Per la ricorrenza di Yom Kippur, pubblichiamo oggi, 04/10/2014, due pezzi, alquanto diversi. Quello di Fiamma Nirenstein, un commento legato alla situazione politica, e quello di Etgar Keret, intimista, che ricora episodi della propria infanzia, da REPUBBLICA, a pag.57.
Fiamma Nirenstein- "Oggi è Yom Kippur"
Fiamma Nirenstein
Entrando del digiuno di Yom Kippur penso all'indispensabile pentimento che il mondo intero dovrebbe dedicare alla continua denigrazione e delegittimazione di Israele che quest’anno ha avuto un picco nella reazione antisemita alla guerra di Gaza. Un Paese tormentato e torturato fin dalla nascita dal terrorismo, investito dall'odio religioso del mondo islamico quasi senza distinzione, l’unico che a fronte della pusillanimità di tutto l’Occidente e alla sua incapacità sa come come comportarsi e come difendere la sua democrazia, oggi, mentre ferve la guerra contro un terrorismo jihadista della stessa famiglia di quello di Hamas, dovrebbe ricevere il ringraziamento, il sostegno, l’ammirazione di tutti. Speriamo che il futuro ci porti almeno un parziale rinsavimento dell’Europa e degli Usa, che stanno pagando il prezzo della loro incompetenza e della viltà.
La Repubblica-Etgar Keret: " Perchè mi piace chiedere scusa quando è Yom Kippur"
Etgar Keret
Kippur è da sempre la festa che mi piace di più. Ancora dai giorni dell'asilo, quando a tutti gli altri bambini piacevano Purim per via dei travestimenti, Hanukkà per via delle frittelle e Pesach per via della lunga vacanza, io mi ero fissato su Kippur. «Se le feste fossero dei bambini — mi ero detto una volta, quando ero ancora un ragazzino — allora Purim e Hanukkà sarebbero i più popolari, Rosh Hashanà sarebbe la bella della classe e Kippur sarebbe un bambino così, un po' strano, solitario, ma il più interessante di tutti». Pensandoci adesso, la definizione «così, un po' strano, solitario, ma il più interessante di tutti» era esattamente ciò che pensavo di me stesso allora, per cui è possibile che la vera ragione per cui amavo così tanto Kippur fosse perché pensavo mi somigliasse. La questione è che anche oggi, pur non essendo più cosi strano, per nulla solitario e abbastanza adulto per capire che non sono il più interessante di tutti, io sono ancora innamorato di questa festa. Forse perché Kippurè l'unica festa che riconosce, per la sua stessa essenza, la debolezza urnana. Se a Pesach Mosé e Dio l'hanno fatta pagare all'Egitto, a Hanukkà Giuda Maccabeo ha fatto a pezzetti gli ellenisti e nella Festa dell'Indipendenza abbiamo combattuto coraggiosamente conquistandoci il nostro Stato, a Kippur non siamo più una dinastia o un popolo, siamo un insieme di individui che si guardano allo specchio, si vergognano di ciò di cui devono vergognarsi e si scusano di ciò di cui è possibile scusarsi. E forse è proprio questa la qualità che a priori mi ha attirato nel Kippur: che di tutte le ricorrenze ebraiche che festeggiamo in Israele, Kippur è la festa più personale, una festa in cui ti trovi da solo di fronte alle tue azioni ed alle loro conseguenze senza trasmissioni televisive, senza bar e ristoranti, senza negozi straripanti di merce e senza il solito frastuono quotidiano che attutisca la cosa. Kippur era e rimane per me "La Festa', sempre. Per cui, sebbene già da anni non mi prenda la briga di augurare alla gente "Buon Anno" a Rosh Hashanà e sia ormai troppo pigro per travestirmi a Purim, prima di Kippur continuo ancora a chiedere scusa alle persone che sento di avere offeso. E vero che è più facile amare una festa che ci prescriva di mangiare bomboloni ripieni di marmellata, invece di una che ti richieda di porti in una posizione scomoda e vulnerabile, ma alla fin fine, quando arrivi in fondo, senti che, a causa di questa festa stramba, ti sei liberato di qualcosa che ti pesava già da molto tempo, senza nemmeno che te ne rendessi conto. La storia di scuse pre-Yom Kippur più strana che mi sia capitata cominciò quando avevo quattro anni. Nell'asilo nuovo a cui ero passato c'era una bambina bella e simpatica che si chiamava Noa. Era una bambina tranquilla e sorridente—due qualità per le quali non mi distinguevo—con i