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Il Giornale - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
08.01.2015 Charlie Hebdo: chi informa, i commenti
Commenti di Magdi Cristiano Allam, Stefano Montefiori, Pierluigi Battista, Ezio Mauro

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Magdi Cristiano Allam - Stefano Montefiori - Pierluigi Battista - Ezio Mauro
Titolo: «Altro che moderati: nel Corano i precetti dei killer - Houellebecq: il romanziere sotto protezione, in lacrime per l'amico morto, l'ultima copertina di 'Charlie Hebdo' dedicata al suo libro - Lasciati soli anche da noi - Il cuore dell'Occidente»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 08/01/2015, a pag. 1-2, con il titolo "Altro che moderati: nel Corano i precetti dei killer", il commento di Magdi Cristiano Allam; dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, con il titolo "Houellebecq: il romanziere sotto protezione, in lacrime per l'amico morto, l'ultima copertina di 'Charlie Hebdo' dedicata al suo libro", il commento di Stefano Montefiori; a pag. 1-42, con il titolo "Lasciati soli anche da noi", il commento di Pierluigi Battista; dalla REPUBBLICA, a pag. 1-31, con il titolo "Il cuore dell'Occidente", l'editoriale di Ezio Mauro preceduto da un nostro commento.


Le predizioni del mago Houellebecq: "Nel 2015 mi cadono i denti... nel 2022, faccio il Ramadan!"

Ecco gli articoli:

IL GIORNALE - Magdi Cristiano Allam: "Altro che moderati: nel Corano i precetti dei killer"



Magdi Cristiano Allam

Ciò che veramente mi sconvolge è il fatto che, subito dopo la condanna di rito e scontata della strage nella sede di Charlie Hebdo, la preoccupazione generale di tutti, quasi tutti, dal presidente americano Obama al presidente della Camera Boldrini, è di scagionare l'islam sostenendo che l'islam è una religione di pace, che Maometto non c'entra, che la stragrande maggioranza dei musulmani «moderati» sono contrari alla violenza e che i terroristi islamici sono una scheggia impazzita che offende il «vero islam». Eppure se c'è un caso emblematico che ci fa toccare con mano la contiguità e la consequenzialità sul piano del pensiero e dell'azione tra i sedicenti musulmani moderati e i terroristi islamici è proprio questo caso specifico che mette a confronto il divieto assoluto di raffigurare Maometto, precetto condiviso da tutti i fedeli di Allah, con l'esercizio della libertà d'espressione che è il fulcro della nostra civiltà occidentale.
Questa strage è la punta dell'iceberg di un contesto saturo di odio per la diffusione di vignette satiriche nei confronti del profeta dell'islam, alimentato e condiviso da lunghi anni da tutti i musulmani di Francia.
A partire dai «moderati» della Grande Moschea di Parigi, che rappresenta l'islam istituzionale ed è il referente del governo francese, e dai militanti «moderati» dell'Uoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia) che s'ispirano all'ideologia dei Fratelli musulmani, che nel 2007 intentarono e persero un processo contro Charlie Hebdo perché aveva ridiffuso delle vignette su Maometto bollate come blasfeme pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Così come altri terroristi islamici, evidentemente meno professionisti di quelli di ieri, avevano devastato nel 2011 la sede di Charlie Hebdo con una bottiglia molotov.
Quella di ieri è stata una vera e propria azione di guerra condotta da terroristi che hanno combattuto e che uccidono spietatamente i nemici di Allah. Probabilmente si tratta di reduci dalla Siria o dall'Irak, dove si stima che almeno 600 cittadini francesi si siano uniti ai terroristi dell'Isis, dello Stato islamico dell'Irak e del Levante. Una realtà che ci obbliga a prendere atto che il terrorismo islamico nella sua versione più feroce è ormai un fenomeno endogeno, interno all'Europa, e che i suoi protagonisti sono cittadini europei musulmani. Così come nel maggio 2013 due terroristi islamici britannici, di origine nigeriana, decapitarono a Londra il soldato venticinquenne Lee Rigby, ieri a Parigi abbiamo assistito a un atto di guerra inedito per il contesto urbano europeo.
La Francia, che è il Paese europeo che accoglie il maggior numero di musulmani è, insieme alla Gran Bretagna, il Paese multiculturalista per antonomasia, quello più a rischio di attentati terroristici islamici. E non è un caso.
Quanto è accaduto evidenzia il fallimento di un modello di convivenza che precede il fallimento dell'attività dei servizi di sicurezza.
Alla base c'è l'ideologia del relativismo con cui noi europei ci autoimponiamo di non usare la ragione per non entrare nel merito dei contenuti delle religioni, perché aprioristicamente le vogliamo mettere sullo stesso piano attribuendo così a ebraismo, cristianesimo e islam la stessa valenza, finendo per legittimare l'islam a prescindere da ciò che prescrive il Corano e da ciò che ha detto e ha fatto Maometto.
Così come c'è l'ideologia parallela del multiculturalismo che ci ha portato a concedere a ciascuna comunità etnico-confessionale il diritto di autogovernarsi anche se, ad esempio, la poligamia e l'uccisione dell'apostata in cui credono indistintamente tutti i musulmani, sono in flagrante contrasto con il nostro Stato di diritto.
Il fallimento dei servizi di sicurezza è anch'esso legato a un deficit culturale frutto della tesi ideologica secondo cui l'islam è buono a prescindere mentre i terroristi islamici non sarebbero dei «veri musulmani», anche se - come si è ripetuto ieri - massacrano invocando «Allah è grande» e chiarendo «vendicheremo il nostro profeta Maometto».
Noi europei saremo inesorabilmente condannati ad essere sconfitti fintantoché non prenderemo atto che il terrorista islamico è solo la punta dell'iceberg di un retroterra che l'ha fatto emergere e che si sostanzia di una filiera che inizia laddove si pratica il lavaggio di cervello predicando e inculcando l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei nemici dell'islam.
La strage di Charlie Hebdo sostanzia il frutto avvelenato del reato di «islamofobia», il divieto di criticare l'islam, il Corano e Maometto. Si tratta di un pericolo che conosciamo bene anche in Italia.
Quell'atrocità potremmo viverla anche qui a casa nostra.

