Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/09/2014, a pag. 13, con il titolo "L'arcivescovo Tomasi: 'Serve risposta politica. Giusto usare la forza contro il genocidio'", l'intervista di Gian Guido Vecchi all'arcivescovo Silvano Maria Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede all'Onu di Ginevra.
L'opinione dell'arcivescovo Tommasi verrà recepita in Vaticano ? Vedremo...
Gian Guido Vecchi Silvano Maria Tomasi
CITTÀ DEL VATICANO — «Siamo tutti membri della stessa famiglia umana, e quando i diritti fondamentali di una parte sono violati e le istituzioni locali non possono più proteggerla, allora scatta l'obbligo per la comunità internazionale di fare tutto ciò che può». L'arcivescovo Silvano Maria Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede all'Onu di Ginevra, mormora: «E' urgente intervenire, prima che sia troppo tardi».
Eccellenza, all'udienza Francesco si è rivolto in particolare ai cristiani iracheni, dicendo che la Chiesa «soffre con voi ed è fiera di voi» e «sa difendere i figli indifesi e perseguitati». Che cosa si può fare? «La Chiesa agisce anzitutto attraverso la voce del Santo Padre, le sue parole alla comunità mondiale. Occorre una risposta umanitaria, aiuti alle popolazioni, ma anche una riposta politica per rimuovere le cause di sofferenza e di morte».
II Papa ha detto che è lecito «fermare l'aggressore ingiusto», precisando: «Non parlo di guerra». Questo esclude o no un intervento militare in Iraq? «Quando si usa la forza per bloccare o prevenire un genocidio o un disastro annunciato, non è che si dichiari guerra: si difende semplicemente il diritto fondamentale alla vita che ha ogni persona. II cosiddetto Stato islamico si è messo contro la famiglia umana, non contro questo o quel gruppo. Non si tratta di diritti religiosi ma di diritti umani fondamentali. Siamo tutti figli di Dio e la Chiesa ricorda che la famiglia umana ha una responsabilità. I mezzi operativi li deciderà la comunità internazionale attraverso le strutture che si è data, le Nazioni Unite, il Consiglio di sicurezza...».
È una guerra di religione, se una parte lo presenta così? «Dobbiamo guardare alla sostanza delle cose e non alla verniciatura esterna. I mercenari e gli altri combattenti del cosiddetto Califfato usano un vocabolario religioso per conquistare il potere. Del resto, nell'Occidente secolarizzato, si fatica a trovare soluzioni operative anche per una sorta di allergia o falso pudore davanti alle questioni religiose. Ma quello non è l'approccio corretto. Qui si tratta di cittadini, anche non cristiani. Ed è importante coinvolgere i Paesi della regione: sono loro ad avere l'interesse più immediato a fermare la minaccia di un fondamentalismo che decapita, vende le donne come schiave, uccide e distrugge l'evidenza della storia».
Ha parlato di «urgenza»... «Per le vittime che questo gruppo crudele e inumano continua a fare. E perché il consolidamento sul terreno e politico del cosiddetto Califfato diventa una minaccia che va oltre la regione. Pensi alle migliaia di giovani che si sono arruolati da Paesi occidentali e altrove: se poi torneranno a casa, come si comporteranno?».
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