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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
06.11.2014 Elezioni Usa: disfatta Obama, costano gli errori in politica estera
Analisi di Maurizio Molinari, intervista di Antonio Monda a Martin Amis

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Antonio Monda
Titolo: «L'uccisione di Bin Laden e la guerra con i droni offuscate da Isis e Ebola - 'Traditi i sogni degli americani, ora la sinistra dovrà riflettere'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, a pag. 4, con il titolo "L'uccisione di Bin Laden e la guerra con i droni offuscate da Isis e Ebola", l'analisi di Maurizio Molinari; dalla REPUBBLICA, a pag. 11, con il titolo "Traditi i sogni degli americani, ora la sinistra dovrà riflettere", l'intervista di Antonio Monda a Martin Amis.


Obama: un'immagine che vale più di cento parole

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "L'uccisione di Bin Laden e la guerra con i droni offuscate da Isis e Ebola"


Maurizio Molinari        John McCain


Osama Bin Laden, ex leader di Al Qaeda

La sconfitta dei democratici nelle urne di Midterm nasce anche dallo scontento degli americani per le risposte date da Barack Obama alle sfide di Isis e Ebola, preannunciando ora un presidente incalzato dal Congresso repubblicano a compiere scelte più energiche in politica estera. «È assai raro che temi internazionali influenzino il voto degli americani» osserva Larry Sabato, politologo dell’Università della Virginia, ma se questa volta ciò è avvenuto lo si deve all’insicurezza collettiva dovuta alle minacce del Califfo jihadista e del virus-killer.
Il senatore dell’Arizona John McCain, che perse il duello presidenziale con Obama nel 2008, ha guidato i repubblicani in un’offensiva che ha equiparato le esitazioni militari di Obama contro Isis ai ritardi nella valutazione del pericolo-Ebola, proiettando l’immagine di un presidente incerto nella protezione dei cittadini. Ciò ne ha indebolito la credibilità di «Comandante in capo» facendo dimenticare i risultati positivi da lui ottenuti: dall’eliminazione di Osama Bin Laden all’uso droni per decimare Al Qaeda in Pakistan e Yemen, dai blitz in Somalia alla prevenzione di nuovi attacchi negli Stati Uniti. Ma i successi di Obama sono stati sul terreno della guerra segreta - pianificata da Leon Panetta e John Brennan - mentre le percezione di debolezza nasce dai tentennamenti davanti a minacce palesi come i tagliateste del Califfo. Tantopiù che dal Pentagono si sono moltiplicate le rivelazioni sugli errori di Obama: non aver lasciato truppe in Iraq dopo il ritiro, non aver attaccato Assad dopo l’uso dei gas ed essersi opposto alle truppe di terra contro Isis.
Da qui la previsione di una maggioranza repubblicana che tenterà di ottenere una brusca inversione di rotta sulla politica di sicurezza. La prima prova è dietro l’angolo. Entro il 24 novembre devono concludersi i negoziati sul nucleare di Teheran: Obama vuole un’intesa per centrare un obiettivo a lungo perseguito ma i repubblicani ora hanno più forza politica per impedirgli concessioni strategiche come anche per sbarrare la strada a «un’intesa presidenziale» con Hassan Rohani senza la necessità di un voto del Congresso. In maniera analoga i leader repubblicani chiederanno a Obama più aiuti a Kiev per arginare l’aggressività di Mosca e meno pressioni sull’alleato israeliano.
Poiché negli ultimi due anni di mandato il Presidente americano ha come obiettivo di lasciare la propria eredità politica alla nazione, Obama può affrontare tali sfide in opposte maniere. Può ascoltare il suggerimento di Henry Kissinger sfruttando le crisi con Isis, Teheran e Mosca per stabilire i «nuovi principi» attorno ai quali spingere la comunità internazionale a uscire dalla stagione del «disordine» oppure può continuare sulla strada intrapresa andando, su Iran o Medio Oriente, a prove di forza nella convinzione di avere la Storia dalla propria parte.
C’è però anche un’altra opzione: sfruttare la maggioranza repubblicana per accelerare il varo degli accordi sul libero commercio nell’Atlantico e Pacifico. Quale che sarà la strada prescelta, le difficoltà per Obama sono in crescita perché nulla è più invitante per gli avversari di un presidente americano indebolito: tutti tenteranno di sfruttare la stagione dell’«Anatra Zoppa» per strappargli quanto più spazio strategico possibile. Moltiplicando il rischio di attriti economici, conflitti militari e scivoloni politici.

