Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 03/10/2014, a pag. 1, con il titolo "Perché i raid non fermano il Califfo sanguinario", il commento di Bernardo Valli; da LIBERO, a pag. 13, con il titolo "I raid degli alleati sono inutili: il Califfato attacca Baghdad", l'articolo di Carlo Panella.
Le milizie dell'Isis marciano su Baghdad
LA REPUBBLICA - Bernardo Valli: "Perché i raid non fermano il Califfo sanguinario"
Bernardo Valli
Il pellegrinaggio alla Mecca avviene in un momento di grande tensione nel mondo musulmano. Il frammento zelante, almeno un milione del miliardo e mezzo di uomini e donne appartenenti all'Islam, che si riversa in queste ore nella città santa in obbedienza al quinto dei pilastri prescritti dal Corano è inseguito dalle notizie del conflitto in corso nella valle del Tigri e dell'Eufrate. Dove si affrontano in una mischia micidiale sciiti e sunniti. La tenzone risale all'epoca della successione a Maometto, ma non è sempre un'ostilità con una netta impronta religiosa. Spesso ha le caratteristiche di una schietta lotta per il potere politico tra comunità avversarie. Nelle guerre di religione i confini sono tracciati dalla fede, limpida o fanatica; quelli tra gli avversari di oggi sono spesso zigzaganti, frastagliati. Mobili. Capita infatti che le alleanze cambino secondo le situazioni.
Tormenta i pellegrini della Mecca il fatto che a rendere rovente lo scontro, fino a trasformarlo in una carneficina, sia la nascita dello «Stato islamico», autoproclamatosi califfato, quindi con alla testa un califfo che si considera il successore del Profeta. L'avvenimento accende passioni: esalta, crea diffidenza, ripugna. Chi è quel califfo? Un apostata? Un millantatore? Un capo religioso e al tempo stesso un combattente come ce n'era un tempo? Uno che sfida l'Occidente infedele fonte di tante frustrazioni? Un terrorista, un tagliateste di cui vergognarsi? In queste ore, mentre sciiti e sunniti si confondono, avvolti nell'identica tunica senza cuciture come vuole la regola, attorno alla Kaaba, il cubo sacro della Mecca, non è poi tanto azzardato immaginare che nelle loro teste, tra preghiere e giaculatorie, frullino quegli interrogativi. Impossibile ovviamente precisare con quale intensità. Ma possiamo essere certi che la piaga riapertasi tra l' Iraq e la Siria, come a significare un ritorno a secoli crudeli, accende nel mondo musulmano tormenti molto più intensi dei timori che assalgono noi occidentali. Loro vi sono immersi, noi paventiamo rigurgiti nelle nostre contrade. Per rendersene conto basta uno sguardo all'ampio campo di battaglia tra la siriana città di Raqqa e quella irachena di Falluja.