CORRIERE della SERA - Stefano Montefiori: "Houellebecq: il romanziere sotto protezione, in lacrime per l'amico morto, l'ultima copertina di 'Charlie Hebdo' dedicata al suo libro"


Stefano Montefiori                Michel Houellebecq

Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a Charlie Hebdo . Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a Sottomissione , il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No — aveva risposto Houellebecq —, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione — tante volte negata — di Houellebecq, che in Sottomissione mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale — e politico — francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti…» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo». Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Era un dibattito avvincente, toccava tutti. Il massacro a Charlie Hebdo lo rende ancora più centrale ma tutto è già cambiato, la Francia non sarà più la stessa. Michel Houellebecq, atteso stasera alla trasmissione di punta a Canal Plus, dovrà decidere se, e come, partecipare.

CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista: "Lasciati soli anche da noi"


Pierluigi Battista

Tutti dicono: non cederemo. Purtroppo abbiamo già ceduto quando, impauriti e indossando buoni sentimenti ecumenici, lasciammo solo Charlie Hebdo che pubblicava le vignette danesi che satireggiavano sull’Islam. Al settimanale non condividevano quelle vignette e ne detestavano il cattivo gusto. Ma, libertari e anticonformisti, irriverenti e lontanissimi dall’ideologismo militaresco della satira nostrana, le pubblicarono lo stesso. Non ci siamo accorti che, lasciando soli i giornalisti e i vignettisti di Charlie Hebdo, li esponevamo alla vendetta del fanatismo islamista. Non c’eravamo accorti dell’assassinio rituale del regista Theo van Gogh in Olanda. Non c’eravamo accorti che il vignettista Kurt Westergaard era stato costretto a rifugiarsi in una stanza blindata mentre due energumeni tentavano di trucidarlo a colpi d’ascia.

