Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/11/2014, a pag. 1-28, con il titolo "Il Califfo a Roma? Non è uno scherzo", l'analisi di Angelo Panebianco.
Angelo Panebianco
Isis: il piano della conquista per (ri)creare l'arcipelago dei Califfati retti dalla legge del Corano
Sembra che una gran parte, forse la parte maggioritaria, dell’Italia pubblica soffra di un blocco cognitivo. Pare incapace di prendere atto dei radicali, irreversibili, cambiamenti intervenuti in Europa e in Medio Oriente, ha l’aria di non rendersi conto che violenza e crescenti rischi di violenza si diffondono intorno a noi, sembra non capire che di fronte alla violenza non si può altro che assumere una posizione intransigente o anche, se la situazione lo esige, fare uso della forza. Un tempo si credeva che la propensione italiana a pensare alla politica internazionale in termini irenici, come a un luogo in cui tutto possa essere risolto con il «dialogo», fosse solo una conseguenza della Seconda guerra mondiale. Le potenze sconfitte, Germania, Giappone, Italia — si disse — sostituirono nel dopoguerra il «commercio» alla «spada», cominciarono a pensare alla politica internazionale molto più in termini di affari che di deterrenza e di minacce armate. E il «dialogo», sicuramente, aiuta gli affari più della deterrenza. Pur facendo parte di alleanze militari quei tre Paesi furono ben lieti di delegare ai soli Stati Uniti il compito di agitare periodicamente il bastone.
Ma forse, nel caso italiano c’è di più. A causa della sua cultura politica sembra che l’Italia, pur con qualche meritoria eccezione, non riesca proprio a fare a meno di agire nell’arena internazionale ispirandosi a una sorta di wishful thinking , un’irresistibile tendenza a scambiare i propri sogni per realtà. Prendiamo due delle più gravi crisi in atto. In Ucraina, con l’annessione russa della Crimea e l’azione tuttora in corso dei militari russi a sostegno dei secessionisti delle regioni orientali, i rapporti fra Russia e Occidente sono irreversibilmente (e sottolineo: irreversibilmente) cambiati. Sono cambiati perché non un piccolo Stato (una Serbia o una Croazia) ma una grande potenza, la Russia, ha violato la regola su cui si fonda la pace in Europa: nessun mutamento territoriale può avvenire se non in modo consensuale. Chi dice che la Crimea era russa, e che dunque non c’è nulla di male nel fatto che la Russia se la sia ripresa, non coglie il punto. Tra Prima e Seconda guerra mondiale tantissimi Stati europei (Italia compresa) hanno perduto territori che erano appartenuti, magari anche per secoli, a quegli Stati. La pace in Europa c’è perché chi ha perso territori non se li va a riprendere con la forza. La Russia, una grande potenza che avrebbe dovuto contribuire, insieme alle altre grandi potenze, a mantenere la pace e l’ordine, ha violato quella regola.
Pensare che questo non muti irreversibilmente i rapporti in Europa è segno di cecità politica. E difatti le relazioni fra mondo occidentale e Russia sono sempre più conflittuali, come si è dimostrato anche in occasione del G20 appena concluso. Ma l’Italia fa eccezione, ha scelto di mantenere aperto in ogni modo il «dialogo» con Putin, dando l’impressione di ignorare il cambiamento avvenuto (come hanno ben documentato Massimo Gaggi e Marco Galluzzo sul Corriere di ieri), di ignorare soprattutto il riposizionamento strategico della Russia per la quale, ora, gli occidentali sono di nuovo potenziali nemici. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, nella sua intervista al Corriere , dice che occorre garantire sia l’autonomia ucraina che il ruolo della Russia. Gentiloni è un politico solido e competente (e pensiamo sia un bene che guidi la Farnesina in un momento così delicato) ma nel caso ucraino la sua ricetta, sfortunatamente, appare un po’ astratta e fuori tempo massimo. Più in generale, sembra che in questa crisi la classe politica italiana (Renzi e il suo governo, Berlusconi) sia in Europa la più restia di tutte a prendere atto del fatto che, in politica internazionale, non contano solo gli affari.
Il fotomontaggio di "Dabiq", organo dell'Isis, in cui una bandiera nera sventola in piazza San Pietro
E veniamo al caso per noi più inquietante di tutti, quello dello Stato islamico. Ormai continuamente il Califfo ripete che prima o poi arriverà a conquistare Roma, e il fotomontaggio di una Roma in cui sventolano le bandiere nere dello Stato islamico circola da mesi in Rete. Chi fa spallucce, chi pensa che si tratti solo di una sbruffonata, ha capito ben poco. Mai come in questo caso è lecito dire che l’ignoranza uccide. Già, perché il Califfo non sta facendo una sbruffonata a caso: sta citando, nientemeno, il Profeta, sta citando il detto attribuito a Maometto secondo cui arriverà un giorno in cui Roma, il centro della cristianità occidentale, cadrà in mani islamiche. Tanti musulmani, di tendenze pacifiche, hanno sempre pensato a quella profezia proiettandola in un futuro lontano e indefinito. Invece, lo Stato islamico sta dicendo ai musulmani di tutto il mondo che il momento di prendere Roma si avvicina e che questo verrà fatto con le armi. Diciamo che fischiettare o fare spallucce di fronte a una dichiarazione di guerra non sono gesti appropriati.
L’Italia pubblica è per lo più in preda al wishful thinking ma ci sono, fortunatamente, delle eccezioni. A cominciare dal presidente della Repubblica. Il suo discorso del 4 novembre sui pericoli che stiamo correndo richiedeva una discussione meditata, non solo applausi di circostanza. E ha ragione il ministro della Difesa Roberta Pinotti quando, proprio appellandosi alle cose dette da Napolitano, invita la classe politica a non trattare le forze armate come se fossero un qualunque settore di spesa pubblica improduttiva: da sottoporre a tagli anche a costo di indebolirne le capacità operative. Le nuove minacce, dallo Stato islamico al caos libico (minacce, peraltro, strettamente connesse) richiedono che non si facciano scelte miopi e autolesioniste in un così delicato settore. C’è uno scollamento preoccupante fra la realtà e le «narrazioni» pubbliche su di essa. Ridurre il divario fra il mondo come è e la nostra rappresentazione del mondo è essenziale per la nostra sicurezza.
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