Le potenze occidentali più ardite, Stati Uniti in testa, intervengono soltanto con incursioni aeree, si guardano bene dal mandare soldati a terra. Dopo Afghanistan e Iraq, l'America ne ha abbastanza. Le stesse cinque nazioni arabe partecipanti alla grande coalizione (Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Emirati Uniti, Giordania) hanno la stessa reazione, sia pure per altre ragioni. Si limitano a mandare caccia e bombardieri. Niente fanteria. E nell'annunciare le loro azioni adottano toni lapidari. Poche parole. O addiritturail silenzio. II Qatar non ne ha fatto parola. E' come se i cinque monarchi non volessero farlo sapere ai loro sudditi. Non desiderassero turbarli. Hanno aderito all'invito di Barack Obama, non potevano fare una sgarbo alla superpotenza, ma non se la sentono di esaltare un'operazione che li affianca agli occidentali contro dei musulmani. Il califfo usurpatore è sunnita come il re saudita e quello giordano (hashemita), e sunniti sono anche gli emiri, ma uniti lo combattono nonostante l'affinità religiosa perché è un apostata, perché è impresentabile, perché offende l'Islam con le sue decapitazioni e le sue esecuzioni di massa. Ma all'inizio, prima che lo Stato islamico diventasse un tumore, cioè troppo potente, quasi tutte le capitali oggi a fianco degli Stati Uniti hanno aiutato i movimenti islamici. Erano strumenti utili: si opponevano al regime di Damasco, dominato da Bashar el Assad, un alawita imparentato con gli sciti, e quindi alleato del regime iraniano. Il passato riversa nel presente ambiguità, incertezze, doppi giochi, intese segrete. E tanta paura. Lo Stato islamico fa proseliti nel mondo. Gruppi islamici in Africa, in Asia, in Europa che un tempo si richiamavano ad Al Qaeda, oggi si dichiarano seguaci dello Stato islamico. Ma soprattutto appare evidente che il solo intervento aereo non ridurrà al silenzio le unità armate del califfato. In Iraq l'esercito nazionale stenta a ricomporsi dopo la grave sbandata di fronte alla prima offensiva jihadista. Delle cinquanta brigate formate dagli americani prima di lasciare il Paese, ne sono rimaste più o meno operative la metà. Per recuperare i disertori, ufficiali e soldati, ritornati in famiglia, il governo accetta che essi tornino impuniti nelle caserme. Ci vuole tuttavia del tempo per ricreare unità da impiegare sul fronte. E i jihadisti sono a un'ora di automobile da Bagdad. Inoltre molti soldati iracheni preferiscono le milizie sciite, spesso appoggiate, armate, finanziate dall'Iran, rivelatesi in più occasioni le sole capaci di affrontare i jihadisti a terra. A volte con l'appoggio («non concordato») dell'US Air Force. Una situazione che lascia intravedere l'intesa non confessata tra iraniani e americani. In Siria non mancano gli uomini pronti a operare a terra. Non tutti i gruppi di opposizione al regime di Damasco sono jihadisti legati allo Stato Islamico. Ma gli americani non coordinano le incursioni aeree con le forze moderate a terra. E stando alle proteste di quest'ultime, mancando di informazioni, i bombardamenti non hanno per ora messo in difficoltà le truppe del califfato. Hanno colpito soltanto obiettivi secondari. Le incursioni su Raqqa, la «capitale» islamista, sono avvenute quando la città era già stata abbandonata dai guerriglieri. Soltanto combattenti arabi, disposti a operare a terra, possono se non neutralizzare per lo meno circoscrivere le forze jihadiste che Barack Obama e i suoi alleati vorrebbero in un primo tempo arginare. Al Baghdadi, il califfo, è circondato da militari di carriera, disertori dell'esercito siriano oppure ufficiali del disperso esercito iracheno di Saddam Hussein. Uomini abituati a battersi senza un appoggio aereo e sotto i costanti attacchi dell'aviazione nemica. La guerriglia anti americana in Iraq dopo l'invasione del 2003 e la guerra civile siriana sono stati lunghi addestramenti. Conta altresì lo stato d'animo della popolazione. Le repressioni dello Stato islamico non attirano la solidarietà, ma non la suscitano neppure i bombardamenti aerei di stranieri, invisibili, lontani, e con effetti inevitabilmente micidiali anche per i civili, nonostante siano mirati.
