Ecco cosa è l'Isis: fermarlo è un dovere Intervista di Lorenzo Cremonesi a un capo militare del gruppo terroristico. Opinioni di Ian Bremmer, Giuseppe Laras, Marco Carrai.
Testata: Corriere della Sera Data: 11 agosto 2014 Pagina: 3 Autore: Lorenzo Cremonesi - Massimo Gaggi - Giuseppe Laras - Marco Carrai Titolo: «'Qui può tornare soltanto chi si converte all'Islam' - 'Sono i terroristi più potenti della Storia' - La drammatica lezione dei perseguitati - L'uso della forza e la difesa dell'umano»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/08/2014, a pag. 3, l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Haji Othman, dal titolo "Il comandante dell'Isische ha censito i cristiani: 'Qui può tornare soltanto chi si converte all'Islam'" , a pagg. 2-3 l'intervista di Massimo Gaggi al politologo Ian Bremmer, dal titolo 'Sono i terroristi più potenti della Storia. E Obama non può restare a guardare", da pag 31, l'articolo di Giuseppe Laras, Presidente del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia, già Rabbino capo della Comunità ebraica di Milano, dal titolo "La drammatica lezione dei perseguitati. Il dovere delle fedi è non abbandonarli" e l'articolo di Marco Carrai, Presidente Cambridge Management Consulting Labs, dal titolo "L'uso della forza e la difesa dell'umano".
Cristiani in fuga da Mosul
Di seguito, l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Haji Othman:
Lorenzo Cremonesi
ERBIL — Pronto, parlo con Haji Othman del Califfato Islamico a Mosul? «Sì, ma con chi parlo?». La risposta arriva per un attimo titubante al mio traduttore iracheno. Sono un giornalista italiano e telefono da Erbil. «E come hai avuto il mio numero, chi te lo ha dato?». Me lo hanno dato i cristiani scacciati da Mosul che ho incontrato nelle chiese di Erbil. Eri stato tu a darglielo quando passavi nelle loro case per rassicurarli, prima di scacciarli. Non ti ricordi? Possiamo farti qualche domanda per telefono? È difficile parlare con voi. «Va bene, ma poche domande. Ho fretta, ho cose da fare», risponde più aggressivo. Haji Othman è l’uomo che i cristiani fuggiti a Erbil descrivono come rappresentante del «Califfato» per i rapporti con le comunità non musulmane. E dicono che li ha traditi: ha preso i loro nomi, i numeri telefonici e individuato le loro abitazioni. Ha censito la popolazione cristiana. Prima li ha rassicurati, invitandoli a restare nelle loro case a Mosul, ma pochi giorni dopo, dalle moschee è arrivato l’ordine di scegliere tra convertirsi, pagare una tassa o essere uccisi. La linea è un poco disturbata. Si sentono forti rumori e voci di sottofondo, come se fosse per strada. Lui non fa nulla per farli tacere. È disponibile, ma appare chiaro che potrebbe chiudere il telefono da un momento all’altro. Cominciamo allora con una domanda accomodante. Come spieghi i recenti successi militari dei combattenti del Califfato? Cosa vi ha facilitato l’avanzata nei territori curdi? «Questo è ancora nulla. Siamo solo all’inizio», risponde d’impeto, evidentemente pungolato nell’orgoglio. Cosa vuoi dire, che armi avete? «Sino ad ora abbiamo utilizzato solo una minima parte delle forze che abbiamo a nostra disposizione. Voi non potete neppure immaginare quanto siamo forti». Cioè? «Abbiamo un potere immenso. Resterete tutti stupefatti. Non potete resisterci». Però l’aviazione americana vi sta bombardando a suo piacimento. Non costituisce un problema? «Ma dai! Cosa stai a dire?», replica scoppiando in una risata. Segue qualche secondo di silenzio, parrebbe abbia chiuso la linea. Ma poi riprende: «Non abbiamo mai avuto paura degli americani, neppure quando nel passato eravamo più deboli. Perché mai pensi che dovremmo avere paura oggi? Li abbiamo battuti prima e li batteremo ancora. Allah maledica gli americani e i loro alleati! Faranno una brutta fine». Cosa rispondi