capelli biondi folti e secchi. Avrei tanto voluto giocare con lei, ma non sapevo davvero da dove cominciare: così, dopo sei mesi di osservazione a distanza, decisi che dovevo fare qualcosa ed una mattina, vedendola correre accanto a me nel cortile dell'asilo, le feci lo sgambetto. Noa cadde e prese una botta. Cominciò a piangere e quando la maestra arrivò di corsa per aiutarla, Noa mi indicò e disse: •È colpa sua. È lui che mi ha fatto lo sgambetto*. La maestra, che mi voleva molto bene, mi chiese se fosse vero, ed io risposi immediatamente di no. La maestra si rivolse a Noa e la sgridò: •Etgar è un bravo bambino, che non dice mai bugie. Perché ti inventi cose così terribili su di lui? Vergognati!. Noa, che quasi aveva smesso di piangere, ricominciò daccapo, e la maestra mi fece una carezza sulla testa, allontanandosi poi con passo irritato. Già in quel momento avrei voluto chiedere scusa a Noa e raccontare alla maestra che avevo mentito, ma me ne mancò il coraggio. L'ultimo anno di asilo Noa già non era più in classe con me e nemmeno alle elementari. Al liceo, quando avevo 17 anni, durante un intervallo, una che studiava con me ricordò Noa per nome e cognome, dicendo che era una gran secchiona e che studiava nella sezione di biologia. Eravamo durante il primo mese di scuola, Rosh Hashanà era già passato e Yom Kippur era vicinissimo: alla fine delle lezioni andai ad aspettare Noa accanto alla sua classe. Uscì quasi per ultima, con in testa le cuffie di spugna arancione ed un walkman Sony in mano. Mi apparve completamente diversa da come la ricordavo a quattro anni, quasi non sorrideva ed aveva il viso cosparso di acne, ma i suoi capelli erano rimasti gialli e folti. Mi avvicinai a lei con passo tremante. È sempre difficile chiedere scusa, ma chiedere scusa dopo 13 anni è particolarmente difficile. Volevo dirle che da quel giorno nel cortile dell'asilo della maestra Malcha, mi ero sforzato di non dire più bugie e che tutte le volte che si risvegliava in me la spinta a mentire, mi ricordavo di lei, spettinata, piangente ed offesa in mezzo al cortile, e subito mi trattenevo e dicevo la verità. Le volevo dire che fra un po' sarei stato un uomo, sarei andato nell'esercito e tutto il resto, e riguardando indietro alla mia vita, ciò che le avevo fatto allora, a quattro anni, era l' azione di cui mi vergognavo maggiormente, e nonostante tutto il tempo passato, avrei voluto in qualche modo risarcirla: comperarle un gelato, prestarle la mia bicicletta sportiva per una settimana, o non so che cosa, qualcosa. Ma invece di tutto questo solo il suo nome mi usci dalla bocca: •Noa•, con una voce molto acuta Noa si fermò, si tolse le cuffie e mi fissò con uno sguardo interrogativo. -Sono Etgar — le dissi — Etgar Keret. Una volta eravamo insieme all'asilo della maestra Malcha.. Sorrise e disse che si ricordava dell'asilo, ma non di me. Le raccontai come le avessi fatto lo sgambetto, e di come avessi mentito e di come lei, dopo, avesse pianto per l'offesa ed anche un po' per il dolore, ma lei non ricordava nulla •È stato molto tempo fa*, disse in tono quasi di scusa. •Ma io me lo ricordo — insistetti — e fra un po' è Kippur e volevo chiederti scusa*. •Scusa per qualcosa di stupido che hai fatto quando avevi quattro anni?., disse e sorrise, con quel sorriso gentile che ricordavo ancora dall'asilo e subito aggiunse: •Di un po', anche all'asilo eri cosi strano?* e si mise a ridere, perché era un frase abbastanza acuta per una liceale, ed io non risi, perché già all'asilo ero strano, ma mi sforzai almeno di sorridere. •Ti perdono., disse dopo un breve silenzio, poi si rimise alle orecchie le cuffie arancione e se ne andò. Mi ricordo la via di ritorno a casa, quel giorno. Ero in bicicletta, i pedali giravano senza sforzo, la strada era come priva di attrito e persino le salite sembravano discese. Non l'ho più rivista, ma da allora, tutte le volte che sento un forte bisogno di mentire, mi ricordo di lei all'uscita dalla classe del liceo, con quell'enorme sorriso pieno di acne, che mi dice che mi perdona: allora prendo un respiro profondo e mento.
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