensatori dell’Islam che ho avuto il privilegio di conoscere dal Bangladesh alla Bosnia, dall’Afghanistan fino ai Paesi della primavera araba, e dei quali voglio ricordare il nome: Mujibur Rahman, Izetbegovic, Massoud, gli eroici caduti di Bengasi, come Salwa Bugaighis, sotto il fuoco o le lame dei barbari sicari degli assassini di Charb, Cabu, Tignous e Wolinski. È il loro messaggio che bisogna ascoltare. È il loro testamento tradito che occorre recuperare al più presto. Anche da morti, costoro restano la prova vivente che l’Islam non è condannato a questa malattia preconizzata da uno dei nostri poeti e filosofi, Abdelwahab Meddeb, che ci mancherà più di tutti nei tempi bui che si profilano all’orizzonte. Islam contro Islam. Luci contro la Jihad. La civiltà pluralista d’Ibn Arabi, di Rumi e dei trattati di ottica di al-Haytham, contro i nichilisti dello Stato Islamico e i loro sicari francesi. È questa la battaglia che ci aspetta, e la combatteremo tutti insieme. (Traduzione di Rita Baldassarre )

CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista: "Vauro e gli altri che censurarono quelle vignette 'provocatorie' "


Pierluigi Battista

Stavolta i professionisti del «se la sono cercata» non hanno perso tempo. Anche nel clima ecumenico del «Je suis Charlie», sul Financial Times si bolla come «stupida» la scelta del giornale massacrato dagli stragisti di pubblicare le vignette su Maometto. E sul New York Times risuona la parola «irresponsabili». Ma almeno sono coerenti. L’abitudine di prendere le distanze dai bersagli della furia fanatica si è manifestata anche in tanti intellettuali, campioni della satira, sacerdoti del politicamente corretto che nel 2006 criticarono aspramente Charlie Hebdo perché, da veri irriverenti e libertari, avevano osato affermare il diritto di pubblicare una vignetta senza incorrere in una condanna a morte. E se anche non apprezzavano il gusto e l’estetica delle vignette pubblicate in Danimarca che stavano provocando tumulti, assalti, roghi tra i militanti islamisti pronti a uccidere i «blasfemi» e gli «infedeli», decisero di tener fede al principio non negoziabile della libertà d’espressione. Ma erano libertari, appunto. Altri invece, criticarono duramente (se la andavano a cercare) quella scelta. Per il Premio Nobel José Saramago «alcuni ritengono che la libertà d’espressione sia un diritto, ma la cruda realtà impone dei limiti». La libertà d’espressione «limitata» come la sovranità dei Paesi dell’Est sotto Breznev: la ricetta di Saramago. In Italia Vauro sosteneva che quelle vignette erano «propaganda bellica» e «la libertà d’espressione non c’entra niente», eccepiva, e concludeva, censurando la scelta di Charlie Hebdo : «Non ci si può indignare se messaggi violenti ottengono e provocano reazioni violente»: se la sono cercata e, nove anni dopo, l’hanno tragicamente trovata. Per Elle Kappa «quelle vignette offendono il sentimento religioso dei musulmani». Sandro Ruotolo tuonava, su un sito pacifista: «A pubblicarle è stato un giornale di estrema destra danese. La libertà di satira non c’entra e non ci si può chiedere di aderire alle libertà di propaganda». La «libertà» non c’entra mai, per gli ultras del «se la sono cercata» (e non si capisce nemmeno perché si debba negare «la libertà di propaganda»). Categorico Giulietto Chiesa contro la scemata del settimanale francese: «Pubblicare quelle vignette a difesa della libertà d’espressione la considero una provocazione non meno stupida per il fatto che è stata collettiva». Se l’erano andata a cercare collettivamente. «Stupidi», come sostiene il Financial Times . Del resto, non è che la difesa della libertà d’espressione, quando si creano attriti con il fondamentalismo jihadista, sia una bandiera che gli intellettuali intimoriti o pronti alla «sottomissione» evocata da Michel Houellebecq sono disposti a sventolare con una certa fermezza di princìpi. Ayaan Hirsi Ali, braccata dai fanatici islamisti per aver collaborato con Theo van Gogh, pugnalato in Olanda, è stata sfrattata perché i vicini ne hanno chiesto l’allontanamento e l’Università di Boston ha revocato una laurea honoris causa dopo le proteste dei professori timorosi di fomentare «guerre di religione». Quando Salman Rushdie era inseguito dai musulmani che volevano eseguire la fatwa pronunciata da Khomeini, molti intellettuali prestigiosi parteggiarono per i carnefici e infierirono sulle vittime (lo scrittore e i traduttori). Lo storico Hugh Trevor-Roper, noto per aver avallato la bufala dei falsi diari di Hitler, sentenziò: «Non verserei una lacrima se qualche musulmano inglese lo aspettasse in un angolo buio per insegnargli le buone maniere». E John Le Carré: «È mia opinione che Rushdie non abbia niente da dimostrare se non la sua irresponsabilità». Se l’era andata a cercare. Come gli «irresponsabili», gli «stupidi» di Charlie Hebdo .