ai cristiani che vorrebbero tornare alle loro case di Mosul e nella piana di Ninive? «Che possono tornare, saranno i benvenuti. Ma a una condizione: che si convertano all’Islam. Allora li accoglieremo da fratelli». E se vogliono restare cristiani? «Allora devono pagare la Jeziah (l’antica tassa imposta dai musulmani alle minoranze non islamiche, ndr.). Non hanno alternative. Ora basta però, sono occupato, chiudo». No, per favore, aspetta. Spiegaci, a quanto ammonta la Jeziah, come la calcolate? «Fratello, io sono un militare. Non mi occupo di cose contabili. Io combatto e basta. Questi aspetti vanno chiesti ai nostri imam nelle moschee di Mosul. Sono loro che stabiliscono le leggi e le loro applicazioni. Yallah, devo andare!». Siamo agli sgoccioli. Tra pochi secondi in ogni caso interromperà, si capisce dal tono della sua voce sempre più impaziente. Tanto vale terminare con una domanda che certamente gli dà fastidio. Però in tutto il mondo si racconta dei vostri crimini compiuti contro gli yazidi. Cosa avete fatto alle loro donne? E vero che sono diventate le vostre schiave sessuali? «Ma non è vero per nulla! Sono i media che riportano queste falsità. Sono menzogne. Noi non facciamo queste cose». Eppure le raccontano gli yazidi… Othman interrompe qui. Il tono è secco, duro: «Ora basta! Finito. Noi non facciamo queste cose, capito? Basta con queste menzogne! E non mi telefonare mai più. Cancella il mio numero!».
Di seguito, l'intervista di Massimo Gaggi a Ian Bremmer
Massimo Gaggi,Ian Bremer
NEW YORK — «Lo credo bene che, rotti gli indugi e iniziati i bombardamenti, Obama abbia detto che il nuovo impegno militare Usa in Iraq, limitato come scopo, non sarà affatto limitato nella sua durata: l’autoproclamato Califfato non è un problema interno dell’Iraq o della Siria. È un’entità che minaccia la stabilità di tutto il Medio Oriente. E, con le armi e il denaro che ha ricevuto e il massiccio reclutamento delle ultime settimane, anche tra i gruppi africani e dello Yemen vicini ad Al Qaeda, l’Isis è diventato l’organizzazione terrorista più potente della storia dell’umanità». Ian Bremmer, politologo, fondatore di Eurasia, il maggiore centro americano di analisi dei rischi geopolitici internazionali e autore di alcuni saggi di successo, parte dal suo ultimo libro («Every Nation for Itself») e dal suo significativo sottotitolo («vincitori e vinti nel mondo G-zero») per spiegare la moltiplicazione dei conflitti, soprattutto in Medio Oriente: «Quello che è accaduto prima in Siria, poi in Iraq, è proprio conseguenza di questo mondo G-zero nel quale non c’è più un direttorio internazionale — un G a due, a sette o a venti che sia — né una leadership americana. Il ritiro Usa da Bagdad ha lasciato aperto un varco, ma sono stati soprattutto la durezza scriteriata di Assad a Damasco e gli errori madornali di Al Maliki con la sua politica settaria in Iraq a spalancare le porte a questa falange del terrore. Dietro la quale si sono allineati i sunniti in rivolta contro il regime sciita di Bagdad». Quanto è grave, oggi, la minaccia di un attacco terroristico dell’Isis negli Stati Uniti ed in Europa? «Nel mirino, ovvio, ci sono soprattutto gli Usa. Ma, a differenza di Al Qaeda, che aveva ambizioni planetarie, l’Isis è molto più legato allo scacchiere mediorientale. Sono possibili attacchi a sedi diplomatiche e interessi americani nel mondo arabo e nell’Asia centrale, ma se devo citare l’elemento più spaventoso del loro potenziale terrorista, penso alla diga sul Tigri, la più grande dell’Iraq: la sua conquista da parte dei ribelli del Califfato è stato uno “choc” per tutti. Se la facessero saltare, i terroristi seppellirebbero Mosul sotto metri d’acqua. Probabilmente non lo faranno. Ma adesso dispongono di un deterrente micidiale. E comunque possono lasciare senz’acqua l’intera provincia