Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 05/09/2014, a pag. 1, con il titolo "L'Occidente da difendere", l'editoriale di Ezio Mauro.
A destra, il direttore di Repubblica Ezio Mauro
Da oggi Informazione Corretta è meno sola, sempre che l'editoriale di Ezio Mauro "L'Occidente da difendere", abbia un seguito in un decisivo cambiamento della linea editoriale di Repubblica. Un articolo quasi totalmente da condividere per la lucidità e la forza espressiva che lo caratterizza. Scriviamo "quasi" per due motivi:
1- Meglio tardi che mai, si dice in questi casi, a queste conclusioni Ezio Mauro avrebbe dovuto esere arrivato già da anni. Ma questa non vuole essere una critica ma solo un richiamo. Informazione Corretta, ad esempio, segue questa linea sin dalla sua fondazione nell'aprile 2001.
2- I riferimenti internazionali citati da Ezio Mauro sono incompleti perché manca un protagonista essenziale: Israele. Quando si dice "Occidente", dimenticare lo Stato ebraico significa togliere al quadro generale un aspetto essenziale. Israele è in prima linea nella lotta al terrorismo, avendo la capacità nello stesso tempo di rimanere una compiuta democrazia. Ciò che Ezio Mauro - e noi siamo d'accordo con lui - si augura debba caratterizzare i governi occidentali e non debba mai essere dimenticato nella lotta più radicale contro il terrorismo islamico, da un lato, e il risorgente spirito dittatoriale della Russia dall'altro. Avevamo già notato nelle ultime corrispondenze da Israele - di Alberto Flores d'Arcais - una diversa attenzione nei confronti di quanto accade in Medio Oriente, un atteggiamento ben diverso da molti, troppi articoli che hanno in questi decenni marcato sicuramente in senso non positivo la linea di Repubblica nei confronti di Israele. Ben venga quindi il cambiamento, con il nostro augurio che proceda spedito nel decidere da che parte stare. Il titolo del suo editoriale lascia ben sperare.
(Angelo Pezzana)
La terza Nato nasce in Galles dopo la prima, figlia della Guerra Fredda e la seconda dell’età di mezzo, quando con la caduta del Muro sembrò aprirsi un secolo lungo senza più nemici per le democrazie che avevano infine riconquistato il Novecento. La guerra di Crimea riporta nel cuore d’Europa, dove sono nate le due guerre mondiali, truppe, missili, carri armati, morti, feriti, aerei abbattuti. Ritorniamo a guardare i nostri cieli e le nostre mappe con quella stessa inquietudine per il futuro dei nostri figli che i nostri padri avevano ben conosciuto, e noi non ancora. E dagli arsenali della politica, della cultura, della diplomazia e della strategia militare rispuntano insieme con vecchie paure i concetti dimenticati delle “zone d’influenza”, dei “blocchi”, delle “esercitazioni”, dei Muri, della frontiera europea tra Occidente e Oriente, con l’Ovest che ritrova il suo Est e il Cremlino fisso nuovamente nella parte del “nemico ereditario”.
Misuriamo con uguale inquietudine gli sconfinamenti ucraini di Putin e la sua popolarità crescente in patria, nonostante le sanzioni. Scopriamo quel che dovevamo sapere, e cioè che l’anima imperiale e imperialista della Russia è eterna e insopprimibile, dunque non è una creatura ideologica del sovietismo ma lo precede, lo accompagna e gli sopravvive. Anzi: dopo gli anni di interregno, con il pugno di ferro interno e la spartizione oligarchica del bottino di Stato, l’Oriente russo torna a marcare un’identità forte, una sovranità territoriale e politica che mentre si riprende la Crimea non nasconde velleità su Kiev e tentazioni sui Paesi baltici, come se Mosca si ribellasse alla storia e alla geografia d’inizio secolo, contestandole e impugnandole davanti alla sua ossessione ritrovata: l’Occidente.
