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Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.11.2014 Libia: pace lontana, in un paese dove la soluzione è il ritorno a governi tribali
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: Corriere della Sera
Data: 04 novembre 2014
Pagina: 28
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Un'assemblea di pace per la Libia dilaniata»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/11/2014, a pag. 28, con il titolo "Un'assemblea di pace per la Libia dilaniata", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.


Bernard-Henri Lévy


Manifestanti pro-Isis in Libia

Viaggio lampo a Tunisi. All'aeroporto, alcuni nostalgici di Gheddafi, urlanti e patetici. Nelle ore seguenti, vari siti complottistici imbastiscono i più stravaganti scenari per spiegare la mia presenza, con Gilles Hertzog, sul suolo tunisino: un incontro occulto con il partito Ennahda, una conferenza immaginaria a Hammamet in compagnia di un jihadista, un appuntamento segreto con un ministro o un presidente. Sorvolo sul resto, poiché l'essenziale evidentemente è un altro. La piccola agitazione che ci circonda non riesce a distoglierci dall'unico appuntamento che meriti, cioè quello del cuore e dello spirito con la nostra cara e sofferente Libia. Sabato scorso, in una sala riunioni del nostro albergo, abbiamo di fronte Waheed Burshan, l'ingegnere della città di Gharyan incontrato nel giugno 2011, mentre organizzava il ponte aereo che avrebbe rifornito di viveri e armi le montagne del Jebel Nefusa. Attorno a lui e a Gazi Moalla, l'amico tunisino artefice dell'incontro, alcuni rappresentanti di Bengasi, Tripoli, Zauia, Misurata, Ifren o Nalut, città dai nomi per noi familiari e che furono le stazioni del calvario, poi della liberazione, di un popolo che non era il nostro e di cui abbiamo sposato la causa. Uno degli invitati, soprattutto, colpisce: Fadil Lamine che — alla maniera di André Gide in una sua famosa battuta «nato a Parigi da un padre di Uzès e da una madre normanna, dove vuole, signor Barrès, che metta radici?» — rivela come gli riuscirebbe difficile, essendo suo padre di Tripoli e sua madre di Benghazi, riconoscersi in una delle fazioni che si disputano un potere del resto inesistente. Non è un caso — sembra dire — se cade su di lui la notevole responsabilità del Consiglio del dialogo nazionale che, da aprile 2013, lavora per superare le divisioni etniche e politiche che dilaniano la nazione libica. Con le lacrime agli occhi, evochiamo la memoria della sua ex vicepresidente, Saiwa Bougaighis, la giovane, coraggiosa avvocatessa, militante dei diritti dell'uomo e della donna, assassinata il 25 giugno scorso a Bengasi. Ricordiamo un giorno di marzo del 2011, quando aveva contribuito ad organizzare la prima assemblea unitaria delle tribù di Cirenaica e 'Tripolitana, cui eravamo stati invitati, durante la quale aveva detto fieramente: «C'è una sola tribù in Libia, la tribù della Libia libera»; frase che fu per noi sorta di motto nei sette mesi di solidarietà con nazione araba insorta. È questo motto che bisogna resuscitare, dice Burshan gravemente. È questo spirito che si deve contrapporre a tutti co ro che vogliono infrangere un sogno e che, se on vengono fermati, potrebbero far scorrerei umi di sangue promessi dalla dittatura, ma stati dall'intervento alleato. Che fare, chiediamo, quando sembra che ciascuno si preoccupi solo el proprio tornaconto in un Paese in rovina? Quale soluzione, per una nazione che ha due Primi ministri, due parlamenti, e dove lo Stato non esiste? Si ricorre alla società civile, risponde pensie roso Burshan. Ci si affida a quegli uomini di buona volontà di cui parla uno dei vostri scrittori e di cui avete qui alcuni eminenti rappresentanti. Quando la politica fallisce e si continua con la guerra fratricida, c'è una sola via d'uscita: far capire a tutti che nessuno può vincere da solo e che la salvezza, o il suicidio, possono essere soltanto collettivi. E c'è un solo programma: convocare una sorta di Loya Jirga, una grande assemblea, dove tutti i protagonisti di questa rivoluzione interminabile e divoratrice saranno invitati e dove gli assenti saranno designati come nemici della pace e della Libia. Burshan e i suoi amici contano sulla Francia. Non vogliono interventi esterni, ma vedono di buon occhio una missione di mediazione condotta dalla nazione amica per eccellenza. Eravate con noi durante la guerra, dicono, siate con noi durante la pace. Siete stati nostri compagni di armi, siate nostri compagni nella riconciliazione e nella ricostruzione. Ora che il terrorismo è internazionale, le nostre frontiere non sono anche le vostre? Quanto al Sud libico, diventato l'arsenale e il santuario della núova setta di assassini che imperversa nella regione, perché non cominciare, insieme, a renderlo più sicuro? La riunione si conclude con un ultimo intervento dei partecipanti, che prefigura quasi il governo di saggi e di esperti sognato da Burshan e di cui si intravede improvvisamente la fattibilità. È giunto il momento, per lui, di tornare di corsa in Libia: è appena arrivata notizia di un bagno di sangue a Kekla, nel Jebe Nefusa, vicino a casa sua. E giunto il momento, per noi, di tornare a Parigi: non è escluso che siamo stati i testimoni di uno di quegli eventi che, come dice Nietzsche, accadono a passi di colomba ma sono, talvolta, i più decisivi, e bisogna trasmetterne la notizia senza indugio. Mi rendo ben conto che non abbiamo chiuso con il nostro giuramento libico. Che non siamo dispensati dalle nostre responsabilità nei confronti degli uomini che il nostro Paese ha aiutato a liberarsi e che oggi ha il dovere di aiutare a risollevarsi. La speranza non è morta. La lotta, pacifica, continua.

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