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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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Corriere della Sera-La Repubblica Rassegna Stampa
07.11.2014 Obama sconfitto dalla sua politica estera: Iran e Cina
Cronache di Guido Olimpio, Enrico Franceschini

Testata:Corriere della Sera-La Repubblica
Autore: Guido Olimpio-Enrico Franceschini
Titolo: «Lettera segreta di Obama a Khamenei 'Accordo segreto contro l'Isis e sul nuleare'-Caro Barack, a Pechino parla di diritti umani, la libertà conta di più degli affari con i cinesi»
La sconfitta di Barack Obama ha una sola madre, lo stesso Presidente. Ne è la prova la scoperta di una lettera segreta tra lui e quel gentiluomo di Khamenei, che riconferma ancora una volta la stoltaggine della politica estera americana, la causa vera della sconfitta dei democratici.
La riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/11/2014, a pag.14, nella cronaca di Guido Olimpio.
Da REPUBBLICA riprendiamo invece l'esortazione allo stesso Obama da parte di uno scrittore cinese in esilio da anni a Londra, visto che  il presidente americano sta per andare in Cina. Cronaca di Enrico Franceschini.
Ecco gli articoli:
Corriere della Sera-Guido Olimpio: " Lettera segreta di Obama a Khamenei 'Accordo segreto contro l'Isis e sul nuleare"
Guido Olimpio

Khamenei, Obama
WASHINGTON-  Gli alleati regionali e i repubblicani non saranno contenti dell’ultima mossa di Obama. Perché conferma i loro sospetti di un possibile patto con il Diavolo. Il presidente americano ha scritto una nuova lettera, segreta, al leader iraniano Ali Khamenei. Un messaggio, rivelato dal Wall Street Journal , con il quale la Casa Bianca rilancia la collaborazione contro l’Isis. Un fronte comune con l’Iran subordinato però ad un’intesa sul programma nucleare.
Chiariamo. L’idea del baratto non è per nulla nuova. L’hanno proposta gli Usa, l’hanno in qualche modo sostenuta i mullah trovandosi, causa Isis, sulla stessa barricata. E il progetto non è stato mai sepolto, ma solo messo sotto il tappeto in attesa del momento propizio. A ottobre, mentre in Iraq e in Siria infuriavano i combattimenti, Obama ha deciso di rivolgersi direttamente a Khamenei con una missiva per rilanciare il dialogo in parallelo ai negoziati sul piano atomico di Teheran. Una mossa per andare oltre il presidente Rouhani. Alla Casa Bianca sanno bene che alla fine l’ultima parola spetta alla Guida suprema, l’unica che può imporre un’intesa e tenere a bada quelle forze apertamente ostili nei confronti dell’America.
Il problema è che Obama ha già scritto in passato a Khamenei, però i risultati non sono stati confortanti. E anche di recente il leader iraniano ha trovato modo di attaccare a fondo gli Usa rilanciando teorie cospirative ben note. A suo giudizio Al Qaeda e poi l’Isis non sono altro che manovre statunitensi per indebolire il mondo musulmano. Inoltre quando sono iniziati i raid contro i seguaci del Califfo, Teheran ha alzato il volume della propaganda criticando l’intervento. Anche se poi i suoi «consiglieri» militari, guidati dall’onnipresente generale Qasem Soleimani, hanno agito in Iraq godendo dell’ombrello aereo statunitense. E dunque, sul terreno, si è prodotta un’alleanza di fatto.
L’apertura della Casa Bianca, che è stata preceduta da contatti nell’arco di questi ultimi due anni anche attraverso intermediari, deve però superare non pochi ostacoli. Primo. La linea del «no» presente in parte della nomenklatura iraniana. Secondo. L’opposizione delle monarchie del Golfo e di Israele, contrari a qualsiasi concessione agli ayatollah. Non è un caso che gli Stati Uniti non abbiano avvertito gli alleati sull’iniziativa del presidente. Terzo. Evitare che il dialogo con l’Iran comprometta la schieramento anti Isis nel quale devono per forza esserci anche quei Paesi sunniti, come l’Arabia Saudita, profondamente ostili verso Teheran. Quarto. Il muro del Congresso, oggi dominato dai repubblicani e pronto a frenare l’eventuale riavvicinamento.
Non ci sarebbe nulla di peggiore per Obama che finire vittima della troppa fiducia in un possibile partner apparso fino ad oggi titubante. Ora la risposta tocca a Khamenei.
La Repubblica-Enrico Franceschini: "Caro Barack, a Pechino parla di diritti umani, la libertà conta di più degli affari con i cinesi "
Obama con il Presidente cinese   Enrico Franceschini
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
LONDRA .
