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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.09.2014 La furia islamista non si placa: secondo reporter americano decapitato dall'Isis
Cronaca e analisi di Maurizio Molinari, Viviana Mazza

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Viviana Mazza
Titolo: «Un altro americano ucciso dal boia dell'Isis: 'Obama, sono tornato' - 'Ci diceva: è spaventoso. E poi ripartiva per la guerra'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/09/2014, a pag. 6, con il titolo "Un altro americano ucciso dal boia dell'Isis: 'Obama, sono tornato' ", l'articolo di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, con il titolo "Ci diceva: è spaventoso. E poi ripartiva per la guerra", l'articolo di Viviana Mazza.

Di seguito gli articoli:


Frammento del video che mostra la decapitazione di Steven Sotloff

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Un altro americano ucciso dal boia dell'Isis: 'Obama, sono tornato' "


Maurizio Molinari

Lo Stato Islamico recapita un «secondo messaggio all’America» con la decapitazione di Steve Sotloff, il freelance rapito in Siria nel 2013.
Il video è postato sul web da Isis e mostra un killer, vestito tutto di nero e con il volto coperto, mentre maneggia un coltello con a fianco il giornalista che scriveva per «Time» e «Foreign Policy». Parlando in inglese, con un accento simile a quello ascoltato in occasione della decapitazione di Foley, il killer si rivolge direttamente al presidente americano Barack Obama: «Sono tornato, Obama, sono tornato a causa della tua arrogante politica estera nei confronti dello Stato Islamico, poiché i tuoi missili continuano a colpire la nostra gente anche il nostro coltello continua a tagliare il collo della tua gente».
Il killer specifica in particolare i raid compiuti dagli aerei Usa contro lo Stato Islamico ad Amerli - dove 15 mila sciiti turcomanni erano assediati - con un riferimento temporale che lascia intendere come l’esecuzione sia avvenuta di recente e non, come alcuni analisti Usa ipotizzano, in contemporanea con quella di Foley. Per l’amministrazione Obama significa trovarsi davanti ad una sfida diretta, e spietata, da parte del più sanguinoso gruppi jihadista. La prima replica arriva dal portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest: «I nostri pensieri e le nostre preghiere vanno anzitutto a Sotloff, alla sua famiglia ed a coloro che hanno lavorato con lui, siamo considerando con grande attenzione tutte le informazioni a disposizione». La prudenza si deve all’incertezza sulla qualità del video diffuso online. Da qui anche le parole di Jan Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato: «Se il video è vero siamo sconvolti dalla sua brutalità». Ma Psaki aggiunge anche che «alcuni americani» sono ancora detenuti «dallo Stato Islamico»: pur non facendo nomi, e non svelando neanche di quanti ostaggi si tratta, l’ammissione sembra tesa a preparare il pubblico nazionale alla possibilità di nuove sanguinose esecuzioni. Isis d’altra parte aveva minacciato di uccidere Sotloff nel video dell’esecuzione di Foley, ed ora ripete il macabro rituale facendo il nome del britannico David Cawthorne Haines, sul quale il Foreign Office al momento non fornisce dettagli.
La madre di Sotloff aveva tentato di evitare la morte del figlio diffondendo tre giorni fa un video nel quale chiedeva direttamente «clemenza» al Califfo e ora, davanti alla brutale esecuzione, la famiglia si chiude nel silenzio: «Siamo a conoscenza dell’orrenda fine di Steven e affrontiamo in lutto in privato, non vi saranno commenti da parte nostra in questo difficile momento» afferma Barak Barfi, portavoce dei Sotloff.
Il freelance decapitato aveva 31 anni, aveva lavorato per i magazine «Time» e «Foreign Policy» pubblicando articoli da Iraq, Egitto e Libia, ed era originario della Florida, dove aveva studiato giornalismo. Il magazine «Foreign Policy» lo ricorda come «un giornalista coraggioso e di talento, i cui scritti dimostravano una grande attenzione per i civili intrappolati nel bel mezzo di una guerra brutale». La seconda esecuzione di un americano nell’arco di pochi giorni spinge il Congresso di Washington ad alzare la voce. «Il video dimostra che lo Stato Islamico è composto da barbari - afferma Ed Royce, presidente della commissione Esteri della Camera - l’America e gli alleati devono incrementare gli attacchi militari contro di loro». Il premier inglese Cameron ha definito il video «spregevole».