di Ninive». Più che dall’emergenza umanitaria, gli americani sembrano mossi dal desiderio di evitare che anche il Kurdistan cada nelle mani nell’Isis. «L’offensiva dell’Isis e l’intervento degli Usa segnano la fine delle speranze dei curdi di dar vita a uno Stato indipendente. Approfittando della debolezza di Bagdad, i curdi avevano esteso del 40% l’area sotto loro controllo, rispetto alla situazione iniziale. Non si aspettavano la reazione dell’Isis che, invece, c’è stata. Hanno dovuto chiedere aiuto agli americani che sono andati. E che, com’è noto, sono contrari all’indipendenza del Kurdistan». Sarà guerra aperta? I prezzi del petrolio andranno di nuovo alle stelle? «No, mi aspetto un conflitto limitato: Obama vuole bloccare l’avanzata dell’Isis ma non distruggerlo. E vuole cacciare da Bagdad Al Maliki. Che, invece, è ancora appoggiato dai suoi alleati russi e iraniani. Se non si fosse mosso il Pentagono c’era il rischio che ad offrire una copertura aerea al regime sciita fossero Mosca o Teheran. Comunque non credo che l’Isis voglia espandere il controllo del suo territorio a sud, verso Bassora o anche a Bagdad. Vogliono rafforzarsi nelle zone sunnite, prendere il controllo totale delle risorse. Magari lanceranno attacchi terroristici contro le strutture petrolifere controllate da sciiti e curdi, ma non ci scommetterei. Per ora non vedo grande distruzione della capacità di estrazione e distribuzione del greggio, salvo la chiusura di un oleodotto che va verso la Turchia». Molti analisti dicono che sta saltando un equilibrio geopolitico che risale alla Prima Guerra mondiale. L’Isis ha cancellato il confine tra Iraq e Siria. È un fatto irreversibile? Faranno la stessa fine il confine con la Giordania e quello tra Siria e Libano? «La Siria è a pezzi ma ha ancora un’organizzazione centrale funzionante. L’Iraq non esiste più come stato unitario. Forse può restarlo nelle mappe, ma solo lì: i confini non esistono più. Ci sono solo territori e popolazioni leali a questo o a quel leader. Non credo, però, che salteranno molti altri confini. Fosse andata avanti la “primavera araba”, forse sarebbe successo. Ma è arrivata la reazione, si sono insediati governi più autoritari di quelli che c’erano in origine, come in Egitto. E qui i confini non sono di certo in discussione. La Giordania è sotto pressione, ma lì ci sono gli americani, decisi a difendere il Paese. Il Libano, come sempre, è un punto interrogativo».
Di seguito, l'articolo di Giuseppe Laras:
Giuseppe Laras Le nostre parole e le nostre azioni a favore dei cristiani del Medio Oriente sono tarde, colpevolmente in ritardo. Da numerosi anni, in una regione estremamente vasta, che va dal Nord Africa sino alla Siria e all’Iraq, nel silenzio generale dell’Occidente — e dell’Europa in particolare —, cristiani e altre minoranze, tra cui i pacifici yazidi, sono sottoposti a terrore, violenze continue e morte. Poco importa se si è preferito tacere per interessi economici, per «strategie» politiche o per un politically correct benpensante e ignavo, tanto salottiero e cieco quanto ideologico e dispotico. Il risultato è che si sono abbandonate a se stesse, e così sacrificate, centinaia di migliaia di vite. E questo abominio si perpetua senza posa. Il Popolo ebraico in quelle stesse terre, nel corso dei passati otto decenni, è già stato sottoposto a prove analoghe che prevedevano l’alternativa tra la morte e l’espulsione. Anche in quel caso vi fu colpevole silenzio da parte dell’Occidente, nonostante la feroce persecuzione e la conseguente fuga abbiano riguardato centinaia di migliaia di persone. Quelle terre oggi, nella stragrande maggioranza, sono completamente judenrein , ovvero prive di ebrei. Così sono state annientate le gloriose e plurisecolari comunità ebraiche di Tripoli e Bengasi, di Alessandria d’Egitto e del Cairo, di