«Barack Obama dovrebbe approfittare della visita a Pechino per denunciare le violazioni dei diritti umani in Cina. L’Occidente dovrebbe chiedere a gran voce il rilascio di Liu Xiaobo e degli altri dissidenti». L’auspicio di Ma Jian, lo scrittore cinese da anni in esilio a Londra, è solo un pio desiderio e lui per primo lo sa: «Purtroppo né Obama né l’Occidente faranno qualcosa del genere, perché la potenza economica di Pechino è un ricatto che induce tutti i suoi interlocutori al silenzio ». Ma l’autore di Tira fuori la lingua, Spaghetti cinesi e Pechino in coma, i romanzi (tutti usciti in Italia con Feltrinelli, che a marzo pubblicherà il suo nuovo libro, La via oscura) che lo hanno fatto mettere al bando in patria e costretto a emigrare per non finire anche lui in prigione, mantiene un cauto ottimismo a lungo termine: «Anche la Cina conoscerà la democrazia, solo con un po’ di ritardo», dice ironicamente in questa intervista, concessa a Repubblica alla vigilia del viaggio a Pechino (che inizia domenica) del presidente americano, in cui potrebbe essere discussa la sorte di Liu Xiaobo, lo scrittore condannato a 11 anni di carcere nel 2009 per “sovversione” e insignito l’anno seguente del premio Nobel per la pace per il suo impegno a tutela dei diritti umani in Cina.
Liu Xiaobo è tenuto prigioniero dalla Cina come un sepolto vivo: nessun contatto con l’esterno, neanche con il suo avvocato, non ha nemmeno il permesso di scrivere. Le pare che questo muro di silenzio abbia contribuito a farlo dimenticare dall’Occidente?
«Il muro del silenzio non è provocato dalle misure contro Liu Xiaobo, o almeno non solo da quello, bensì in primo luogo dalla strapotere economico della Cina. L’Occidente ha le mani legate nei confronti di questo colosso dell’economia globale. Pur di fare affari con Pechino, la comunità internazionale rinuncia ai propri principi etici».
Tra pochi giorni Obama sarà in Cina. Pensa che parlerà pubblicamente di Liu o che almeno farà pressioni privatamente sul presidente Xi Jinping per ottenerne il rilascio?
«Non credo che lo farà. Obama vive nell’epoca dell’economia integrata e globalizzata. Sa bene che termini come diritti umani, democrazia, valori universali, equivalgono a brutte parole in Cina e dunque, in nome dei propri interessi economici, eviterà di parlare di diritti umani».
Ma cosa pensa che dovrebbe fare l’Occidente davanti la nuova superpotenza della terra?
«Dovrebbe accettare la sfida, senza nascondersi, denunciando Pechino e chiedendo il rilascio dei dissidenti come Liu. Invece, investendo in Cina, ha contribuito al boom dell’economia cinese. Se il Partito comunista cinese, uscito male dalla strage di piazza Tiananmen nel 1989, ha recuperato fiducia, è in buona parte merito dell’Occidente. Dunque non mi aspetto molto dai paesi occidentali ».
Crede che libertà economiche possano spingere gradualmente la Cina verso le libertà politiche?
«È da escludere che accada sotto il governo del presidente Xi Jingping, che si ispira piuttosto al modello autocratico di Putin in Russia e di Singapore ».
Liu Xiaobo disse una volta che la cosa migliore per la democratizzazione della Cina sarebbero stati “300 anni di colonialismo occidentale”. In quale altro modo l’Occidente può esportare i propri ideali democratici in Cina? Forse con una “colonizzazione” culturale, attraverso cinema, musica, letteratura?
«Chiunque sogna una vita libera. Ci arriveranno anche i cinesi, ma con un po’ di ritardo. Chi è stato per tanto tempo sotto un regime totalitario non può capire immediatamente cosa sia la democrazia. L’attuale sistema monopartitico è diverso dalla dittatura maoista ed è ciò che meglio corrisponde alle esigenze dei cinesi di oggi: ripudiare libertà e democrazia in cambio del benessere. La maggior parte dei cinesi non ha interesse per le libertà politiche, è interessata solo ai soldi. Penso quindi che, più di una colonizzazione culturale, l’Occidente dovrebbe fare percepire ai cinesi la propria fede nelle libertà individuali. Ma ha timore a farlo, per non urtare la suscettibilità di Pechino».
Cosa provò quando Liu Xiabo ricevette il Nobel per la pace? Si aspettava quello che sarebbe poi successo? Immaginava che anche la moglie del dissidente venisse di fatto arrestata e tenuta come prigioniera in ospedale?
«Ho conosciuto Liu nel 1989. Fui molto felice per il Nobel, avevo timori per le conseguenze ma non mi aspettavo un trattamento così severo nei suoi confronti. Dopo la sua condanna, né sua moglie Liu Xia né io siamo più riusciti a raggiungerlo telefonicamente Liu Xia, segregata in casa propria, soffre ancora di più di lui. So che fuma e beve pesantemente, potrebbe crollare prima di lui. Sebbene le prigioni della Cina non siano come quella in cui era rinchiuso Mandela in Sud Africa. I dissidenti che sono stati rilasciati sono usciti profondamente segnati. È raro che poi dicano ancora quello che pensano. Xiaobo sarà più fortunato? Non lo so. Se e quando uscirà di prigione, potrebbe essersi spento anche lui».
E lei? Ha timori per se stesso? Le manca la Cina? Vorrebbe tornarci?
«Il mio sogno sarebbe di annientare almeno l’inquisizione contro la letteratura, magari non ce la farò ma farò del mio meglio per contrastarla e onorare il mio mestiere di scrittore. I miei familiari rimasti in Cina non capiscono, del resto sono sottomessi al partito e tenuti come in ostaggio. Sì, mi manca il mio Paese, mi piacerebbe tornare nella mia Qingdao di quando ero piccolo. Ma forse ci arriverò soltanto dentro un’urna cineraria». ( ha collaborato Silvia Pozzi)
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