Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/01/2015, a pag. 9, con il titolo "Cartoline da Bengasi: scenario di rovine dove c'erano palazzi", la cronaca di Lorenzo Cremonesi.
Lorenzo Cremonesi
La produzione di "lupi solitari" secondo Dry Bones:
Media faziosi (tv), Video Isis (social networks), predicatori di odio (moschee): il terrorista è servito
Bengasi devastata, paralizzata, bombardata, teatro di combattimenti che dallo scorso luglio la stanno progressivamente riducendo in macerie. «Non è una vera battaglia con un fronte preciso. Piuttosto trionfa la guerriglia. Casa per casa, strada per strada. Capita che un quartiere resti tranquillo per settimane, mentre attorno è l’inferno. Poi, in poche ore arrivano i cecchini sui palazzi più alti, compaiono le barricate di rifiuti e rottami per le vie, la circolazione diventa impossibile e anche qui si instaura l’insicurezza totale. Soltanto da ottobre i morti, tanti civili, sono stati oltre 2.300, lo segnalano i due ospedali locali», dice Mohammed concitato per telefono dalla sua casa nel centro.
Abitazione distrutta a Bengasi
È una vecchia conoscenza Mohammed. Aveva 24 anni nel febbraio 2011, quando l’avevamo incontrato tra i gruppi di giovani rivoluzionari che cercavano di scacciare le milizie di Gheddafi con pietre e bastoni. Fu uno dei figli del grande sogno: abbattere la dittatura durata quattro decenni, ricostruire una Libia aperta e democratica. Oggi, al pari di tanti come lui, maledice quei giorni, non solo è pentito e rimpiange la «normalità» dei tempi della dittatura, ma soprattutto non sa cosa fare, vorrebbe fuggire, partire. «Venti chilometri a est di Bengasi c’è una spiaggia dove due miei amici si sono imbarcati con tanti altri uomini sui pescherecci per l’Italia. Non so, vorrei provare. Ma non sono sicuro, con l’inverno...». Quando può scatta foto. Negli ultimi mesi sono diventate più cupe, più tragiche. A fine luglio ci aveva inviato quelle dell’università in fiamme e le scaramucce tra bande armate. Poi si è concentrato a riprendere gli scontri tra le milizie islamiche guidate da Ansar el Sharia e quelle più «laiche» legate all’ex generale Khalifa Haftar. In un primo tempo si era addirittura unito a queste ultime. «Haftar scaccerà i fanatici religiosi che sono legati ad Al Qaeda e infiltrati da Isis. Pazienza se lo sostiene l’Egitto. L’importante è liberarci da questi barbuti islamici», sosteneva in agosto. Ma, ultimamente, pare essersi ricreduto. «Haftar promette aria fritta. I suoi attacchi hanno creato unicamente distruzione e morte. Bengasi resta dominata dai qaedisti», diceva ieri.
Le sue foto dell’ultima settimana inviate a singhiozzo per l’elettricità che funziona solo sei ore al giorno, sono eloquenti. Bengasi, la città-madre del sogno della «primavera libica», per almeno un terzo è diventata rovine inabitabili, molte altre zone sono seriamente danneggiate. I quartieri centrali di Al-Salman, Al-Leti, e il Suq Al-Zahab (il tradizionale mercato dell’oro dove stavano anche i cambiavalute) sono abbandonati. Distrutti anche i bei palazzi degli anni Trenta lasciati in eredità dall’era coloniale italiana. Rivestimenti in marmo, alte finestre in stile rinascimentale, colonne e piazze sono irriconoscibili. Sembra però che sia ancora in piedi il vasto edificio serrato da due anni del consolato italiano, così pure il grande hotel Tibesti. Le bombe hanno gravemente danneggiato Assabra, il quartiere vicino al lungomare dove si trova il Tribunale. Un luogo simbolo: qui si riunì per settimane la ventina di avvocati e intellettuali che dal 20 febbraio di quattro anni fa guidò le sommosse. «Il Tribunale è bruciato, solo muri neri. Si spara nelle piazze attorno», dice Mohammed. Oltre ai tagli dell’energia, manca l’acqua. A fine anno i rubinetti sono rimasti a secco per quarantott’ore. Le scuole sono chiuse. Il cibo arriva ancora, ma con prezzi alle stelle. Porto e aeroporto sono inagibili. L’unico modo per i bengasini di lasciare la zona urbana è prendere la provinciale dell’interno, che sfiora da Sud le «montagne verdi» della Cirenaica, evita i posti di blocco dei gruppi legati al «Califfato» e all’autoproclamata «Repubblica Islamica di Derna», per raggiungere direttamente Tobruk passando dal deserto. In tanti l’hanno già fatto. Secondo gli osservatori locali, oltre 200 mila dei circa 800 mila abitanti hanno abbandonato la città. Complicato, lungo e pericoloso per loro dirigersi verso Tripoli. Il mosaico bellicoso delle milizie libiche ha frantumato il Paese in decine di micro-realtà tribali. L’accerchiamento di Bengasi si fa più serrato.
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