Etiopia e dello Yemen, di Aleppo e Beirut, assieme a quella irachena di Bagdad. Fu così che iniziò la diaspora degli ebrei sefarditi di Oriente, rifugiatisi anzitutto in Israele, ma anche in Europa e nelle Americhe. Dopo di loro è toccato ad altre minoranze. Oggi gli ebrei francesi, per la maggior parte esuli di quelle terre, abbandonano a centinaia la «laica» Francia alla volta di Israele perché hanno nuovamente paura. In queste ore noi tutti cittadini dell’Occidente, ed europei in particolare, assistiamo, gravati dalla colpa di decennali silenzi insanguinati nei loro confronti, alla tragica diaspora dei cristiani. È un fatto drammatico e terribilmente doloroso, che per la sua gravità segnerà la storia umana. La lezione che i perseguitati cristiani d’Oriente stanno impartendo al mondo è duplice e preziosa: una indirizzata ai loro fratelli di fede, una destinata a ogni essere umano libero. È un imperativo morale raccoglierla, ignorarla è già in sé un crimine. Esiste un principio imprescindibile inerente al valore assoluto della vita umana e della sua tutela, che prevede la fedeltà a se stessi e alla propria storia, la preservazione ferma della propria identità e diversità, la difesa della propria e dell’altrui dignità, che si esprime nel preferire la morte e la persecuzione all’abiura e alla conversione forzata. Non è cioè rinunciando a se stessi che si vive — al massimo forse, almeno per un po’, si sopravvive. Il coraggio determinato e la dignità violentata di queste persone devono smuovere menti, cuori, azioni e politiche. Se ciò non accade, abbiamo tutti perso. E saremmo tutti complici. Questa lezione drammatica pone interrogativi inquietanti, divenuti ormai urgenti e ineludibili, alle democrazie occidentali e al mondo libero, se vogliono continuare a essere tali. In particolare, ci ricorda che i fondamenti e i riferimenti simbolici, etici, politici e giuridici dell’Occidente non appaiono purtroppo condivisi nella loro evidenza e universalità. Essi, infatti, potendo essere sovvertiti e disattesi, richiedono un’educazione continua. Ricorda l’arcivescovo di Mosul che «i vostri principi liberali e democratici qui non valgono nulla». Occorre necessariamente riconoscere che tali valori scaturiscono, per storia e contenuti, dall’incontro tra radici «greche» e «bibliche». Negare ideologicamente e strumentalmente tali «radici», e in particolare le seconde, significa ignorare la realtà, disattendere la storia e potenzialmente esporre a oscure insidie quanto con difficoltà conquistato attraverso i secoli e il sacrificio di milioni di vite umane. Qualcuno può ritenere che si tratti di vicende alla periferia del mondo libero, ove imperversa la barbarie, ove la civiltà ci fu sì, ma migliaia di anni fa e senza potenti e dirette implicazioni nei riguardi di ciò che oggi siamo. Va ricordato che il Talmud fu redatto in Babilonia; che fu l’ebraismo babilonese, sino quasi al secolo XI, a guidare, permettendone così la sopravvivenza, l’intero ebraismo diasporico. Il cristianesimo di quelle terre, parimenti, è tra i più antichi al mondo, ricco di teologie e liturgie diverse, il cui Patriarca ebbe per secoli influenza nella nomina del vescovo dei cristiani di San Tommaso, la millenaria e remota comunità cristiana del Kerala. La florida Bagdad islamica, tra l’VIII e il X secolo, era caratterizzata dalla compresenza di etnie e religioni diverse, spesso frazionate al loro interno: cristiani (caldei, copti, nestoriani, armeni, latini), musulmani, zoroastriani, mandei, ebrei e caraiti. Il Califfato abbaside cercò di dotare l’impero islamico di una forza e di una vivacità intellettuale, dalle scienze alle lettere, dall’architettura alla matematica e alla teologia, almeno pari a quelle coeve dell’impero bizantino. E così l’Islam contribuì a salvare l’eredità greca e fu maestro di una certa