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza: 'Ci diceva: è spaventoso. E poi ripartiva per la guerra'


Viviana Mazza

La madre di Steven Sotloff aveva taciuto per un anno intero. Aveva custodito l'angoscioso segreto del rapimento di suo figlio Steven per paura che, raccontandolo ai media, lo avrebbe messo ancor più a rischio. Il 19 agosto, quando lo ha rivisto per la prima volta, in ginocchio davanti al boia, nello stesso video in cui James Foley veniva decapitato, Shirley Sotloff ha detto soltanto poche parole alla stampa che iniziava ad assediare la sua casa di Miami: «E' ancora vivo, e non c'è nient'altro da dire». Poi, la settimana scorsa, ha cambiato strategia: è apparsa anche lei in un video, che ha fatto discutere i media americani perché si rivolgeva al capo dei jihadisti, Abu Bakr Al Baghdadi, riconoscendolo come «Califfo dello Stato Islamico». Pallida, lo implorava di risparmiare «il suo bambino»: un «giornalista innocente». «Come Califfo puoi graziarlo. Ti chiedo di seguire l'esempio del profeta Maometto che diede protezione alla "Gente del Libro"», che include cristiani e ebrei. Steven è ebreo, come ha scritto la stampa ebraica americana. Dopo il video di ieri, che annunciava la decapitazione del giornalista, la madre è tornata a tacere. Sotloff, 31 anni, è un giornalista freelance come Foley e come la maggior parte dei reporter rapiti in Siria negli ultimi tre anni. Ha scritto per quotidiani e riviste americani tra cui Time Magazine, Foreign Policy e il Christian Science Monitor. La passione per il giornalismo era nata al liceo, nell'unico periodo in cui da ragazzo aveva lasciato la Florida per studiare in New Hampshire: aveva iniziato a dirigere il giornalino della scuola con un compagno, e aveva continuato anche con quello universitario. Era affascinato dalle realtà tumultuose del Medio Oriente. Intorno al 2010 andò a vivere in Yemen per alcuni anni, aveva imparato l'arabo. «Amava profondamente il mondo islamico», ha spiegato un'amica giornalista. «Voleva raccontare le sofferenze dei musulmani sotto il gioco dei tiranni», ha detto la madre. Prima di recarsi in Siria, era stato in Turchia, Libia, Egitto, Bahrein scrivendo reportage di guerra. Ad amici e parenti diceva di conoscere i rischi «Un milione di persone avrebbero potuto dirgli che stava facendo una pazzia, a noi che lo guardavamo dall'esterno sembrava così. Ma era quello che amava fare ed era impossibile fermarlo», ha raccontato un ex compagno dell'università. «Ti diceva che laggiù era spaventoso, che era pericoloso. E continuava a tornarci». Nei giorni scorsi una petizione firmata da oltre 11.000 persone era apparsa sul sito della Casa Bianca: chiedeva a Obama «di usare ogni mezzo» per salvare Steven Sotloff. Alla notizia della decapitazione ieri, messaggi di orrore e di dolore si sono riversati sui social media, accanto a ricordi affettuosi, a sue foto con l'elmetto e ad appelli a ripensare a lui non con il coltello alla gola, ma per il suo lavoro. Sono stati «linkati» diversi suoi vecchi articoli, accomunati dal tentativo di raccontare il punto di vista della gente locale nelle crisi più brutali. In Egitto diede voce ai sostenitori della Fratellanza Musulmana «La gente ha votato per Morsi — gli disse uno di loro — e ora chiede perché una minoranza ha deciso che non può governare». In un altro articolo per la rivista Time sulla Libia, pubblicato dopo l'assassinio del console americano Stevens a Bengasi, Sotloff scrisse parole profetiche: «I libici temono che il Paese stia crollando lentamente intorno a loro». Su Twitter, dove si descriveva come «filosofo cabarettista di Miami», Steven rivela il suo senso dell'umorismo: nell'ultimo tweet, scritto il 3 agosto, il giorno prima della scomparsa, si doleva degli insuccessi dei «Miami Heat», la sua squadra di basket del cuore. Anche quand'era in Siria, la sua Florida non era troppo lontana. E la madre, fino all'ultimo, ha sperato di poterlo riportare a casa. «Voglio solo quello che ogni madre vuole: poter vivere per vedere crescere i figli dei propri figli».

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