Non c’eravamo accorti della persecuzione dell’«infedele» Ayaan Hirsi Ali, in fuga da fondamentalisti che vogliono azzannarla per farle pagare con la vita la sua «apostasia». Non c’eravamo accorti che non solo Salman Rushdie era costretto a fuggire per sottrarsi a una fatwa planetaria, ma che il suo traduttore giapponese, Hitoshi Igarashi, era stato sgozzato e quello italiano, Ettore Capriolo, lasciato in una pozza di sangue, vivo per miracolo, mentre intellettuali prestigiosi in tutto il mondo accusavano l’autore dei Versi satanici (neanche letto, peraltro) di essersi meritata la condanna a morte per aver offeso Maometto. Ce ne siamo accorti ora, che con la strage di Charlie Hebdo abbiamo vissuto ieri l’11 settembre dell’Europa. Non è un paragone esagerato, anche se il numero delle vittime è di molto inferiore. Il paragone consiste nell’alto valore simbolico delle due carneficine. Nel 2011 si volle colpire con le Torri Gemelle il simbolo della ricchezza, del potere, dell’Amerika, dell’Impero, dell’Occidente opulento e «infedele». Ieri, massacrando la redazione di un giornale satirico, si è voluto colpire il simbolo della libertà, dell’opinione eterodossa, del dissenso sarcastico . Nella guerra culturale che il fondamentalismo jihadista ha scatenato contro il nostro «stile di vita», la libertà la critica, l’ironia, l’irriverenza, il rifiuto del dottrinarismo autoritario, la pluralità dei valori sono il Male da sradicare, il peccato da estirpare, la depravazione da colpire. In Pakistan e in Nigeria colpiscono le scuole, i libri, le ragazze che vogliono frequentare le aule scolastiche. In Europa vedono l’antitesi di ciò che vorrebbero imporre con la forza delle armi: la sottomissione (come recita il titolo del romanzo di Michel Houellebecq), l’obbedienza assoluta, la censura universale, la liturgia della subalternità, la cancellazione di ogni tentazione critica. Essenziale delle democrazie europee e occidentali, amava ricordare il compianto Lucio Colletti, è la «critica di se stessi», il continuo riesame delle opinioni dominanti, l’autoscrutinio minuzioso e quasi maniacale nella sua intransigente volontà di non lasciare alcunché di indiscusso, di dogmatico, di tramandato. La satira, banalizzata nella normalità della comunicazione politica ordinaria, diventa invece un’arma micidiale per i fondamentalisti, i fanatici, i sacerdoti di regimi oppressivi e asfissianti. La satira accoppia cultura e sorriso, ironia e critica. Le sue vignette non portano solo argomenti freddi, ma impongono una loro estetica e anche l’arte, l’estetica, le immagini, i colori, la stessa raffigurazione del sesso sono tentazioni demoniache che i custodi di una dottrina implacabilmente totalitaria non possono letteralmente sopportare. Ora sui social network dilaga il motto «Je suis Charlie». Magari fosse vero. Magari ci si rendesse conto della solitudine in cui abbiano confinato i disegnatori e i giornalisti del settimanale satirico che i fanatici islamisti ieri hanno voluto annientare. Sarebbe il caso che chi li criticò nel 2006, indicando il settimanale come «oggettivo» fomentatore della guerra di religione, si astenesse oggi dalla virtuosa identificazione con le vittime del massacro. Sarebbe il caso di capire in cosa consiste il valore della libertà, della libertà culturale, della libertà d’opinione, della libertà delle donne, della libertà di stampa, della libertà di satira. Delle libertà che anche alcuni figli della nostra Europa, non solo gli «alieni» che vengono da un mondo lontano, anche chi parla perfettamente inglese o francese perché in quelle lingue è cresciuto, considerano un peccato da punire, anche con la morte violenta. Sarebbe il caso di capire bene, nell’Europa un po’ stordita e un po’ esausta, chi sono i nemici, senza edulcorazioni dettate dall’opportunismo. Senza isterismi di reazione, ma con la calma della ragione, con la forza di valori che non vorremmo veder scomparire. E per dire «non cederemo»: ma stavolta sul serio.

