Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/12/2014, a pag. 17, con il titolo "L'amara jihad dei giovani europei", l'analisi di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, a pag. 23, con il titolo "Iraq, i caccia iraniani contro l'Isis: guerra parallela al fianco degli Usa", la cronaca di Guido Olimpio.
jihadisti francesi in Siria
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "L'amara jihad dei giovani europei"
Maurizio Molinari
Credono al verbo del Califfo Ibrahim, si arruolano nelle sue milizie e commettono ogni sorta di brutalità ma hanno anche nostalgia degli agi occidentali, si lamentano per gli eccessi di fatica e gli mancano gadget come l’iPod al punto da chiedere consiglio su come tornare indietro: è il ritratto della generazione europea di jihadisti che esce dalla sovrapposizione fra sondaggi condotti fra i musulmani del Vecchio Continente e confessioni contenute nelle e-mail inviate dal fronte dello Stato Islamico.
La popolarità del volontariato a favore del Califfato fra i musulmani europei emerge da una raffica di ricerche. Il Motivaction Group di Amsterdam ha intervistato 300 turchi-olandesi fra i 18 e 34 anni scoprendo che il 90 per cento di loro considera «eroi» i volontari partiti per la Siria e l’80 per cento «non vede nulla di sbagliato» nella Jihad «contro gli infedeli». La società russa Icm rivela che il 27 per cento dei francesi fra i 18 e 24 anni ha «un’opinione positiva» sullo Stato Islamico (Isis) mentre in Germania e Gran Bretagna il sostegno – a livello nazionale – è del 7 per cento. La britannica Populus aggiunge che a provare «attaccamento emotivo per lo Stato Islamico» è 1 giovane del Regno Unito su 7, 1 londinese su 10 e 1 scozzese su 12. Per Clive Field, direttore del progetto «Religioni britanniche in numeri» dell’Università di Manchester, sono dati che spiegano perché «ogni settimana una media di 5 connazionali parte per la Jihad» esprimendo «sostegno e ammirazione per i suoi scopi e metodi».
È tale entusiasmo che ha portato il Califfo a creare le «brigate europee» in Siria e Iraq, responsabili di brutalità come la decapitazione di 18 soldati siriani ripresa nel video sull’esecuzione dell’ostaggio americano Peter Kassig. Ma, a giudicare da quanto scrivono per e-mail molti di questi jihadisti, fra loro serpeggiano anche scontento, fatica, voglia di tornare e nostalgia per i costumi occidentali. Il tutto mentre, come ha detto ieri il segretario di Stato Usa John Kerry «i raid hanno inflitto danni sostanziali» all’Isis. A descrivere tali stati d’animo sono le e-mail che un numero consistente di seguaci francesi del Califfo ha scritto ai rispettivi avvocati, nel tentativo evidente di trovare delle scappatoie per tornare a casa, abbandonando la Jihad.
È il quotidiano «Le Figaro» a rivelare i contenuti di una corrispondenza elettronica che vede un jihadista chiedere al legale: «Se rientro in Francia cosa mi succederà? Cosa mi chiederanno di fare? Potrò evitare di andare in prigione?». Un altro volontario assicura che «qui praticamente non ho fatto nulla a parte occuparmi della distribuzione di abiti e cibo, pulire qualche arma e trasportare le salme dei combattenti morti negli scontri» confessando che «ad Aleppo l’inverno è alle porte, già inizia ad essere molto duro» e ciò lo spinge a pensare ad un ritorno anticipato.
La confessione della nostalgia per i gadget dell’Occidente arriva con l’e-mail nella quale un jihadista afferma «non ne posso più, il mio iPod qui non funziona più, devo rientrare!». E c’è anche chi si lamenta dello zelo degli ufficiali del Califfato: «Mi sono sposato e mi fanno lavare molti piatti ma adesso vogliono inviarmi a tutti i costi a combattere anche se non ho proprio idea di come si faccia».