capacità inclusiva e di tolleranza. È anche per questo che non si possono lasciare soli i cristiani di Iraq. O ritenere che i loro aguzzini possano prosperare, una volta messi in salvo — se ci si riuscirà — i cristiani superstiti. Abbandonare quelle terre equivale ad abbandonare le nostre radici. Tollerare tali persecutori sulla scena internazionale pone un’enorme ipoteca sul futuro del Medio Oriente, del Nord Africa e dell’Occidente. Un ricordo, infine, è doveroso nei confronti dei molti musulmani di Occidente, che conducono una vita buona, onesta e degna, che onora loro e l’Islam, spesso sfuggiti anch’essi a simili persecuzioni per vari motivi, contro cui gli xenofobi proiettano responsabilità collettive, indebite e degradanti. Dobbiamo chiedere a Dio di infondere una lungimirante intelligenza di cuore (più acuta di quella del pensiero) nei governanti e nei loro consiglieri. La pace, in particolare, non va assolutamente intesa come tacita tolleranza di soprusi o come non decisa opposizione nei confronti di chi opera in spregio dell’altrui vita, dignità e libertà. Al contrario, è preciso dovere religioso fattivamente contrastare, con fermezza, determinazione, responsabilità e coraggio, ogni forma di tirannia e persecuzione. CORRIERE della SERA - Marco Carrai: " L'uso della forza e la difesa dell'umano"
C’è un filo comune che unisce la follia della persecuzione in Iraq dei cristiani a opera delle milizie dell’Isis, i nuovi recenti spregevoli attacchi antisemiti a Roma, i continui attentati su obbiettivi civili tramite razzi a opera di Hamas e i bambini palestinesi rimasti sotto le macerie di un palazzo abbattuto a Gaza. Questo filo si chiama incapacità di riconoscere che la Storia costantemente produce il male assoluto e che l’etica, la morale e lo ius non sempre sono capaci di frenarlo e contenerlo. Di fronte a questo dato evidente, per difendersi e per difendere raccapriccianti morti innocenti, è opportuno usare la forza. Se infatti l’atto di fede è un atto individuale che può comportare anche il martirio, la comunità internazionale non deve e non può agire per atti di fede, ma per giustizia codificata da regole internazionali. Qui non si tratta più di capire cosa è giusto e cosa ingiusto, ma cosa è umano e cosa è disumano. Vir qui adest , è l’uomo che ti sta davanti, scriveva sant’Agostino anagrammando la domanda di Pilato: «Quid est veritas?», «Che cos’è la verità?» . Qui si tratta allora di difendere l’umanità, di sforzarsi di uscire dalle logiche utilitaristiche del mondo moderno per riconoscere — come dolorosamente e profondamente diceva Lévinas — il nostro volto in quello dell’altro. È accaduto troppe volte nella Storia che gli attendismi abbiano provocato drammi incalcolabili. La storia non procura accidenti per sensi di colpa ma per colpa di qualcuno. Che tutti hanno il diritto-dovere di fermare. Prima che sia troppo tardi. Allora si svegli l’Europa capace di star dietro solo ai conti e che conta solo i morti. Si svegli l’Organizzazione delle Nazioni Unite perché è forse l’ultima occasione per dare il senso della propria esistenza. Non è più tempo di tattica. È tempo che i terroristi di Hamas siano disarmati, che ai Palestinesi sia riconosciuta una patria libera e democratica senza che i soldi dell’Onu finiscano a finanziare l’odio verso Israele nelle scuole palestinesi; che Israele sia tutelato come unica democrazia compiuta del Medio Oriente e che in Iraq si usi la forza non per fare la guerra ma per fermare degli assassini. Di questo si tratta: solo di assassini. Gli stipiti delle porte, racconta la Bibbia, furono segnati dall’Angelo del Signore per difendere il Popolo eletto in schiavitù. Oggi si segnano per discriminare ebrei e cristiani. Allah, Adonai, Gesù Cristo sono troppo grandi per questa storia.
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