Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/11/2014, con il titolo "L'ultima jihad islamista ora è contro lo sport", il commento di Francesca Paci.
Francesca Paci
Come la diplomazia occidentale affronta il jihad
Da mesi i tagliagole moralizzatori dello Stato Islamico proibiscono la ginnastica agli studenti di Mosul. Lo sport è considerato una minaccia alla virtù come lo era nell’Afghanistan dei taleban, che usavano lo stadio di Kabul per lapidare le adultere, ma come lo è anche a Riad, dove sebbene il 75% delle donne soffra di obesità l’educazione fisica resta fuori dalle scuole pubbliche femminili, e nell’Iran che condanna Ghoncheh Ghavami a un anno di carcere per il tentativo di assistere a una partita di pallavolo maschile (è stata appena liberata su cauzione).
Le teocrazie, al contrario delle dittature, non vanno d’accordo con lo sport. Mentre i regimi passati e presenti, dal nazi-fascismo al comunismo sovietico fino all’Uganda di Amin o alla Corea del Nord, hanno sempre pompato (anche letteralmente) i propri atleti perché rappresentassero la Potenza Nazionale e al tempo stesso assorbissero le energie giovanili, chi detta legge nel nome di Dio fa leva sull’antinomia corpo/spirito a tutto danno del primo.
Il problema non è la religione in sè, come prova la sovrapposizione di umano e divino nei giochi olimpici dell’antica Grecia. Secondo lo studioso di origine algerine Mahfoud Amara gli sviluppi novecenteschi dello sport l’hanno associato al capitalismo e all’occidentale in modo tale da mandare in palla il mondo islamico: «Da una parte le società musulmane hanno accettato l’evoluzione dello sport come strumento di modernizzazione ma dall’altro molti movimenti islamisti vi hanno visto il simbolo del secolarismo e della deviazione dalla retta via della Umma». Gratta gratta però, lascia intendere Amara, dietro la paura del corpo c’è quella del corpo femminile, atavica ossessione del monoteismo assoluto ereditata alla grande dai custodi dell’integralismo islamico.
I duri e puri non fanno distinzioni di sesso. Non ne fa per esempio il leader di Boko Haram Shekau, che a nome dei taleban d’Africa ha condannato lo sport prima di fare strage tra i tifosi nigeriani di Brasile-Messico radunati per i Mondiali 2014. Non ne fanno neppure i fondamentalisti somali di Al Shabaab, anche loro balzati sul campionato di calcio per seminare morte nei bar del Kenya. E non ne fa il kamikaze che pochi giorni fa si è fatto esplodere in Afghanistan durante un torneo di pallavolo uccidendo 47 persone. Già i taleban «istituzionali» però, pur vietando una lunga lista di attività fisiche, dalle gare di aquiloni alle competizioni di buzkashi, chiudevano un occhio sul cricket: troppo popolare per essere bandito e, quantomeno, riservato agli uomini.
Si perché dall’Arabia Saudita che impedisce alle ragazze il corpo libero (ma fa affari con gli alleati del Golfo lanciati nel business di calcio e Formula 1) a Gaza, dove nel 2013 l’Onu ha cancellato la maratona internazionale perché Hamas non voleva che uomini e donne corressero insieme, la questione femminile si è andata sempre più intrecciando a quella sportiva. Nonostante poche atlete musulmane partecipino alle Olimpiadi sin dal 1964, la competizione ginnica è diventata la proiezione di quell’affermazione sociale in altre sfere negata. Così per esempio l’oro ai Giochi di Barcellona del ’92 costò l’esilio dell’algerina Hassiba Boulmerka, rea di aver corso i 1500 metri in shorts e messa al bando dagli estremisti del suo Paese.
L’islam in realtà non impone solo ora et labora, come suggeriscono i più radicali tra i predicatori, tipo il qatarino al Qaradawi. Ma il rigore dello spirito dettato ai sunniti dal neosalafismo e agli sciiti dai rigidi ayatollah fa a pugni con la fisicissima pilota iraniana Lale Seddigh o con la sprinter di Kabul Rubina Muqimyar, sotto sotto accusate in patria di prestarsi alla propaganda occidentale. Lo sport come avanguardia dell’emancipazione? Anche. Altrimenti perché averne tanta paura?
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