Questo tipo di e-mail si moltiplicano e alcuni degli avvocati francesi che le hanno ricevute hanno deciso di coordinare la risposta, suggerendo ai jihadisti pentiti di preparare dei «dossier di documenti e prove» capaci di attestare ciò che affermano e quindi presentarsi ai consolati transalpini a Istanbul, in Turchia, o Erbil, nel Kurdistan iracheno, per «dimostrare la buona fede» chiedendo di essere considerati «pentiti» come avviene per i trafficanti di droga che scelgono di cooperare con la giustizia. Sarà dunque l’entità del contingente di questi «pentiti» a dare una misura dello scontento fra i veterani europei dello Stato Islamico.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: "Iraq, i caccia iraniani contro l'Isis: guerra parallela al fianco degli Usa"
Guido Olimpio
Sono guerre parallele. Condotte in modo separato ma con qualche forma di collaborazione. Tacita e, a volte, imbarazzata. Le combattono gli Usa insieme agli alleati, poi i rivali, ossia gli iraniani, i siriani. Tutti affratellati dalla necessità di piegare l'Isis. Ambiguità di una crisi dove mai nulla è chiaro o lineare.
Il Pentagono ha confermato che caccia iraniani hanno colpito, a fine novembre, posizioni jihadiste nella provincia irachena di Diyala. Attacchi condotti all'interno di una fascia di sicurezza che Teheran ha creato lungo il confine per prevenire infiltrazioni. Protagonisti dei raid i vecchi F4, i famosi Phantom, velivoli acquistati in Usa all'epoca dello Scià che l'Iran ha mantenuto in servizio cercando pezzi di ricambio sul mercato nero o dove ha potuto. La comparsa degli F4, filmati anche dalla tv Al Jazeera, è un'evoluzione di quanto avvenuto a partire dall'estate. Teheran ha mandato i consiglieri ad assistere curdi e milizie irachene, quindi ha prestato dei Sulchoi 25 a Bagdad — si dice insieme ai piloti —, infine ha ostentato la presenza del generale Qasem Soleimani, il responsabile della Divisione Qods, l'apparato speciale dei pasdaran. Lui si è fatto fotografare su tutti i fronti per dire: siamo noi a coordinare la controffensiva sul terreno. In parte è vero, come è vero che le operazioni hanno goduto della protezione aerea degli Usa.
Si è così creata una collaborazione di fatto tra due avversari, pronti a negarla ma disposti ad accettarla. Ieri il segretario di Stato Kerry ha smentito che vi sia una cooperazione, però ha definito i raid «un evento positivo». E non è un mistero che proprio il capo della diplomazia americana avesse auspicato un'azione comune con gli ayatollah nel nome della lotta all'Isis. Più cauti gli iraniani — almeno in pubblico —, timorosi di irritare gli ambienti oltranzisti della Repubblica Islamica, ma comunque a loro agio in questa situazione. Hanno ridotto le distanze con gli Stati Uniti, hanno irritato due alleati importanti dell'America, Israele e l'Arabia Saudita, hanno provocato un attacco di bile a quella parte del Congresso che non vuole il dialogo con Teheran.
Dichiarazioni a parte, è impossibile pensare che l'Iran mandi i suoi Phantom senza qualche forma di comunicazione, magari via Bagdad, con gli Usa. Troppo alto il rischio di incidenti, con caccia e droni di molte nazioni che sfilano in uno spazio abbastanza contenuto. Se non lo facessero sarebbero degli irresponsabili. Per questo stesso motivo è plausibile che il Pentagono «parli» con i siriani. Gli aerei americani colpiscono spesso l'area di Raqqa, così come lo fanno i Mig di Damasco.
Ecco dunque la campagna parallela, ancora più contraddittoria, perché Washington per lungo tempo si è mossa per cacciare Assad. Ora l'obiettivo sembra sbiadito, anche se gli amici degli Usa nella regione pretendono la rimozione del rais che, furbescamente, imita Teheran e manovra per mettersi vicino agli Stati Uniti. Non potendolo fare politicamente, usa la carta militare per sottolineare che il vero nemico è l'Isis.
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