LA REPUBBLICA - Michel Onfray: "Questo è il nostro 11 settembre e gli intellettuali non se ne accorgono"


Michel Onfray

Come tutti i francesi, sapevo che si stavano preparando attentati, che alcuni erano stati sventati. Ciò nonostante, sono rimasto sbigottito quando ho ricevuto sul mio iPhone la notifica di allerta per la sparatoria a Charlie Hebdo. Senza sapere altro, ho capito subito che si trattava di qualcosa di grave, di terribile. Alle 12.50 ho twittato “Mercoledì 7 gennaio 2015: il nostro 11 settembre”, perché in effetti credo proprio che questo attentato diventerà uno spartiacque. Questo è soltanto l’inizio.

Tuttavia, se nella sostanza mi aspettavo una cosa del genere, nella forma no. E poi non collegherei l’attentato all’uscita di Sottomissione. Nel suo romanzo Houellebecq annuncia ciò che bolle in pentola da anni, ma proiettandolo nel futuro. Il fatto è che questa guerra civile, che egli annuncia come un’ipotesi da romanzo, si regge su numerosi focolai individuabili da anni, ma meticolosamente soffocati dai media col pretesto di evitare, secondo un’espressione ormai ratificata, di «fare il gioco di Le Pen». Anch’io penso che l’Europa sia morta. E non esistono azioni politiche che possano metterci al riparo dal fondamentalismo. Si sarebbero potute evitare di dichiarare guerra all’Islam in modo planetario da anni — Iraq, Libia, Afghanistan, Mali… E poi affrancarsi da queste guerre che combattiamo con i nostri eserciti tradizionali contro una guerriglia che permette a due uomini armati di due kalashnikov e con due o tre automobili rubate di mettere un paese intero in ginocchio e di farlo cadere in uno stato di terrore assoluto.
E gli intellettuali non hanno più un peso. Sono anni che non fanno il loro lavoro, dicendo che questo pericolo non esiste o biasimando coloro che dicono che il pericolo esiste. Scommetto che continueranno a comportarsi con ancora maggiore aggressività, difendendo le loro tesi e accusando altri di essere responsabili dell’accaduto: per alcuni i musulmani, per altri quelli che contrastano i musulmani. E questa si chiama “guerra civile”.
Ricordiamoci che i due (o tre) assassini sono stati addestrati alla guerriglia. La preparazione, il sangue freddo mantenuto durante l’operazione da commando, il modo di sparare, la calma, la determinazione e la fuga: tutto dimostra che si tratta di uomini agguerriti. Sono stati addestrati su un terreno di operazioni militari? Può darsi. Probabilmente andranno avanti fino a morire da martiri. E poi altri raccoglieranno da loro il testimone.
(Testo raccolto; traduzione di Anna Bissanti)
LA REPUBBLICA - Ayaan Hirsi Ali: "Chiedo una riforma religiosa che non dia giustificazioni"

Ayaan Hirsi Ali
L’unico modo in cui i musulmani pacifici possono liberarsi degli estremisti che usano violenza e terrore è attuando una riforma della loro religione in modo che non possa più fornire giustificazioni per l’uccisione di persone considerate blasfeme. Ci vorrà del tempo.
Intanto noi che non aderiamo a quel credo dobbiamo difendere i nostri valori. Le libertà di parola e di stampa.
Questo è ciò che siamo, questi sono i nostri valori.
Che comprendono la tolleranza verso chi vuole prendere in giro la religione. Chiedo a tutta la stampa di prendere posizione. Un’intera rivista è stata spazzata via.
Se pensate che un giorno risparmieranno voi solo perché vi siete astenuti dal prendere in giro il Profeta, allora davvero vi sbagliate.
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