LIBERO - Carlo Panella: "I raid degli alleati sono inutili: il Califfato attacca Baghdad"
Carlo Panella
I raid aerei della Coalizione Usa non funzionano e il Califfatto nero continua inesorabile la sua avanzata in Iraq e in Siria. Anche perché in Siria gli attacchi Usa sono concentrati su Raqqa, Deir ez Thur, Hasakah e al Bukamal, città all'interno dei territori conquistati dallo Stato islamico e ben lontane dai fronti di guerra. Così, ieri pomeriggio le avanguardie del Califfato sono riuscite a penetrare nella periferia della città curda di Kobane, al confine tra Siria e Turchia. Desolante l'allarme lanciato da Abdel Rahmane, dell'Osservatorio per i Diritti dell'Uomo siriano: «impressionante la sproporzione delle forze in campo: i peshmerga curdi sono solo centinaia, armati solo di kalashnikov e mitragliatrici pesanti sovietiche DShK, ma combattono contro migliaia di jihadisti che dispongono di carri armati, artiglieri pesante e lanciarazzi multipli da 220 mm. Il 90% degli abitanti ha già lasciato la città, nelle strade di Kobane si scorgono quasi soltanto i peshmerga, pronti a combattere casa per casa, strada per strada. Tutti i viIlaggi attorno sono deserti in modo spettrale e tutti sotto il controllo dell'armata jiahidista».
Perfetto esempio della demenziale strategia di Barack Obama, i raid aerei della Coalizione Usa hanno iniziato a bombardare i miliziani del Califfato - che hanno iniziato l'assedio di Kobane il 16 settembre - solo da 4 giorni e non hanno sortito alcun effetto decisivo. Hanno ucciso qualche centinaia di assedianti e rallentato di pochissimo la loro avanzata. E questa battaglia non è uno scontro marginale, ma assolutamente strategico. Quando conquisteranno Kobane infatti - ed è quasi certo che ci riusciranno - i jihadisti controlleranno una fascia territoriale continua nel nord della Siria, lungo il confine turco, in cui hanno già occupato 350 villaggi curdi.
Il rilievo di questa battaglia è tale che dal carcere di Istanbul in cui è detenuto, il leader dei curdi Turchi Abdullah Ocalan ha avvertito il govemo turco: «Se non impedite la caduta di Kobane annulliamo il processo di pace tra i curdi e la Turchia che abbiamo avviato con grandi passi avanti da 2 anni». Ma è escluso che il premier turco Erdogan impegni le sue forze di terra e di aria, che pure sono dispiegate a pochi chilometri da Kobane, in una battaglia che comunque rafforzerebbe il complesso del movimento curdo. Ma anche in Iraq i raid della Coalizione Usa fanno cilecca, perché colpiscono obbiettivi stravaganti, anche se utili, come le raffinerie che permettono al Califfo di incassare vari milioni al giorno, ma non intervengono, o non hanno efficacia, negli scontri a terra decisivi. È infatti palese che in Siria come in Iraq manca ogni pianificazione seria dei raid, che non ci sono da parte americana quei piani di battaglia che invece palesemente il Califfato dispiega - per di più con eccellente tecnica militare - e che i raid mirano a obbiettivi casuali. Ieri è così caduta Hayat a ovest di Bagdad, la terza base militare irachena (con armi e carri armati) conquistata dal Califfato in dieci giorni. Di nuovo senza che i raid Usa abbiano avuto un effetto sensibile. Peggio dell'aviazione Usa fanno solo l'esercito iracheno - che perde regolarmente ogni battaglia - e l'aviazione irachena. Secondo quanto denuncia Hakim al Zamili, un deputato iracheno, giorni fa gli elicotteri iracheni hanno sbagliato e hanno lanciato viveri e armamenti ai miliziani del Califfato invece che ai militari iracheni assediati a Hayat.
Ma non basta: secondo un report dell'Onu, da mesi i caccia di Bagdad «causano significative perdite tra i civili delle zone sunnite bombardate, colpendo villaggi, ospedali e anche una scuola in violazione del diritto internazionale». Una pratica dissennata, non solo per ragioni umanitarie, ma perché l'unica possibilità di una controffensiva contro l'avanzata - sinora travolgente - del Califfato sta tutta nella capacità politica di distaccare le tribù e la popolazione sunnite dall'alleanza che hanno stretto con il Califfo. Ma, se l'aviazione di Bagdad continua a effettuare bombardamenti indiscriminati sui sunniti, questa possibilità si fa sempre più remota.
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