LA REPUBBLICA - Ezio Mauro: "Il cuore dell'Occidente"

Il commento in prima pagina di Ezio Mauro è condivisibile con alcune riflessioni. Nel titolo scrivere "Jihad", ovvero "guerra santa", è solo una parte del tutto, dove il tutto si chiama islam.
Da qualche mese Repubblica ha modificato la propria linea verso il terrorismo islamico, e Informazione Corretta lo ha sottolineato in più occasioni.
Avremmo voluto che Mauro nell'editoriale, citando i precedenti, avesse ricordato che la scuola di Tolosa è stata attaccata perché ebraica, non era solo una scuola. L'obiettivo stesso del Califfato non è solo la conquista dell' Europa, ma anche lo sterminio degli ebrei e la distruzione di Israele, lo Stato ebraico.
Se oggi in prima linea c'è l'Europa, questo è dovuto a quei motivi che Mauro bene illustra.
Israele, diversamente dall'Europa, da almeno un secolo conosce direttamente la natura totalitaria di gran parte del mondo arabo-musulmano.
Ci auguriamo che Repubblica, in base a queste considerazioni, vorrà ricordare la stretta alleanza tra islam e nazismo, un precedente storico che aiuta a capire la vera natura dell'islam. E che Umberto Eco ricorda nell'intervista al Corriere che riprendiamo in altra pagina.

Ecco l'editoriale di Ezio Mauro:


Ezio Mauro

Con un’azione militare contro il settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi il terrorismo islamista porta la morte nel cuore dell’Europa e della sua crisi, scagliando il nome di Allah e il fuoco dei kalashnikov contro un altro simbolo della democrazia: un giornale. Restano uccise 12 persone, poliziotti, giornalisti, un economista, il direttore, i vecchi vignettisti famosi in tutto il mondo come Wolinski, con una vita irriverente trascorsa a celebrare l’amore e a mettere a nudo il potere, i suoi riti e i suoi inganni. Anche il potere del fanatismo, naturalmente, quello che Salman Rushdie chiama oggi su Repubblica il “totalitarismo religioso”. Il pretesto antico, eterno e meccanico come una fatwa, è quello delle vignette su Maometto pubblicate nel 2006, già bersagliate da bombe molotov contro il giornale quattro anni fa.