Nello stesso momento il Califfato islamista appena proclamato tra Siria e Iraq non ha ancora un vero Stato, una capitale, un sistema di relazioni, ma ha un pugnale puntato alla gola di uomini scelti per simboleggiare nel loro martirio individuale una sorta di sfida universale, che va addirittura oltre lo spettacolo di morte dell’11 settembre. La morte sceneggiata come messaggio estremo alla potenza americana, sotto gli occhi di tutto il mondo, rito primitivo del fanatismo religioso e marketing modernissimo del deserto. Nella sproporzione assoluta tra l’inermità innocente del prigioniero e la potestà totale del suo assassino (uno squilibrio miserabile, che esiste soltanto fuori dallo Stato di diritto, dai tribunali, dalle garanzie e dai diritti) si radunano i simboli e le vendette per la guerra del Kuwait dopo l’invasione di Saddam, la caccia ad Al Qaeda in Afghanistan con la ribellione all’attacco contro le Torri, la guerra in Iraq, l’uccisione di Bin Laden, ma anche la sfida islamista tra ciò che resta di Al Qaeda e l’Is, lo Stato Islamico, una partita aperta per l’egemonia politico-religioso-militare del fanatismo. Costruire sul terrore il Califfato significa soprattutto cancellare ogni rischio di contagio democratico anche parziale nei Paesi islamici, ogni istituto prima ancora di ogni istituzione, in nome di quell’«isolazionismo» che Bin Laden predicava e minacciava per cacciare dalla penisola musulmana «i soldati della croce», con i loro «piedi impuri» sui luoghi sacri. Il nemico definitivo è dunque chiaro: l’Occidente.
Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l’avversario eterno, l’Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all’altezza della sfida? Ha almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola, mentre Putin sta rialzando un muro politico e diplomatico che fermi l’America, delimiti l’Europa e blocchi la libertà di destino dei popoli? La risposta della politica è inconcludente, quella della diplomazia non va oltre le sanzioni. Resta la Nato, il vertice del Galles, la polemica sulle spese, il progetto di esercito europeo. Ma la domanda si ripropone oltre la meccanica militare: la Nato può funzionare e avere un significato da protagonista delle due crisi senza una soggettività politica chiara dell’Occidente? In sostanza, il nemico (o meglio: colui che ci elegge a nemico) ha una nozione di noi più chiara di quella che noi abbiamo di noi stessi.
Per tutto il breve spazio “di pace” che va dalla caduta del Muro all’11 settembre abbiamo lasciato deperire nelle nostre stesse mani il concetto di Occidente, mentre altri lavoravano per costruirlo come bersaglio immobile. Lo abbiamo svalutato come un reperto della guerra fredda e non come un elemento della nostra identità culturale, istituzionale e politica, quasi che fossimo definiti soltanto dall’avversario sovietico, e solo per lo spazio della sua durata. Anche gli scossoni geografici nell’Europa di mezzo, seguiti alla caduta del blocco sovietico, e le proposte di allargamento dell’Unione sono stati gestiti con parametri più economici, di mercato e di potenza che ideali. Quel pezzo di Occidente che si chiama Europa è sembrato a lungo incapace di avere un’idea di sé che non nascesse per differenza dal confronto con il comunismo orientale, e quando il sovietismo è caduto è parso in difficoltà a definirsi, a concepirsi come la terra dov’è nata la democrazia delle istituzioni e la democrazia dei diritti. Qui sta la ragione della comunità di destino — e non solo dell’alleanza — con gli Stati Uniti, e stanno anche le ragioni specifiche che l’Europa porta in questa intesa, il rispetto degli organismi internazionali di garanzia e delle regole di legalità internazionale, che per un’alleanza democratica (anche quando è guidata da una Superpotenza) valgono sempre, anche quando è sotto attacco: perché la democrazia ha il diritto di difendersi, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa.
Oggi noi dobbiamo vedere (se non fosse bastato l’11 settembre) che non è l’America soltanto il bersaglio, ma è questo nostro insieme di valori e questo nostro sistema di vita, fatto di libertà, di istituzioni, di controlli, di regole, di parlamenti, di diritti. E contemporaneamente, certo, di nostre inadeguatezze, miserie, errori, abusi e violenze, perché siamo umani e perché la tentazione del potere è l’abuso della forza. Ma la differenza della democrazia è l’oggetto dell’attacco, il potenziale di liberazione e di dignità e di uguaglianza che porta in sé anche coi nostri tradimenti, e proprio per questo il suo carattere universale, che può parlare ad ogni latitudine ogni volta che siamo capaci di comporre le nostre verità con quelle degli altri rinunciando a pretese di assoluto, ogni volta che dividiamo le fedi dallo Stato, ogni volta che dubitiamo del potere — sia pur riconoscendo la sua legittimità — e coltiviamo la libertà del dubbio.