REPUBBLICA - Martin Amis intervistato da Antonio Monda: "Traditi i sogni degli americani, ora la sinistra dovrà riflettere"


Antonio Monda       Martin Amis

Martin Amis appartiene alla numerosa schiera dei delusi da Barack Obama, e oggi afferma che si è trattata di una sconfitta prevedibile e meritata. Anzi per usare un suo termine, di una terribile disfatta. «È andata al di là delle peggiori aspettative — racconta nella sua casa di Brooklyn — ed è un risultato sul quale il mondo liberal dovrebbe riflettere, cosa che mi sembra non stia avvenendo». Lo scrittore britannico, da sempre un attento e appassionato osservatore della vita e della politica americana, è molto spesso negli Stati Uniti.
Cosa intende? «Che la prima reazione è stata quella di demonizzare l’avversario, parlare del risorgere delle forze reazionarie o di prendersela con l’elettorato, colpevole di non aver compreso quanto di buono è stato fatto in questi anni, come se si trattasse di un problema di comunicazione. L’analisi che invece mi aspetto è quella sui tanti errori commessi, specie in Medio Oriente, e sull’incertezza manifestata in tante occasioni che è finita per diventare debolezza. Anche gli osservatori stranieri non sono da meno: risorge l’anti-americanismo più greve e superficiale, che condanna come irrecuperabili le stesse persone che pochi anni fa hanno votato in maniera opposta o parla di un’America che si barrica dietro le proprie convinzioni. Insomma, la necessità di comprendere è sostituita dalla volontà di accusare e trovare un capro espiatorio».
Qual è la sua lettura su questa disfatta? «Con l’eccezione della riforma sanitaria, azzoppata nella realizzazione e certamente migliorabile, Obama ha fatto molto meno di quanto ci si aspettava. E in politica estera ha consegnato al mondo l’idea di una leadership debole o addirittura assente: ed è una cosa semplicemente inaccettabile per un cittadino americano. Questa delusione è da mettere in parallelo con le aspettative enormi che lui stesso aveva creato, grazie anche alla sua magnifica oratoria. Il titolo di un suo libro era l’”Audacia della speranza”: abbiamo visto poca audacia e le speranze sono state disattese».
Anche i giornali liberal come il “New York Times” in questi ultimi tempi sono stati feroci: in alcuni editoriali si è parlato perfino di incompetenza. «Non arriverei a questo, ma l’impressione costante è che Obama sia più un teorico che un leader. Non dimentichiamo che ha un background accademico: questo non è necessariamente un bene per chi deve comandare. Alla fine del primo mandato circolava la voce che fosse depresso, e non potesse prendere medicinali. Dava l’impressione che avesse compreso che il potere, in apparenza enorme, fosse in realtà molto limitato e soggetto ad una sequenza infinita di compromessi. E, soprattutto, di non avere il talento di gestirlo per ottenere il meglio. In questi ultimi tempi si e avuta l’impressione che avesse la consapevolezza che la navigazione della corazzata che guidava potesse essere spostata solo di qualche grado. E che reagisse a questa consapevolezza con sconforto e perfino con noia».
L’accusa ricorrente è quella di non essere un “comandante in capo”. «Se si eccettua l’uccisione di Osama Bin Laden, l’impressione è proprio questa, aggravata dalla crisi mediorientale degli ultimi anni. La risposta alla minaccia rappresentata dallo Stato Islamico è debole e oscillante».
Dove ha fallito il presidente? «Oltre alla debolezza in politica estera, il tentativo di sanare la ferita del razzismo ha sortito risultati molto modesti, così come quello delle incarcerazioni di massa di gente di colore. Anche sull’immigrazione i risultati sono scarsi. C’è tuttavia un dato generale, che prescinde la sua presidenza: Obama sta vivendo sulla sua pelle il declino dell’America: un fenomeno ancora nella fase iniziale, e che riguarderà soprattutto le prossime generazioni, ma tuttavia sembra senza via di ritorno. Il mio paese, l’Inghilterra, ha vissuto questo trauma con dignità, salvo momenti in cui ha creduto di essere ancora una grande potenza come nella crisi di Suez nel 1956: in America sarà tutto più traumatico, considerata la promessa di un paese che esprime energia e potenza».
Si può parlare anche di declino del progressismo americano? «Io parlerei del declino della sinistra planetaria: le prove offerte dai leader progressisti sono deludenti ovunque, e viviamo in società sempre più plutocratiche. È il denaro che comanda, come mai in precedenza, e le sinistre hanno accettato di stare al gioco, con esiti modestissimi, e, soprattutto, perdendo la propria anima. I leader tentano di differenziarsi con riforme su questioni etiche, ma questo non può essere un discrimine tra la destra e la sinistra».
Cosa salva di questi primi sei anni della presidenza Obama? «L’Obamacare, ossia la riforma sanitaria, nonostante i compromessi che ha dovuto accettare e le troppe complicazioni burocratiche. Milioni di persone oggi godono di una copertura un tempo inimmaginabile, e la riforma ha avuto anche il merito di far penetrare nella coscienza del popolo americana un principio lontanissimo dalla sua mentalità: il fatto che il paese ti chieda di spendere una parte dei propri guadagni per la salute altrui».

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