Ma il bersaglio, com’è evidente, è la libertà in cui viviamo credendo di essere in pace, senza nemmeno accorgerci che quella libertà è eversiva e colpevole per il fanatismo proprio perché diventa costume civile quotidiano, normale modo di vivere, meccanismo di garanzia reciproca che ci scambiamo l’un l’altro in ciò che chiamiamo società, dove la nostra esistenza si incontra e si combina con le vite degli altri, trovando una regola comune nel rispettare i diritti altrui mentre vogliamo vengano tutelati i nostri. C’è uno scarto evidente, a volte vistoso, tra i principi che affermiamo e la traduzione che ne facciamo nella politica, nelle pratiche di potere grandi o piccole, nell’operato degli Stati democratici, nella nostra condotta personale. E tuttavia c’è un orizzonte collettivo in cui ci riconosciamo che molto semplicemente tende al bene comune, ad uno sviluppo inclusivo che sappia tenere insieme la libertà economica e le libertà individuali che sono nate proprio in questa parte del mondo. Oggi ciò che noi siamo è ciò di cui moriamo. Perché il terrorismo fanatico sembra esattamente consapevole di una nostra identità trascurata, mal sopportata da noi stessi, considerata stanca come le nostre istituzioni estenuate, la nostra democrazia ingrigita ed esausta. Poi alziamo gli occhi, davanti agli spari ad nella redazione di un settimanale trasformato in simbolo, e scorriamo l’elenco dei santuari civili della grandiosa banalità democratica scelti come bersaglio: una scuola a Tolosa, un museo ebraico a Bruxelles, un caffè a Sidney, il parlamento a Ottawa e infine oggi un giornale a Parigi. Sono cinque angoli — tra i tanti — della nostra struttura civile in cui si incontrano le credenze democratiche nella libertà e nel progresso. Libertà di studiare, di far politica, di non discriminare tra le creature umane, di confidare nella trascendenza o nell’umano, di scambiare lavorare e consumare, di conoscere e di essere informati, per poter partecipare. L’assalto a un settimanale ci ricorda quanto i giornali siano insieme simbolo e sostanza di questa civiltà che chiamiamo Occidente e di cui siamo meno consapevoli di coloro che ci hanno trasformati in nemici, anzi in vittime designate. I giornali portano in sé il dovere di informare e il corrispondente diritto di conoscere e sapere. Sono il prodotto e il metro di misura della democrazia di un Paese, la conferma che il potere è obbligato al rendiconto, la garanzia che non esistono zone franche, la testimonianza che in una società aperta ci sono diverse letture della realtà possibili, e il cittadino può confrontarle tra loro, così come può scegliere. I terroristi ci confermano che non c’è libertà senza i giornali. E che la libertà dei giornali arriva fin dov’è necessario, fino all’irriverenza nella storia di Charlie Hebdo. La dimensione fanatica, il meccanismo totalitario non tollerano un’informazione libera. Addirittura non concepiscono la satira. Sanno perfettamente, nel loro istinto, che informazione, libertà e satira sono elementi fondamentali, naturali di una democrazia. E la democrazia è il loro vero bersaglio. Non tanto la democrazia delle istituzioni, giustamente protetta nei suoi luoghi sacri: piuttosto la democrazia dei diritti che si traduce nella materialità della vita quotidiana, nel nostro costume civile comune, così naturale connaturato da diventare quasi inconsapevole. Se vogliamo che i morti di Parigi abbiano un significato morale e politico anche per noi, oltre al significato simbolico e militare per i terroristi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza di ciò che noi siamo. Si chiama Occidente, cioè quella parte della cultura e del mondo che afferma di credere appunto nella democrazia come pratica che regge la cosa pubblica e la convivenza civile. Recuperata questa coscienza, dobbiamo prendere atto che proprio a questa identità è stata dichiarata una guerra mortale. Tanto più mortale quanto più i terroristi usano l’asimmetria come l’arma più potente, invincibile: kalashnikov contro la potenza disarmata di carta, inchiostro e idee, per esempio. Noi crediamo di vivere in pace e, fuorusciti con la democrazia vittoriosa da un secolo che ha regalato al mondo due totalitarismi, vorremmo estendere pace e democrazia nel mondo. Il terrorismo ci ricorda che i nostri valori più universali sono in realtà semplicemente occidentali, quindi colpevoli. È la profezia di Huntington che mirano a realizzare, nel rovesciamento del cal- colo razionale tra costi e benefici, nel ribaltamento terroristico del nostro codice che regola il rapporto tra l’ordine e il disordine, il bene e il male. La religione armata contro la civiltà dei giornali è un doppio choc per la Francia che vuole nude le pareti della République, senza simboli religiosi, ritenendo laicamente che nella convivenza pubblica tra la legge del creatore e la legge delle creature debba prevalere quest’ultima, perché tutela i diritti — tutti — ma di tutti, quindi di chi crede e di chi non crede. Arriva fin qui l’attacco dell’islamismo radicale: fino alla separazione tra Chiesa e Stato. Fino a indurre la paura che l’edificio statale classico stia traballando di incertezze di fronte all’urto dei fondamentalisti. Che le parole con cui siamo cresciuti — laicità, tolleranza, uguaglianza, libertà — non riescano a definire di senso compiuto il nuovo mondo. Che quindi anche la cultura politica sia disarmata. Nasce a questo punto il dovere di difendere non soltanto noi stessi ma addirittura la democrazia che è il vero bersaglio: il nostro modo di vivere, di amministrare noi stessi, la libertà di portaventa re a scuola i nostri figli, di credere nel loro futuro, di accompagnarli in una chiesa o in un museo, di riunire i nostri parlamenti. È evidente che se tutti diventiamo bersaglio in quanto tutti siamo ogni giorno espressione, per strada e al lavoro, di libere scelte di vita, difenderci con le misure classiche di polizia di- impossibile. Occorre prendere atto che il Califfato e ciò che resta di Al Qaeda sono il cuore della minaccia per noi e per la libertà di tutti: anche dell’islam moderato civile, naturalmente, che deve separarsi radicalmente dal totalitarismo fanatico che strumentalizza la religione a fini criminali di potenza. Da questa minaccia dobbiamo difenderci con ogni mezzo, naturalmente con il dovere di rimanere noi stessi cioè fedeli, anche nella difesa, ai principi democratici e alla legalità internazionale. L’altro dovere è un riarmo culturale della democrazia, nei cui principi dobbiamo dimostrare fiducia e non disprezzo come troppo spesso facciamo. Vale in primo luogo per il potere, che ha responsabilità grandissime con le sue pratiche incoerenti, soprattutto la mancata consapevolezza che il lavoro è il fondamento della dignità e della libertà materiale. Ma vale per ognuno di noi: difendere la democrazia oggi per poterla affidare domani ai nostri figli. Così come per ognuno di noi, oggi, suona la campana di Parigi.

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