Hanno il terrore di tutto questo, nonostante la nostra testimonianza infedele della democrazia e il cattivo uso delle nostre libertà. Lo ha Putin, con la sua sovranità oligarchica. E lo ha radicalmente l’Is. Ma noi, siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove? In sostanza, siamo disposti a difendere davvero la democrazia sotto attacco?
La sfida è anche all’interno del nostro mondo. Perché nell’allontanamento dalla politica e dalle istituzioni dei cittadini dell’Occidente c’è la sensazione che siano diventate strumentazioni inutili di fronte alla grande crisi economica e alle crisi locali aperte nel mondo. E che la stessa democrazia oggi valga soltanto per i garantiti, lasciando scoperti dalle sue tutele concrete gli esclusi. La somma delle disuguaglianze sta infatti facendo traboccare il nostro vaso: sono sempre esistite, nella storia dei nostri Paesi, ma erano all’interno di un patto di società che prevedeva mobilità sociale, opportunità, libertà di crescita e questo teneva insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle varie congiunture, dello sviluppo, della globalizzazione. Oggi si è rotto il tavolo di compensazione dei conflitti, il legame sociale tra il ricco e il povero, la responsabilità comune di società. Tra i precari fino a quarant’anni e licenziati di 50, produciamo esclusi per i quali la democrazia materiale non produce effetti: e perché per loro dovrebbe produrne la democrazia politica, la partecipazione, il voto?
Contemporaneamente, una parte sempre più larga di popolazione ha la sensazione davanti alle crisi che il mondo sia fuori controllo. E cioè che il sistema di governance che ci siamo dati faticosamente e orgogliosamente nel lungo dopoguerra si sia inceppato, e non produca governo dei fenomeni in atto. Per la prima volta si blocca quello scambio tra il cittadino e lo Stato fatto di libertà e diritti in cambio di sicurezza. Ci si sente cittadini dentro lo Stato nazionale, ma si percepisce che lo Stato-nazione non controlla più nessuno dei fenomeni che contano nella nostra epoca, non ha prodotto istituzioni e democrazia in quello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e informativi dove non per caso la nostra cittadinanza — il nostro esercizio soggettivo di diritti — è puramente formale. Delle istituzioni sovranazionali a noi più vicine — la Ue — sentiamo nitidamente il deficit di rappresentanza e quindi di democrazia. Portiamo in tasca una moneta comune senza sapere qual è la faccia del sovrano che vi è impressa, senza un’autorità capace di spenderla politicamente nelle grandi crisi del mondo, senza un esercito che la difenda. Alla fine dell’Europa sentiamo il vincolo, certo, ma non la sua legittimità.
La stessa America, che doveva essere la Superpotenza superstite al Novecento e dunque egemone, avverte la crisi della sua governance proprio quando l’elezione di Obama aveva dispiegato tutta l’energia democratica di quel Paese, come se quel voto avesse avvertito la coscienza dell’ultimo limite (la differenza razziale come impedimento ad un pieno dispiegamento dei diritti) e la necessità infine di superarlo. Ma nel momento in cui spezzando l’unilateralismo bushista Obama, dopo aver offerto invano il dialogo all’Islam, porta l’America fuori dalle guerre sul terreno, chiudendo un’epoca, la democrazia americana si scopre disarmata e in difficoltà a tradurre la sua forza in politica, e vede Mosca riarmarsi e Pechino lucrare vantaggi competitivi all’ombra delle crisi che investono direttamente Washington.
È come se stessimo testando il confine della democrazia, quasi non riuscisse più a produrre rappresentanza, governo e istituzioni capaci a rispondere alle esigenze dell’epoca. Come se fosse una costruzione del Novecento, giunta esausta a questo pericoloso inizio di secolo. Non sarebbe la fine di un’ideologia, ma di tutto il fondamento dello Stato moderno, di una cultura politica, di un’identità. Per questo l’Occidente oggi va difeso, con ogni mezzo, da chi lo condanna a morte. Anche Vladimir Putin dovrebbe riflettere sulla sfida islamista, domandandosi per chi suona la campana, magari recuperando negli archivi del Cremlino la lettera che l’ayatollah Khomeini scrisse all’ultimo segretario generale del Pcus nel gennaio del 1989: «È chiaro come il cristallo che l’Islam erediterà le Russie».
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