Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/09/2014, a pag. 1, con il titolo "Quando Obama si smarrisce", l'articolo di Angelo Panebianco.
Angelo Panebianco Barack Obama
Obama si è lasciato sfuggire ciò che tutto il mondo, nemici dell’America compresi, ha capito benissimo: la sua Amministrazione non dispone di una strategia per fronteggiare il Califfato siriano-iracheno. In realtà, si tratta di un giudizio fin troppo generoso: è da tempo che quasi tutti gli osservatori, anche quelli un tempo più simpatetici nei suoi confronti, constatano che l’Amministrazione Obama non dispone di una discernibile strategia di politica estera in quasi nessuno degli scacchieri che contano. Le critiche di Hillary Clinton, ex segretario di Stato e futura candidata democratica alla presidenza, non sono infondate.
Tutto ciò ci riguarda? Ci riguarda moltissimo. Perché l’Europa è legata a filo doppio all’America e l’assenza di una strategia di politica estera della seconda getta nel marasma la prima. L’Europa, lasciata a se stessa, come si è potuto constatare in questi anni, è — retorica europeista a parte — un insieme di Stati nazionali che hanno alcuni interessi in comune e hanno altri interessi divergenti e in competizione. Solo una chiara e dominante strategia americana può mettere un certo ordine e dare un po’ di coesione all’Unione, in particolare quando essa è alle prese con crisi internazionali.
Facciamo due esempi. Dimostrano che, senza una leadership americana, gli europei sanno soprattutto danneggiarsi a vicenda. Cominciamo dal caso libico. Il marasma della Libia post Gheddafi è la causa principale della situazione (sbarchi, operazione Mare Nostrum) che fronteggiamo nel Mediterraneo. All’origine ci fu un intervento, deciso da alcuni Stati europei, con l’avallo americano, contro Gheddafi, cui seguì il disinteresse di quegli stessi Stati per la situazione creatasi dopo la caduta del dittatore. La responsabilità principale, per quel che riguarda sia l’intervento militare che la caduta di interesse a intervento avvenuto, è della Francia.
Fu l’allora presidente Sarkozy, spalleggiato dagli inglesi, a volere l’azione anti Gheddafi. Per ragioni e calcoli molto «francesi». C’erano i sondaggi sfavorevoli al presidente e l’idea (poi rivelatasi sbagliata) che una guerra vittoriosa contro un tiranno arabo gli avrebbe restituito lustro e un po’ di consensi perduti. E c’era, inconfessata, la voglia di rifarsi a spese degli italiani. Le primavere arabe, eliminando il dittatore tunisino Ben Ali, uomo della Francia, avevano messo in discussione l’influenza francese in Tunisia. Perché dunque non intervenire in Libia, dove erano sempre stati prevalenti, per ragioni storiche, gli interessi italiani, al fine di ritagliarsi un ruolo nel dopo Gheddafi?
Obama, che nemmeno allora disponeva di una strategia per il Medio Oriente (si pensi alle contorsioni e all’improvvisazione dell’America in tutta la vicenda egiziana: dalla caduta di Mubarak a quella di Morsi) avallò la scelta francese e fece anche pressioni su un’Italia, comprensibilmente riluttante, perché si accodasse all’intervento armato.
Dopo di che, una volta eliminato Gheddafi, subentrò il disinteresse dei francesi. Chi aveva eliminato la dittatura non si sentì in dovere di contribuire alla ricostituzione di un ordine politico in Libia. A loro volta, gli americani, colti di sorpresa dall’assassinio dell’ambasciatore Chris Stevens, non furono capaci di prendere l’iniziativa, di decidersi a fronteggiare in qualche modo il caos libico. Tutti, in sostanza, se ne lavarono le mani, consegnarono agli italiani il cerino acceso.
Un secondo esempio è dato dalla guerra ucraina. Troppe divisioni in Europa di fronte al rinato imperialismo russo hanno fatto a lungo il gioco di Putin. Le preoccupazioni geopolitiche di alcuni Paesi europei che chiedevano fermezza erano in conflitto con l’interesse di altri Paesi europei a preservare i rapporti economici con la Russia. E un’America le cui debolezze su tutti gli scacchieri erano e sono ben chiare agli europei dell’Unione (oltre che a Putin) non aveva l’autorevolezza necessaria per imporre coesione. Non è bastata la conquista della Crimea per creare un fronte compatto europeo. Anche se la scelta di un polacco, Donald Tusk, come presidente del Consiglio europeo è stata forse un passo in quella direzione, non è nemmeno certo che quel fronte possa costituirsi ora, dopo che i russi hanno dimostrato di non essere disposti a fermarsi, a mettere fine alla guerra, prima di avere riconquistato, in un modo o nell’altro, il controllo sul destino dell’Ucraina.
Nessuno sfugge alla propria storia. L’integrazione europea mosse i suoi primi passi nell’età della Guerra fredda, e ottenne i suoi primi, spettacolari, successi, grazie a una divisione dei compiti: gli europei poterono concentrare i loro sforzi sull’integrazione economica perché la difesa armata dell’Europa e tutte le decisioni importanti nelle questioni militari erano delegate agli americani. La Guerra fredda è finita da venticinque anni circa ma in tutto questo periodo l’Europa non ha dato segni di sapersi muovere unita, e in autonomia dagli Stati Uniti, sui problemi della sicurezza.
Anche agli europei, dunque, serve un’America che, anziché limitarsi a constatare di non avere una strategia, sia di nuovo capace di darsela, e non solo per quanto riguarda il Califfato. In fondo, non è ciò che sperano anche gli ucraini mentre chiedono (agli americani) di essere accolti nella Nato?
Mentre ci complimentiamo per la sua nomina con Federica Mogherini, il nuovo «ministro degli Esteri» europeo, osserviamo che il lavoro che l’aspetta diverrà molto più semplice se gli americani riconquisteranno, anche solo in parte, la perduta capacità di visione e di leadership.
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