Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 05/09/2014, a pag. 1, con il titolo "Con l'islam è guerra di religione", l'analisi di Giuliano Ferrara.
Giuliano Ferrara
Il progetto di espansione dell'Isis
Mentre nella Serenissima si baloccano con il poetico, quanto di meno cinematografico esista al mondo, in medio oriente subiamo lezioni di epica, cioè narrazione e trasfigurazione, fondamento mitico della realtà. Tenerezza e misericordia a occidente, più nevrosi leopardiane e pasoliniane; giustizia e violenza purificatrice a oriente, più sesso, matrimonio, figli e coltelli seghettati: questo è il luogo globale in cui europei e americani vivono senza volerlo sapere, e pattuglie di avanguardia passano nel campo di Agramante dove la Discordia è un modo di fare la guerra, non necessariamente di perderla. Ogni modello di vita (quando non si intenda un lifestyle) è in nome di Dio, lo si riconosca oppure no. Il nostro Dio è incarnato, crocifisso, umile e grande, e noi lo abbiamo per giunta abbandonato per la fitness; ci si oppone un Dio che è profezia, è mistica, è politica, è scisma, il Dio degli infedeli d’antan (non noi ma i Saracini), un Dio che nessuno di loro abbandona, non i cosiddetti moderati, non i sauditi wahabiti, non gli sciiti, non i sunniti califfali, non i “laici” e i Fratelli (si ammazzano per decidere come ammazzarci, al massimo). Guerra al terrore o al terrorismo va bene, se è per il marketing politico, ma nella definizione, peraltro respinta dai riluttanti e dagli umanitari in quanto espressione bellicista, sta un equivoco colossale. Noi l’avevamo sospettato, e lo gridammo come atroce verità quando pubblicammo come un Caravaggio la testa mozzata di Nick Berg o raccontammo la storia di Daniel Pearl, decollati entrambi in nome del Misericordioso, ma è un sospetto scorretto, una verità intollerabile: è questa una guerra di religione, della cui ferocia ultimativa e coesiva, appunto religiosa, solo un fronte è consapevole, il loro. La madre dell’ultimo reporter ucciso in nome della giustizia divina si dice convinta che l’islam è stato tradito quando su ordine di un Califfo uno sgherro occidentale tutto vestito di nero, stufo probabilmente di fare il dj, ha impugnato la lama e ha tolto dal busto il collo di un figliolo d’occidente, e niente è proibito a una madre addolorata e trafitta senza pietà nell’amore che solo è suo. Ma non è così, lo sappiamo. E’ ideologico esorcizzare il rito del nemico, provarsi a diminuirlo, essere ciechi di fronte alla sua caratura feroce di bene in cui si specchia il nostro impietoso male. Bernardo Valli continua a insinuare analiticamente, ché l’analisi minuziosa e imparziale è spesso la maschera del pregiudizio ideologico contemporaneo, che tutto derivi dall’errore di George W. Bush, Cheney e Rumsfeld, che i nostri nemici li abbiamo creati sciaguratamente noi, che il Baath iracheno era laico e ora i suoi generali sconfitti militano con lo stato islamico per nostra responsabilità, che il campo profetico maomettano non è fatto di nemici in nome di Dio ma di una “stragrande maggioranza” di amici nostri che vorrebbero non il Califfo ma un qualche dialogo interreligioso. La buona intenzione c’è tutta, per un commentatore corretto e di sinistra, ma non è così, lo sappiamo. Piacerebbe a tutti noi poter pensare che il patibolo nel deserto sia una macabra messinscena, uno spettacolo di violenza demenziale e cieca, invece è una rappresentazione corrusca, che lascia balenare un suo fuoco luminoso e insieme accecante. Con Hollywood e la televisione abbiamo sostituito l’epica con i supereroi, altra faccia dell’inconscio freudiano, ma la tremenda realtà dell’omicidio rituale, della morte inferta in nome di Dio, quando l’uomo si fa agnello e il lupo lo azzanna, quando l’angelo caduto si fa vivo in questo mondo, supera la nostra immaginazione agnostica, il nostro benedetto spessore liberale e commerciale, e taglia tutti i ponti. E’ un crudele gioco di intimidazione in cui la palma della vittoria in battaglia è già conquistata dall’islam, la religione che ha tappato la bocca a un Papa di Roma, che ha reso riluttante e timido un potere imperiale e internazionalista come quello americano. So di dire qualcosa di sconcertante, ma non si risponde a questa altezza di sfida e a questa brutalità santificante con lo stato di diritto, con un’idea di polizia internazionale, con la denuncia della violenza; l’unica risposta è in una violenza incomparabilmente superiore.
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