Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 07/10/2014, a pag. 17, con il titolo "Rushdie: 'Usare la forza non basta per batteere quest'esercito di fanatici' ", l'intervista di Pablo De Llano a Salman Rushdie.
Pablo De Llano Salman Rushdie
John "il britannico": da rapper a decapitatore dell'Isis
Lo scrittore angloindiano Salman Rushdie ha vissuto gli anni '90 spostandosi da un nascondiglio all'altro, sempre con guardie del corpo al seguito, a causa della sentenza di morte emessa dall'ayatollah Khomeini per il suo libro I versetti satanici. Negli anni 2000 la pressione è venuta meno e Rushdie ha potuto ricominciare a condurre una vita normale. Sabato scorso, è intervenuto all'Hay Festival della città messicana di Xalapa, dove ha riflettuto sulla forza del romanzo e passato in rassegna i classici latinoamericani del XX secolo.
Seduto in una saletta dell'area riservata agli incontri d'affari, nel suo albergo, Rushdie ha invece voluto parlare dell' irruzione nel mondo dello Stato islamico e del significato all'interno dell'Islam di questa organizzazione che ha fatto dell'omicidio efferato di ostaggi occidentali il proprio emblema militare.
Che cosa ha pensato quando ha saputo che l'uomo sospettato dell'assassinio del giornalista James Foley in Siria era un rapper londinese?
«È stato un orrore, ma non mi ha sorpreso. Questo fenomeno di gruppuscoli della comunità islamica britannica che si radicalizzano va avanti da parecchio tempo. In questo momento ha semplicemente toccato un livello nuovo, il livello dell'atrocita».
Perché tanti giovani occidentali partono per fare la jihad?
«Non è una domanda a cui si possa rispondere con una sola frase. Esiste una rabbia enorme, che deriva in parte dal periodo di difficoltà sociali ed economiche che stiamo vivendo, ci sono molte persone che non hanno un lavoro e nemmeno speranze di averlo. Questo elemento si combina con le cose che sentono nelle moschee, che permettono loro di scaricare su altri la colpa di quello che succede. Messe insieme, queste due cose possono spingere qualcuno agli estremi. È un peccato, perché per la maggioranza delle persone dei vari gruppi etnici le cose sono migliorate dagli anni '80. Ma al tempo stesso c'è stata una radicalizzazione progressiva di alcuni gruppi. Io credo che uno dei problemi sia l'arrivo indiscriminato di religiosi estremisti in Inghilterra, finanziati dall'Arabia Saudita e dall'Iran, che vengono a parlare ai ragazzi usando un linguaggio molto bellicoso».
Perché le decapitazioni?
«Per me è un'azione che mostra un allontanamento assoluto da qualsiasi cosa possa essere definita civiltà. Naturalmente lo fanno per scioccare l'opinione pubblica e conquistare la prima pagina. Questa gente sta dimostrando di saper gestire egregiamente i mezzi di informazione. Usano le reti sociali come strumento di reclutamento e usano queste immagini perché sanno che è il modo per ottenere un'attenzione globale e creare una paura estrema. E funziona, dal loro punto di vista. Spesso, negli scontri con l'esercito iracheno, i soldati iracheni erano talmente spaventati che se la sono data a gambe».
Che cos'è lo Stato islamico nell'evoluzione del fondamentalismo?
«La novità è il potere organizzativo. Al Qaeda, nel suo momento di massimo sviluppo, era composta da un numero di militanti relativamente piccolo: non potevano uscire allo scoperto, vivevano dentro covi clandestini, grotte. Ora abbiamo di fronte un esercito molto organizzato e ben armato, con grandi risorse finanziarie che derivano in parte dal mercato nero del petrolio e in parte dal fatto che qualcuno evidentemente li rifornisce di denaro. Possiamo fare congetture su questo o quel Paese, ma la realtà è che non sappiamo da dove vengono questi soldi. Quello che sappiamo è che hanno tanti soldi e sono estremamente organizzati. È questa la novità: il fanatismo ormai è un esercito».
Ci sono alternative per combatterli che non siano militari?
«No. O meglio, non è possibile combatterli solo con la forza. È necessario un governo multietnico in Iraq, che si conquisti la fiducia delle diverse comunità. E una cosa molto interessante adesso è che ci sono Paesi sunniti che si stanno unendo alla battaglia contro lo Stato islamico. Se si riesce a dimostrare che non sono i rappresentanti dei sunniti nella regione, può essere l'embrione di una soluzione non militare. Però è necessario contenerli militarmente, perché questo è quello che sono, un esercito. Un esercito di invasione».
Nei Paesi islamici si profila qualche via alternativa all'integralismo o alle dittature laiche?
«Che cosa intende con dittatura laica? Gente come Mubarak, Assad? Si, forse sono laici. Però il fatto drammatico è che questi Paesi non hanno avuto l'opportunità reale di cercare di sviluppare le istituzioni della società civile. Che era quello che chiedeva la gente all'inizio della cosiddetta "Primavera Araba". Volevano farla finita con i Mubarak e gli Assad, non volevano l'instaurazione di uno Stato islamico».
II risultato è stato controproducente? «II fatto è che questi movimenti sono stati sequestrati. Non è molto diverso da quello che avvenne con la rivoluzione iraniana, che fu un movimento di massa autentico contro lo scià, un movimento che includeva tutti i settori della società, dal Partito comunista al movimento femminista, passando dai sindacati, i socialisti o i religiosi. Poi Khomeini si ingoiò la rivoluzione, ma questo non è colpa della rivoluzione. Qui è lo stesso, io sono del parere che questi ragazzi abbiano dato voce a una volontà molto diffusa in tutti i settori di questo mondo, perché tutti vogliono la stessa cosa. Vogliono pace, vogliono libertà, vogliono poter uscire con le ragazze, vogliono poter uscire con i ragazzi. Vogliono avere la possibilità di dire quello che pensano senza finire in carcere. Sono desideri universali. Purtroppo in Egitto non è successo questo. Ma io sono convinto che la volontà di fondo in generale rimanga questa. Quando ci arriveremo? Non ne ho la più pallida idea».
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